PrimaValle Epidemic Fase 4

“Tu uomo! No capace?”

Covid o non Covid, è arrivata l’estate. Abbiamo tirato fuori dallo sgabuzzino i vecchi ventilatori cinesi – vecchi per modo di dire, hanno solo due anni – per constatare, con orrore, che uno dei due era morto. È morto così, senza alcun motivo apparente. Aveva il suo solito aspetto plasticamente allegro, così grazioso nel suo colore bianco-verde acqua e nemmeno una vite fuori posto. Eppure era morto. Quand’è così, non riesci facilmente a fartene una ragione, e abbiamo tentato la rianimazione più volte, ma non c’è stato nulla da fare.

Primavalle Epidemic fase 4:  ventilatore morto
Il ventilatore cinese morto prima del tempo

Ho detto a Ettore:

“Vai dai cinesi a comprarne uno nuovo, di quelli da 19 euro, ma che sia già montato, mi raccomando!”

Credetemi, non è un fatto di imbranataggine. Abbiamo montato con successo mobili Ikea, i vecchi mobiletti da computer di una volta che avevano un sacco di mensole da tutte le parti, armadi da giardino, il lettino di mio figlio da piccolo, ma i ventilatori cinesi… per quelli credo ci voglia una laurea in ingegneria. O la capacità di vedere il mondo in quattro o cinque dimensioni, capacità che, purtroppo, non possiedo.

Ettore è tornato, chiaramente, con lo scatolone in mano e il ventilatore tutto da costruire. La cinese del negozio gli aveva detto:

“Facilissimo da montale!” e lui, di conseguenza, le aveva creduto.

Ci siamo messi lì, in soggiorno, con santa pazienza, abbiamo tirato fuori tutti i pezzi e, un po’ col ragionamento (primo errore) un po’ guardando il ventilatore morto abbiamo costruito una cosa, che assomigliava ad un ventilatore ma aveva un’aria infelice e macilenta. Inoltre, non si reggeva in piedi e nemmeno funzionava. Dopo due o tre ore calde e infernali in cui abbiamo fatto e disfatto il tutto più volte, tentando anche un audace ibrido, per la serie “uniamo la parte di sotto del morto con la parte di sopra di quello vivo” ci siamo arresi.

“Che ti avevo detto? Se non è montato non lo prendere!”

“Sì ma la cinese ha detto che è facilissimo da montare”

“Certo, cosa volevi che ti dicesse?”

“Ma già montati non c’erano”

“Ma io te l’avevo detto!” e così via.

Primavalle Epidemic fase 4: Ritorno al negozio

Alla fine abbiamo smontato definitivamente La Cosa, infilato tutti i pezzi nello scatolone e Ettore si è ripresentato al negozio. La cinese, come l’ha visto, si è messa le mani nei capelli:

“No liesci montale?”

“No, non ci siamo riusciti”

“Tu uomo! No capace?”

“Sembra di no…”

“Uffffff” ha sbuffato lei.

Primavalle Epidemic fase 4: donna cinese con mascherina

A quel punto si è messa per terra, piccola ma molto muscolosa, con gambe da calcio rotante e ha malamente tirato fuori tutti i pezzi del ventilatore, con viti e bulloni che scappavano da tutte le parti. Ogni tanto urlava qualcosa di vagamente simile a:

“Ching Tung Chuuuuuuu!” che poi era il nome del figlio che si era nascosto chissà dove. Il figlio non si presentava ma lei continuava a montare il ventilatore, sempre più agitata ma anche determinata, nonostante nell’emporio ci fossero probabilmente 45 gradi, ad esser buoni.

La cinese, sudata e nervosa, ma senza mai togliersi la mascherina, alternava martellate e pezzi da far combaciare a grida che sembravano tanto dei bestemmioni in cinese. Un bestemmione, uno sbuffo, una martellata e un:

“Ching Tung Chuuuuuuuuuu!”

Primavalle Epidemic fase 4: Mother and Son

Non era facile costruire quell’affare, nemmeno per lei. Dopo dieci minuti buoni è arrivato il figlio, un adolescente alto e robusto, e lì hanno avuto uno scambio di battute in cinese che però, dai toni e dagli sguardi reciproci, possiamo facilmente tradurre:

“Dove cazzo stavi? È mezzora che ti chiamo!”

“A ma’ non mi rompere i coglioni”

“Adesso monta quel pezzo lì e chiudi la bocca!” ha detto lei infuriata indicandogli con l’indice cosa doveva fare e lui si è messo ad aiutarla sbuffando.

Ettore, intanto, che non sapeva che fare, si è avvicinato per cercare di carpire i misteri insondabili dei ventilatori cinesi, ma teneva la mascherina abbassata e la madre ha urlato al figlio qualcosa tipo:

“Wangtuchuchinyan” che sembrava tanto: “Allontanati da sto scemo senza la mascherina” infatti il figlio ha fatto subito un mezzo passo indietro.

I ventilatori Cinesi e la decadenza dell’Impero Americano

Nel frattempo sono arrivati altri clienti che hanno preso delle cose e si sono fermati alla cassa. Erano lì, in attesa, ma nessuno aveva il coraggio di dirle niente. Si vedeva che la cinese era sull’orlo di una crisi di nervi, ma era anche chiaro che non sarebbe mai arretrata di fronte al ventilatore.

Allora Ettore si è allontanato con una scusa dicendo che sarebbe tornato dopo un po’, in modo che i cinesi potessero gestire ventilatore e clienti senza troppa pressione. E anche perché faceva caldo come all’inferno. Quando è tornato il ventilatore era pronto, perfettamente montato.

Ventilatore nuovo in tutto il suo splendore

Il ragazzo cinese aveva l’aria così annoiata che Ettore ha pensato fosse giusto dargli una mancia.

“Vorrei dare due o tre euro a tuo figlio per ringraziarlo del montaggio” ha detto alla madre.

“Noooo! – ha quasi urlato lei – questo è nostlo lavolo. No devi dale altli soldi!”

Doppio insegnamento: per il figlio e per il cliente italiano. Cosa che ci ha portati ad una profonda riflessione: “Poveri americani, in piena decadenza dell’Impero. Non c’è partita: questi vi asfaltano…”

Dikeledi leopardo diverso

Dikeledi leopardo diverso

I leopardi, fra tutti i felini, sono quelli che potremo definire i più spirituali. Quando cacciano entrano in uno stato di concentrazione assoluta, focalizzati sull’obbiettivo ma, contemporaneamente, assorti in uno stato di meditazione, in modalità assolutamente zen. Mentre gli altri felini e i predatori in generale tengono le orecchie sempre ben tese in ogni momento della caccia per captare ogni possibile rumore, il leopardo, appena individuata la preda, abbassa le orecchie in modo che i folti ciuffi di pelo fungano da tappi, cancellando l’udito. Nulla deve distrarlo dalla meditazione, se vuole avere successo nel suo attacco.

Dikeledi leopardo diverso

Dikeledi leopardo diverso: lo zen e il tiro con l’arco

Questa peculiarità dei leopardi mi ha fatto pensare a un libro bellissimo “Lo zen e il tiro con l’arco”, di Eugen Herrigel, che ci spiega in che modo l’arciere, secondo la filosofia di antichi maestri di kyūdō, o arte del tiro con l’arco, prende la mira diventando tutt’uno col bersaglio:

“Il tiro con l’arco ora come allora è una faccenda di vita o di morte, in quanto è lotta dell’arciere con se stesso; e una lotta di questo genere non è un mistero surrogato, ma il fondamento di ogni lotta rivolta all’esterno – e sia pure contro un avversario in carne e ossa.

… Oppure, per servirmi di espressioni care a quei maestri, bisogna che l’arciere, pur operando, diventi un immobile centro.”

Storia di Dikeledi

La sua stessa modalità di caccia fa sì che il leopardo operi come un fantasma, come uno spirito nei sogni degli altri animali. In questo articolo, però, racconto la storia vera di un leopardo “diverso”, Dikeledi, che in Tswana significa “Lacrime”. Al contrario della sua mamma meravigliosamente perfetta, Dikeledi nasce goffo. Fin da piccolo soffre di vertigini e fa molta fatica a salire sugli alberi, dove i leopardi vivono quando non cacciano.

Gli alberi, come la kigelia africana, detto anche “albero delle salsicce” sono la casa dei leopardi: li usano per mettere al sicuro le prede e sono anche una via di fuga quando un leopardo si sente in pericolo e deve scappare dalle iene, dai licaoni e dai leoni che non sono capaci di arrampicarsi così bene e in alto come i leopardi.

La difficoltà che Dikeledi prova nell’arrampicarsi, quindi, non è una cosa da poco, ma un vero e proprio handicap. Quando a fatica sale sull’albero ci rimane per giorni e si abbandona a lunghi sonni. Un giorno viene risvegliato all’improvviso da un uccello zecca e riesce ad ucciderlo. È la sua prima preda, e per sopprimerla quasi cade giù dall’albero.

Il tempo passa e Dikeledi non è più un cucciolo, ma le sue capacità di vivere come un leopardo normale non sono migliorate. Sua madre, però, non lo abbandona. Diventa la sua migliore amica e continua a procurargli il cibo e a supportarlo in ogni modo.

Dikeledi leopardo diverso

Dikeledi cerca di emanciparsi

Poi, la mamma di Dikeledi si accoppia di nuovo, e un nuovo cucciolo di leopardo viene al mondo, ed è la prima volta che Dikeledi incontra un altro leopardo maschio. Questo lo convince a cercare di rendersi autonomo. Trova una zebra nata morta e se la mangia: da quel momento cerca di nutrirsi di carogne, ma nella savana ci sono molti saprofagi che non gradiscono la sua concorrenza. Ha un incontro quasi fatale con una iena molto grossa e arrabbiata; Dikeledi rischia la vita ma gioca d’astuzia e in qualche modo riesce ad ingannarla e a farla scappare.

Ha un altro incontro ancora più pericoloso con una mamma facocero, e ancora una volta riesce a distrarre la sua nemica spiazzandola col suo comportamento stravagante: finge che ci siano mosche inesistenti e poi si allontana silenziosamente, senza abbassare la testa.

Dikeledi leopardo diverso: leopardo su albero
Leopardo su albero

Dikeledi leopardo diverso: il suo mondo segreto

Finalmente riesce ad affrontare un nemico ed uccide uno degli sciacalli che lo tormentano. Questo è un grosso passo avanti, ma non può continuare a vivere in questo modo: gli alberi non fanno per lui e non può lottare contro branchi di saprofagi per il possesso delle carogne. Essendo un leopardo particolare deve trovare qualcosa di particolare in cui poter dare il meglio.

E alla fine riesce a trovare il suo mondo segreto e ideale nella palude. All’alba, nella nebbia è invisibile e grazie a olfatto e udito riesce a inseguire odori e rumori anche senza vedere le forme degli animali da cacciare, o percependo tratti di forme quasi spettrali e solo appena visibili.

Impara con improvvisa facilità a muoversi come un cacciatore perfetto e diventa un felino palustre. Lontano dagli alberi e dalla foresta Dikeledi diventa un vero leopardo. Un fantasma. Uno spirito nei sogni degli altri animali.

Dikeledi leopardo diverso: la distruzione dei leopardi

In Botswana i leopardi sono protetti. Ma in 5 anni 250.000 leopardi sono stati uccisi e negli ultimi 50 anni sono scesi da 700.000 a 50.000 e il massacro continua.

Tra i grandi felini il leopardo è la specie più diffusa al mondo: si trova in Africa, in Medio Oriente e in Asia. In passato il suo habitat si estendeva su un’area di 35 milioni di chilometri quadrati distribuiti in queste regioni, mentre oggi si è ridotto a soli 8,5 milioni.

In media l’estensione delle aree popolate dal leopardo è diminuita del 25-37 per cento, con punte del 98 per cento nella penisola araba, in Cina e nel Sudest asiatico. Qui il leopardo è minacciato tanto quanto la tigre tra i grandi felini più a rischio estinzione nel mondo.

Le minacce che i leopardi devono affrontare sono tante. Il loro habitat viene trasformato in terreni coltivati, e le zone in cui possono vivere sono sempre meno, più piccole e isolate l’una dall’altra. Ma anche le aree dedicate agli allevamenti sono aumentate e gli agricoltori uccidono i leopardi per paura che possano attaccare il bestiame, un po’ come succede per gli orsi e per i lupi in quasi tutto il mondo a iniziare dall’Italia (ricordiamo il Trentino e l’orso M49). Ovviamente se i leopardi (e gli orsi, e i lupi) avessero il loro habitat potrebbero cacciare solo specie selvatiche e non attaccare gli allevamenti.

Come se tutto ciò non bastasse c’è anche la “caccia sportiva”, incredibilmente permessa ancora in molti paesi. Penso poi ai leopardi di Mumbai, India, il cui parco nazionale è stato talmente ristretto da costringerli a coabitare con i grossi e rumorosi condomini costruiti alle propaggini estreme della città. Ricordo i meravigliosi leopardi nuvola, ormai in vita solo negli zoo, e i leopardi delle nevi, di cui forse sopravvivono in Afghanistan giusto pochi esemplari.

Cucciolo di leopardo nuvola nato allo zoo di Washington

L’afrore di un leopardo delle nevi a 4000 metri

Da “Che ci faccio qui?” di Bruce Chatwin:

“Ma quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti… Non ci sdraieremo più davanti al Castello Rosso a guardare gli avvoltoi roteanti…Non andremo a sederci nella Pace dell’Islam con i mendicanti di Gazar Gagh. Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam… Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l’afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri.”

Dikeledi leopardo diverso: raro leopardo delle nevi
Leopardo delle nevi

(Articolo ispirato dal documentario “The Unlikely Leopard” di National Geographic Wild Network)

National Geographic: Saving big cats in the wild

Canzoni dei Metallica che fanno pensare a persone schifose

In questo articolo mi è venuta la bizzarra idea di abbinare persone pubbliche e orribili ad alcune delle meravigliose canzoni dei Metallica. Perché proprio i Metallica? Perché tutti li amiamo e li conosciamo bene, giovani e adulti allo stesso modo; musicalmente sono stati come un faro stabile e potente che ci ha aiutati a navigare dagli anni ’80 alla nuova bellissima e diversa musica degli anni ’90 prima e degli anni 0 poi. Inoltre, come un ponte, ci hanno accompagnati fino alla musica attuale. I Metallica sono nel mito, e questo è un fatto.

Canzoni dei Metallica che fanno pensare: Seek and Destroy

Searching, Seek and Destroy

Seek and destroy

Searching, Seek and destroy

There is no escape and that is for sure, This is the end we won’t take any more

Say goodbye to the world you live in, You have always been taking, But now you’re giving

A caccia, Cerca e distruggi/ Non c’è via di scampo, questo è sicuro/ Questa è la fine non vi sopportiamo più/ Dite addio a mondo in cui vivete/ Avete sempre preso/ Ma adesso dovete dare/

Seek and Destroy: Irene Pivetti

Seek and Destroy, Cerca e Distruggi, non può che essere abbinata – visto il particolare momento storico – alle persone che, imbrogliando, contravvenendo, pensando solo ai loro schifosi affari, hanno fatto un mare di soldi e/o combinato guai irreparabili sfruttando la pandemia da Covid-19. Immagino ce ne siano tanti di personaggi simili, ma dovendo scegliere, ho optato per un trio: Irene Pivetti seguita a ruota dal duo lombardo Gallera-Fontana.

Partiamo dalla Pivetti, ex presidente della Camera dei deputati e indagata da tutta una serie di procure per frode in commercio e riciclaggio, avendo la Only Logistics, società di cui è amministratrice unica e rappresentante legale, importato mascherine Ffp2 “dotate di una falsa certificazione di conformità da parte della Icr Polska Co.Ltd”, mascherine che Pivetti ha poi venduto a vari distributori italiani nonostante l’Inail, con un provvedimento del 16 aprile, le avesse imposto il divieto di metterle sul mercato. 170.000 delle sue mascherine sono state sequestrate, ma il vero business messo a segno dalla signora sono stati i due contratti firmati dalla Protezione civile con la Only Logistics: 15 milioni di mascherine cinesi probabilmente “farlocche” come le altre per la bellezza di 30 milioni di euro. A Milano è in corso anche un’indagine con l’accusa di riciclaggio che ha portato la Finanza a perquisire casa e uffici della Pivetti, indagine che riguarda operazioni di import-export con la Cina fatte da altre società riconducibili sempre alla medesima Pivetti. E questo è solo l’inizio: sembra che nel corso del tempo la ex onorevole abbia commesso così tante azioni disonorevoli e così tanti reati penali, che, per descriverli tutti, ci vorrebbero pagine e pagine (cliccate sul link azzurro poche righe più in alto per sapere ogni cosa).

Seek and Destroy: Gallera e Fontana

Canzoni dei Metallica che fanno pensare a persone schifose: Seek and Destroy, Gallera e Fontana
Canzoni dei Metallica che fanno pensare a persone schifose: Gallera e Fontana

Per quanto riguarda Gallera e Fontana, entrambi sono stati convocati dalla procura di Bergamo come persone informate dei fatti sull’indagine per epidemia colposa per: la riapertura del Pronto soccorso e dell’ospedale di Alzano Lombardo il 23 febbraio, i morti nelle Rsa, la mancata istituzione della zona rossa tra Nembro e Alzano ai primi di marzo. Per quanto riguarda Gallera, la sua scelta di spostare i malati di Covid dagli ospedali alle RSA a mio parere non è solo folle e insensata, ma decisamente criminale. Per quanto riguarda Fontana, oltre a tutto ciò che ha combinato in coppia col suo assessore Gallera si aggiunge anche la brutta storia di una fornitura di camici per medici e infermieri ordinata il 16 aprile 2020 da Aria (la centrale acquisti regionale) senza gara alla Dama Spa, azienda di proprietà del cognato e della moglie del governatore (Andrea Dini e Roberta Dini), per una cifra di 513.000 euro. Anche su questa squallida vicenda Attilio Fontana è indagato dalla Procura.

In tutto ciò, non posso far a meno di notare che tutti questi crimini sono stati portati allo scoperto da Le Iene e Report, mentre tutti i loro colleghi così tanto quotati e ben pagati, dai giornalisti della carta stampata fino alle varie Gruber dormivano sonni profondi. Perfino la D’Urso ha fatto qualcosa di lontanamente “giornalistico”…Disclaimer: quando abbino queste persone a “Seek and destroy”, mi riferisco solo alla ricerca (Seek) di prove che portino alla distruzione (destroy) della loro carriera e, contestualmente, a una lunga permanenza in carcere, anche se tutti sappiamo benissimo che la legge è disuguale per tutti e che questi “signori” in prigione non ci andranno mai. Un ultimo commento personale: questa gente schifosamente avida e negligente in modo criminale nemmeno la merita una canzone così bella.

Canzoni dei Metallica che fanno pensare: The Unforgiven

The Unforgiven

New blood joins this earth/ And quickly he’s subdued/ Through constant pain disgrace/ The young boy learns their rules

Sangue fresco si unisce alla terra, e lui viene rapidamente sottomesso

Attraverso il dolore continuo il ragazzo impara le loro regole

The Unforgiven, Gli Imperdonabili, mi fa pensare a Derek Chauvin, il poliziotto che ha ucciso George Floyd lo scorso 25 maggio 2020 in Minnesota e agli altri agenti che l’hanno aiutato. Floyd era stato arrestato con violenza nonostante fosse disarmato: mentre veniva schiacciato a terra da Chauvin per nove minuti, aveva detto ripetutamente che non riusciva a respirare ed era morto poco dopo. La sua morte ha provocato e ancora provoca grandi proteste negli Stati Uniti e anche in Europa.

Dopo questo episodio, sono usciti fuori diversi altri video dove uomini afroamericani, assolutamente inermi, sono stati uccisi barbaramente da poliziotti razzisti e feroci. L’ultimo, ad Atlanta, ha visto tre poliziotti sparare alla schiena di Rayshard Brooks, giovane di colore che stava solo dormendo in un parcheggio e quando li ha visti così minacciosi ha tolto il taser dalle mani di uno di loro ed è corso via a piedi. A quel punto i poliziotti gli hanno sparato alla schiena. Per non parlare dei video in New Jersey o in Texas, dove i poliziotti hanno ucciso a sangue freddo uomini afroamericani disarmati e immobilizzati. “Perché è attraverso il continuo dolore che dettano le loro regole”: se questi poliziotti non sono imperdonabili, non so proprio chi possa esserlo.

Canzoni dei Metallica che fanno pensare: King Nothing

Where’s your crown, King Nothing?

King Nothing

Then it all crashes down/ And you break your crown/ And you point your finger but there’s no one around/

Just want one thing/ Just to play the King/ But the castle’s crumbled and you’re left with just a name/

Where’s your crown, King Nothing? Where’s your crown?

Poi tutto crolla e la tua corona si spezza e punti il dito ma non c’è nessuno attorno

Vuoi solo una cosa solo giocare a essere il Re, ma il castello si è sgretolato e tu sei rimasto solo con un nome, dov’è la tua corona, Re Nulla? Dov’è la tua corona?

Canzoni dei Metallica che fanno pensare: King Nothing, Trump
King Nothing, Trump

In questo periodo credo proprio che King Nothing, il Re Nulla sia Trump. Ha sempre detto cose insensate, ha sempre giocato a “fare il Re”, ma prima le lobbies potenti lo consideravano forte, di conseguenza lo sopportavano e lo supportavano. Poi è arrivato il covid e Trump ha iniziato a dire solo follie e fare solo errori madornali. Non ne ha azzeccata una, potremmo dire. Dal consiglio di bere la candeggina (o meglio, iniettarsela in vena) fino alla richiesta di sguinzagliare l’esercito addosso agli americani che manifestano contro il razzismo della polizia. Improvvisamente l’hanno mollato tutti, perfino quelle brave persone della famiglia Bush, perfino quel Colin Powell che spergiurava sulle armi di distruzione di massa in Iraq: probabilmente, come un branco di iene, non aspettavano che il momento propizio per poterlo fare fuori. Se dall’altra parte non ci fosse un altro Nothing come Biden potrei scommettere qualsiasi cifra che Trump non verrà rieletto, ma negli Stati Uniti è sempre difficile fare previsioni e questo è anche il bello di quel paese.

Fight fire with fire: Massimo Giletti

Canzoni dei Metallica che fanno pensare a persone schifose: Massimo Giletti

Fight fire with fire

Fight fire with fire/ Ending is near/ Fight fire with fire/ Bursting with fear/ We shall die

Time is like a fuse, short and burning fast

Spegni il fuoco col fuoco, La fine è vicina, Spegni il fuoco con altro fuoco, Moriremo scoppiando di paura, Il tempo è come una miccia, corta e che brucia in fretta

Massimo Giletti è proprio quel genere di “giornalista” che rimesta nel torbido fin quasi a gettarcisi dentro e, soprattutto, versa benzina sul fuoco. Questa canzone sembra scritta proprio per uno come lui. Ha iniziato la sua carriera alla Rai come conduttore di programmi pomeridiani ignobili tipo “La vita in diretta”, e poi, come per magia, qualche stregone l’ha trasformato in giornalista. Io capisco che se perfino uno come Fazio si è tramutato da imitatore a giornalista strapagato, deve esistere qualche formula magica molto speciale a cui è stato sottoposto anche Giletti. Ma Giletti, da quando è stato acquistato da La7, ha deciso di portare la sua mutazione fino all’estremo: adesso si presenta al pubblico come un giornalista di qualità, come uno tutto d’un pezzo, amico del popolo, mentre nessuno più di lui riesce ad essere “forte con i deboli e zerbino coi potenti.” Come tutti quelli che non sopportano di essere contraddetti Giletti si circonda di ospiti fissi di infimo livello che gli fanno da corte, pendono dalle sue labbra e stanno lì solo per rafforzare le sue tirate contro il malcapitato di turno. Giletti è uno che – sempre secondo me – per un punto di share in più farebbe ballare coi ventagli la nonna zoppa, è interessato esclusivamente all’audience, e per tenere sempre sulla corda il suo pubblico nazionalpopolare è pronto apassare senza soluzione di continuità dalla tragedia, dalla morte, dal dolore alla fregna di Belen. Come dice il mio amico Franco, che ho citato testualmente.

Canzoni dei Metallica che fanno pensare: Master of Puppets

Master of Puppets

Come crawling faster/ Obey your master/ Your life burns faster/ Obey your… Master of Puppets, I’m pulling your strings/ Twisting your mind and smashing your dreams/ Blinded by me, you can’t see a thing

Vieni strisciando più in fretta

Obbedisci al tuo Padrone, brucia la tua vita più in fretta, obbedisci al tuo… Burattinaio, io tiro i tuoi fili, inganno la tua mente e distruggo i tuoi sogni

Accecato da me, non riesci a vedere più niente.

Credo che il grande Burattinaio che tira i fili dei potenti e dei Capi di Stato, che lascia che siano altri a tirare i fili di chi non conta niente, che può solo vincere perché il teatro è suo, possa facilmente essere identificato come Mister Zuckerberg. Non dico che sia l’unico Master of Puppets, ma di sicuro è quello più in vista.

The four Horsemen, i quattro cavalieri dell’Apocalisse

The four horsemen

The horsemen are drawing nearer/ On the leather steeds they rid/ They’ve come to take your life/

On through the dead of night/ With the four horsemen ride/ Choose your fate and die

I cavalieri si stanno avvicinando, cavalcano a pelle sui loro destrieri, stanno venendo a prenderti la vita a notte fonda. Con i quattro cavalieri a cavallo, scegli il tuo destino e muori.

I quattro Cavalieri di cui parlano i Metallica sono quelli dell’Apocalisse. Per quanto mi riguarda: Salvini, Meloni, Berlusconi e Renzi. L’Apocalisse di Giovanni, o Libro della Rivelazione, nella Bibbia ci dice il nome solo dell’ultimo dei quattro, chiamato Morte o Pestilenza (il termine greco thánatos ha entrambi i significati). I nomi degli altri cavalieri non sono menzionati ma, nel corso del tempo, sono stati chiamati Guerra, Carestia e Violenza. A Renzi spetta senza dubbio il ruolo di Guerra. Da quando è apparso sulla scena politica nazionale non ha fatto altro che dichiarare guerra: alla sinistra in primis. All’attuale governo pur facendone parte. Se potesse, dichiarerebbe guerra anche alla Repubblica di San Marino. Meloni, invece, la vedo perfetta come Violenza: con quella faccia sempre incazzata, quella voce potente e sgraziata, quella smorfia da far invidia a Joker, oltre, è chiaro, al suo rifarsi continuamente al passato fascista dell’Italia come se fosse qualcosa di onorevole, di glorioso e non una mostruosità violenta partorita da gente violenta. Quanto a Berlusconi è decisamente Carestia, anche per via dell’età: niente più Bunga-Bunga per il vecchio Silvio (quanto viagra può ingoiare un ottantenne prima di lasciarci le penne?) ma, anche politicamente, l’attuale Berlusca ricorda proprio il deserto dei tartari (che lo spirito di Buzzati non me ne voglia…).  A Salvini, quindi, rimane Morte, che però, in quanto Morte, ha un suo fascino trascinante che non appartiene al capitano leghista. Molto meglio usare l’altro significato: Pestilenza, termine che definisce Salvini in modo eccelso – in questo periodo covid più che in ogni altro – soprattutto se consideriamo tutti quelli che, in Lombardia, si sono ammalati di Covid e sono morti grazie ai giochetti della Lega.

Canzoni dei Metallica che fanno pensare a persone schifose: Enter Sandman

Metallica, Enter Sandman versione acustica

Enter Sandman

Something’s wrong, shut the light/ Heavy thoughts tonight/ And they aren’t of Snow White/ Dreams of war, dreams of liars/ Dreams of dragon’s fire/ And of things that will bite/ Sleep with one eye open/  Gripping your pillow tight

Exit, light/ Enter, night/ Take my hand/ We’re off to never-never land

C’è qualcosa di sbagliato, la luce si è spenta, stanotte i pensieri pesano e non sono fatti di neve bianca

Sogni di guerra, sogni di bugiardi, sogni di fuoco di drago e di cose che vogliono mordere

Dormi con un occhio aperto, tieni stretto il cuscino

Esci, luce. Entra, notte. Prendi la mia mano, partiamo per il Paese che non c’è

Enter Sandman è, decisamente, la canzone che amo di più fra tutte quelle dei Metallica. Anche più del capolavoro Nothing else matters. Il Sandman non è un semplice demone, ma rappresenta il Male puro, in senso ontologico e metafisico. Il Sandman è l’oscurità assoluta, come può esistere solo in squarci di Universo lontani milioni di anni luce dalla stella più vicina. Il Sandman è la fine della conoscenza, la fine della consapevolezza, la fine di tutto ciò che ha un senso e l’inizio di una nuova esistenza beota e deprivata. Ecco perché non esiste un essere umano così diabolicamente potente da poterlo affiancare ad Enter Sandman. In compenso esiste qualcosa che può rappresentare il Sandman al meglio, e questa cosa si chiama Social Media. “Take my hand, we’re off to Never Never Land”: è esattamente questo che i social media ti sussurrano nelle orecchie mentre la luce è già sparita: Stringimi la mano, ti porto all’Isola che non c’è. Al Paese che non esiste. Ti porto a Nowhere Land, che sarà la tua nuova patria, la tua casa, il tuo nido e non avrai più bisogno di altro. Io sarò il tuo unico meraviglioso mondo che non esiste.

La stupida lotta dell’uomo contro il piccione

Gli esseri umani non sono solo predatori e razziatori, ma sono allo stesso tempo dei piagnoni. O, come dicono negli States “cry baby”. Infatti se un coccodrillo afferra un’antilope che si abbevera al laghetto e se la mangia, le lacrime che poi versa sono lacrime di gioia. Il coccodrillo non si guarda attorno alla ricerca di un nemico da incolpare:

“Ho mangiato l’antilope per colpa dell’elefante.”

“Ho addentato l’antilope perché il leone mi ha fatto incazzare!”

“Accidenti, lo zoccolo dell’antilope era così duro che ora mi fa male un dente, e se il dente mi fa male è colpa del seeksac, quell’uccellaccio che mi ha fatto una pessima pulizia dei denti!”

La stupida lotta dell'uomo contro i piccioni: lacrime del coccodrillo
Lacrime del coccodrillo

La stupida lotta dell’uomo contro il piccione: umani sempre in cerca di nemici

L’essere umano, invece, è sempre in cerca di nemici a cui accollare colpe, di solito inesistenti. Per lo più i nemici migliori sono altri esseri umani, perché di nazionalità diversa, di pelle diversa, di etnia, religione, mentalità diversa, perché non gli piace come ti vesti o come cammini o quello che dici. I vicini di casa, ad esempio: ecco un nemico perfetto. Quando ancora abitavo nella tanto rispettabile Roma Nord ho visto cose che voi umani non potreste immaginare eccetera eccetera: al piano terra viveva un tizio sui trentacinque anni che noi chiamavamo Mantra perché, sostenendo di essere buddista, invitava altri amici buddisti e mettevano a tutto volume su youtube “Nam myōhō renge kyō” per tutta la durata della loro festa. Una mattina ho visto con i miei occhi Mantra presentarsi in mutande – e sottolineo in mutande – dalla signora settantacinquenne del secondo piano, rea di aver fatto cadere qualche pelo del suo cane nel giardinetto condominiale e urlarle:

“Mo’ m’hai proprio rotto il cazzo!” Lo giuro, è tutto vero. Povero Buddha, mi auguro che nel nirvana arrivi solo la musica dei Nirvana e niente Mantra.

I nemici umani non bastano

Ma spesso gli umani piagnoni non si accontentano di odiare altri umani, nonostante la cosa venga loro così bene. Spesso individuano nemici mortali anche in altre specie animali che non costituiscono nessuna minaccia, né rischio né pericolo per la salute, ma debbono ugualmente essere eliminati dalla faccia della terra. Perché? Perché odiare creature viventi tira i piagnoni fuori dal letto al mattino.

In Trentino uccidono gli ultimi orsi liberi perché del resto, dopo avergli portato via territorio e cibo, è anche giusto togliergli la vita, no? In Lombardia, non paghi di tutto quello che hanno combinato in ogni momento della fase Covid hanno aperto la caccia alle povere volpi, consegnando la licenza d’uccidere perfino ai diciassettenni. Ho sempre pensato che, da quelle parti fossero on the fuckin’ road to Texas: complimenti, lombardi, vi regaleremo una stella solitaria da mettere nella bandiera italiana. I gatti “randagi” sono spariti da tutte le grandi città, tipo Roma o Venezia, sbattuti di soppiatto in canili o nelle così chiamate “colonie feline”, dove sopravvivono quei pochi gatti più grandi e svegli e tutti gli altri soccombono. Ma anche qui, il gatto, star di internet, deve rimanere solo su internet. O ben rinchiuso all’interno degli appartamenti. Anche se in questo modo aumentano i ratti…

La stupida lotta dell’uomo contro nemici: e poi ci sono i piccioni

Piccioni in volo
Piccioni in volo

E poi ci sono i piccioni, odiati dalla maggioranza degli esseri umani, per motivi che nemmeno loro conoscono. Dicono “Sono sporchi”. Non è vero. Dicono “Portano malattie”. Non è vero. Dicono “Sono tanti e sono stupidi”. Wow! Se i piccioni sono tanti e stupidi noi cosa siamo?

Io, invece, ho sempre avuto gran simpatia per i piccioni, così come per tutti gli animali in genere e per quelli che possono volare in particolare. Inoltre, ho sempre provato empatia per tutte quelle creature, animali o umane, maltrattate, represse, calpestate, odiate. Ho sempre avuto questa specie di missione: a sei anni, ospite nella bella villa in Toscana della mia amichetta, guardavo lei e i suoi fratelli più grandi acchiappare lucertole e ingabbiarle per poi, con calma, andarle a torturare. Io non dicevo niente ma, di nascosto, come una piccolissima Mata Hari, aspettavo con pazienza il momento giusto per scendere da sola nello scantinato e liberare le lucertole. Non mi hanno mai scoperto: per certe cose ci si nasce. Una volta – tanti anni fa – ho visto un tizio in macchina che, su una stradina, invece di rallentare, ha puntato il piccione che se ne stava tranquillo al lato della via e l’ha schiacciato, per divertimento. Allora l’ho inseguito e, al primo semaforo rosso sono scesa e ho iniziato a prendergli a calci la macchina urlandogli “assassino pezzo di merda” con lui, spaventato a morte, che si è chiuso dentro e come è scattato il giallo è partito. Per certe cose ci si nasce: io empatica e schizzata, forse. Lui predatore e piagnone, di certo.

Il massacro dei piccioni in tutta Italia

piccioni avvelenati
Uno dei tanti piccioni avvelenati a Savona

Ci sono molti posti dove la gente arriva perfino ad avvelenarli in gruppo, come a Castelnuovo Scrivia, provincia di Alessandria, dove nel 2019 i bambini che giocavano nel parco del paese hanno assistito ad uno spettacolo raccapricciante: piccioni a terra, agonizzanti, che si contorcevano per il dolore e morivano. Alcuni sono stati visti schiantarsi a terra mentre erano in volo. Ma abbiamo tanti piccioni avvelenati anche a Savona, Catania, Vasto provincia di Chieti, Cornate d’Adda provincia di Monza, Sorrento, Lecce e molti, moltissimi altri paesi e città d’Italia, trasversalmente dal nord al sud, uniti solo dal patetico odio verso gli innocenti piccioni. Per non parlare dei piccioni dalle zampette mozzate, nelle città più inquinate, altro meraviglioso regalo umano, perché “quando i piccioni camminano per terra, capelli o fili di plastica avvolgono le loro estremità e finiscono come un laccio emostatico sul dito, che ha una necrosi e cade”, fanno sapere i ricercatori del Museo di storia naturale.

La stupida lotta dell'uomo contro il piccione: piccione imprigionato in rete di protezione
Piccione imprigionato in rete di protezione, come quelle attorno ad hotel e terrazzi vip

La stupida lotta dell’uomo contro il piccione: Roma e i piccioni

Qualche sera fa ho fatto l’errore di andare con amici a prendere un costosissimo aperitivo in un baretto dalle parti di Campo de’ Fiori. Il baretto sta in una piccola, bellissima piazza, ma i suoi tavolini l’avevano completamente invasa, come se la piazza ormai non fosse altro che un bar. I piccioni vivono da quelle parti da sempre. Fra tutta quella gente che si aggirava lì intorno erano quasi le uniche creature autoctone, lì nate e cresciute. Un tizio grande e grosso seduto a un tavolo vicino ha iniziato a scacciare i piccioni malamente, con calci e manate. L’ho detestato ma non ho reagito, perché non volevo infastidire i miei amici. Allora, per rincuorare i piccioni, li ho chiamati vicino a me e gli ho dato, per terra, delle patatine da mangiare.

L’adorabile uomo nel tavolo accanto mi ha apostrofato, intimidatorio:

“Signora, la smetta di dargli da mangiare!”

Io mi sono girata, l’ho guardato negli occhi e ho risposto, calma come una bomba:

“No, credo proprio che continuerò a fare quel cazzo che mi sembra giusto fare.”

Testuale. È rimasto zitto. Lo sapevo: più sono prepotenti e predatori e più si spaventano quando una donna gli tiene testa. Per certe cose ci si nasce. Non ha aperto bocca mentre io continuavo a dar da mangiare ai piccioni, ma poi, in silenzio, da piagnone bamboccione, è corso dalla signora maestra, ovvero dalla cameriera, che mi è venuta a domandare:

“Per favore, può smettere di dar da mangiare ai piccioni?”

“Sto violando qualche legge?” le ho chiesto.

“No, ma glielo sto chiedendo per favore.”

“Il fatto che me lo chiede per favore non significa che io decida di farlo, visto che non sto violando nessuna legge.”

“Sì, ma glielo chiedo per favore”. E ci mancherebbe anche che me lo chiedi prendendomi a schiaffi.

La storia continua

La stupida lotta dell'uomo contro il piccione: piccioni morti avvelenati a Catania
Piccioni morti avvelenati a Catania

Poi sono intervenuti alcuni dei miei amici, anche loro – a quanto pare – nemici dei piccioni:

“Ma poi i piccioni possono salire sui tavoli!” ha detto uno di loro, amico di lunghissima data, con in volto lo stesso sguardo con cui il moribondo Kurtz sussurrava: “The horror! The horror!”

Apocalypse now, tratto da Heart of Darkness: morte di Kurtz

Per un attimo mi sono sentita un po’ come Nietzsche quando a Torino corse ad abbracciare il cavallo frustato dal vetturino. Solo che io ero “Nostra Signora dei Piccioni”, e quindi paria fra i paria. Avrei voluto potermi trasformare in piccione e volare su qualche tetto, ma non avendo le ali ma il sempre più inutile dono del linguaggio, gli ho risposto male:

“Se il cibo sta per terra i piccioni non salgono sui tavoli, cerca di connettere quei due neuroni che hai nel cervello”

A quel punto grida, litigi e mio senso di colpa per essere stata maleducata con un amico, anche se quell’amico mi dice regolarmente che sono una rompicoglioni e io mi metto a ridere. Insomma, gli amici dovrebbero potersi parlare “fuori dai denti” (anche fuori da facebook) altrimenti l’amicizia cos’è?

La stupida lotta dell’uomo contro il piccione: Asl, piccioni e tutto il circondario

Dopo questa rapida e inutile digressione, torno ai piccioni. Stamattina sono andata alla Asl del mio distretto. Mentre aspettavo, seduta lì fuori, ho sentito uno strano frastuono di uccelli: sembrava un mix di urla di falchi e aquile, o uno stormo di rondini fatte di mescalina. Quando sono finalmente entrata nell’ufficio dell’impiegato che cercava senza successo di far funzionare la piattaforma internet della Asl, gli ho chiesto:

“Ma che uccelli sono questi?”

“No, è tutto finto – ha risposto lui – è una finzione per tenere lontani i piccioni”

“Ah, pensavo che queste cose le usassero solo negli aeroporti, per ovvi motivi”

“Una volta sì, ma adesso la gente non vuole avere piccioni intorno, da nessuna parte”

“E funziona?”

“No” ha detto lui senza alcun dubbio.

“Già. La gente pensa che i piccioni siano stupidi, ma invece non lo sono affatto.”

Mondo perduto e meraviglie sconosciute dei piccioni

Il pensiero di quel frastuono insopportabile e innaturale, da dover sopportare per ore e ore, sparato dagli altoparlanti in tutto il circondario, pur di non far avvicinare qualche sparuto gruppo di piccioni mi è sembrato fortemente simbolico. Simbolo di un mondo perduto, che non sa più distinguere un dito medio in faccia da uno sparo in fronte, una farfalla da uno scarafaggio, un raffreddore da un batterio killer. I piccioni riusciranno a sopravvivere, ma noi umani?

Rocco Toscani, addestratore di piccioni viaggiatori racconta il suo lavoro amatoriale e la sua passione per questi uccelli

Per quelli che non amano i piccioni e anche per i pochi che li apprezzano, ecco un bellissimo articolo che vi racconterà cose davvero sorprendenti su questi incredibili e intelligenti uccelli, sui segreti del loro stormo, del loro volo, su come sono stati fondamentali per Darwin e tante altre notizie affascinanti. Leggetelo, per favore.

La vasta moltitudine dei morti

Per ogni epoca, per ogni periodo e a maggior ragione per ogni tragedia o guerra, nelle nostre menti rimane un’immagine a rappresentare e testimoniare quello che è successo. Ad esempio, la fotografia della bambina ustionata dal napalm che corre nuda, urlando e piangendo, sarà per sempre il devastante simbolo della guerra americana in Viet-Nam. Per quanto riguarda l’attuale pandemia, invece, almeno per noi italiani l’immagine che rimarrà impressa a fuoco nella memoria comune è quella della lunga fila di camion militari con le bare dei morti di Covid a Bergamo, fuori dal cimitero in attesa del proprio turno per la cremazione. Quest’ultima foto ci colpisce particolarmente perché va a toccare uno dei nostri nervi scoperti: l’umana ossessione per la vasta moltitudine dei morti, che tendiamo a considerare come una specie aliena, quasi un esercito nemico da tenere a distanza e non una schiera a cui già apparteniamo, dal momento che, presto o tardi, entreremo a farne parte.

Carri militari a Bergamo, che portano le bare dei morti di Covid, in fila fuori del cimitero
Carri militari che trasportano bare in fila a Bergamo, fuori del cimitero

La vasta moltitudine dei morti: nel fantasy e nell’horror

Walter de la Mare, scrittore inglese vissuto a cavallo fra 1800 e 1900 disse:

“Dopotutto, che cos’è un uomo, se non un’orda di fantasmi? Querce che erano ghiande che erano querce.”

Eppure, anche in letteratura, de la Mare è un caso abbastanza limite: si tende sempre a creare una linea di confine precisa, un muro infinitamente lungo per separare i morti dai vivi perché la morte, si sa, può facilmente contagiarti o ipnotizzarti.

La vasta moltitudine dei morti: Aragorn e l'esercito dei morti
Aragorn e l’esercito dei morti, nel film tratto dal “Signore degli anelli” di Tolkien

Dove la linea di demarcazione è più facilmente visibile è nel fantasy: a volte la moltitudine dei morti sta dalla parte dei buoni, come nel “Signore degli anelli” di Tolkien, dove l’esercito dei morti aiuta Aragorn  a sconfiggere le truppe di Sauron; altre volte, come nel Game of Thrones di George Martin l’esercito dei morti sembra essere il male assoluto, ma che, pur essendo assoluto, non è poi un male così difficile da eliminare: alla fine vediamo che basta una ragazzotta ben allenata  all’omicidio, un drago vivente contro un drago morto, un acciaio speciale (i morti che ritornano hanno sempre un tallone d’Achille: la luce del sole per i vampiri, ad esempio) e il terribile esercito viene facilmente spazzato via. In altri casi, come nella fortunata serie originale horror “The Walking Dead”, risulta ben presto evidente che la vasta moltitudine dei morti – in questo caso zombie – pur dando il nome alla serie è del tutto ininfluente, mentre quelli che fanno il bello e il cattivo tempo massacrandosi fra di loro sono sempre, come è ovvio, i vivi.  

Game of Thrones: Il Re della schiera dei morti
Game of Thrones, il Re della Notte, nella serie tratta dalla saga di G.Martin

La vasta moltitudine dei morti: Dylan Thomas

Io credo si tratti di una visione fortemente narcisistica da parte di noi esseri ancora viventi: parliamo dell’aldilà, proponiamo ipotesi, confidiamo in questa o quella religione, subiamo il fascino della non esistenza ma pretendiamo di considerarci un soggetto a sé stante e, in quanto vivo, vincente. Ci vuole una forte visionarietà unita ad un talento poetico raro per unire e contemporaneamente dividere vivi e morti, ma Dylan Thomas ci riesce perfettamente:

A process in the weather of the world
Turns ghost to ghost; each mothered child
Sits in their double shade.
A process blows the moon into the sun,
Pulls down the shabby curtains of the skin;
And the heart gives up its dead

Un mutamento nella stagione del mondo
Sostituisce spettro a spettro; ogni figlio partorito
Siede nella sua duplice ombra.
Un mutamento spinge la luna dentro al sole,
Strappa i logori veli della pelle;
E il cuore abbandona i suoi morti

Da “A process in the weather of the heartdi Dylan Thomas (18 poems*)

Comprendere Dylan Thomas non è mai semplice, soprattutto nelle poesie giovanili, ma credo che il punto da sottolineare sia la “double shade”, quell’ombra che, per ogni umano appena nato è unica ma già doppia, perché rappresenta la vita attuale e la morte che segue, ombra duplice che si estende nel tempo che è poi il solo vero mutamento nella stagione del mondo.

La vasta moltitudine dei morti: Milan Kundera

Milan Kundera
Milan Kundera

Sulla moltitudine dei morti mi viene in mente un bellissimo racconto di Milan Kundera “Che i vecchi morti cedano il posto ai giovani morti.” In questo racconto giovanile c’è principalmente una forte satira nei confronti di quella Cecoslovacchia, patria di Kundera, che era da poco diventata proprietà sovietica, ma non solo. Sia i morti recenti che quelli di lunga data, nel racconto, non hanno più alcun tipo di scintilla: sono solo mucchi di ossa che vengono spostate di tomba in tomba:

“Ci aveva messo un po’ di tempo per capire: lì dove prima c’era la lapide di arenaria grigia col nome del marito a lettere d’oro, proprio in quello stesso posto (aveva riconosciuto con certezza le due tombe accanto) c’era adesso una lapide di marmo nero con sopra, a lettere d’oro, un nome del tutto diverso.

Turbata, era andata negli uffici della direzione. Lì le avevano detto che, alla scadenza della concessione, le tombe venivano liquidate automaticamente. Lei li aveva rimproverati per non averla informata per tempo che doveva rinnovare la concessione, e loro per tutta risposta le avevano detto che in quel cimitero c’era poco spazio e che i vecchi morti devono cedere il posto ai giovani morti…”

Nel racconto di Kundera il mondo, nella sua inutile seriosità va in pezzi, e nel nostro mondo reale la consapevolezza che non possano esistere veri cambiamenti, se non l’unico vero mutamento dovuto al passare del tempo, manderebbe in pezzi la maggioranza di noi.

James Joyce: The dead

La vasta moltitudine dei morti: James Joyce

In controtendenza con la forte volontà umana di tenere il mondo dei vivi ben separato da quello dei morti arriva James Joyce, con un capolavoro assoluto, “The Dead”, ultimo e principale racconto di “Dubliners”, pubblicato nel 1914. Ci sono romanzi, o racconti, dove l’intera narrazione non è altro che un lungo preliminare per l’incanto del finale; dove ogni cosa, anche la più banale, anche ciò che ci appariva insignificante, all’improvviso acquista un senso, e perfino lo stile cambia: se prima l’autore indugiava in dettagli, dilatando il tempo fino a distenderne ogni piega, adesso, negli ultimi paragrafi, il tempo si restringe e ogni parola scritta è necessaria e illuminante.

The Dead è lungo una cinquantina di pagine, interamente ambientato in un cenone con ballo, a casa di anziane signorine benestanti, mentre fuori nevica e nella grande casa dove il fuoco scoppietta in ogni camera si mangiano prelibatezze, si suona il piano e si danza il walzer. Nelle ultime due pagine tutto cambia. Siamo in una camera d’albergo senza nemmeno una candela, e passando dalle luci sfavillanti al buio assoluto, dal calore all’aria gelida, tutto improvvisamente diventa chiaro.

The dead, dove morti e vivi diventano uno

“Sì, presto forse si sarebbe trovato seduto in quello stesso salotto, vestito di nero, la tuba sulle ginocchia: le imposte sarebbero state accostate e zia Kate seduta accanto a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato com’era morta. Si sarebbe torturato il cervello allora per trovare qualche parola che potesse consolarla e ne avrebbe trovate solo di goffe e inutili. Sì sì, non sarebbe passato molto tempo.

L’aria fredda della stanza gli gelava le ossa. S’allungò adagio sotto alle coperte accanto alla moglie. Uno ad uno tutti si sarebbero tramutati in ombre. Meglio, del resto andarsene senza paura nell’altra vita, nel pieno di qualche passione, che svanire e appassire a poco a poco con l’età. Pensò a lei che gli stava sdraiata accanto, a come fosse riuscita a tener sigillata nel cuore per tutti quegli anni l’immagine degli occhi del suo innamorato mentre le diceva che non voleva vivere.

Lacrime generose gli gonfiarono gli occhi. Non aveva mai provato nulla di simile per nessuna donna e sentiva che quello doveva essere veramente amore. Più fitte le lacrime gli velarono gli occhi e nella semioscurità immaginò la figura di un giovane in piedi sotto un albero gocciolante di pioggia. Altre figure gli erano accanto. La sua anima si stava avvicinando alle regioni abitate dalla vasta moltitudine dei morti. E pur essendo cosciente di quella loro illusoria e vacillante esistenza non riusciva ad afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un mondo grigio e impalpabile e la terra in cui pure quei morti avevano dimorato e procreato, perdeva sostanza.”

La vasta moltitudine dei morti

La poesia di questo racconto – e d’altra parte si parla di Joyce – è l’insieme dei sentimenti che fanno avvicinare Gabriel, il protagonista, alla vasta moltitudine dei morti, fino alla completa sovrapposizione dei due mondi: prima di tutto accettazione dell’ ineluttabilità della morte; come conseguenza dell’accettazione ne deriva la consapevolezza che tutti noi, vecchi o giovani, un giorno, più o meno vicino, apparterremo a quella schiera impalpabile; infine empatia per i morti e per i vivi, che dimorano gli uni dentro gli altri, appartenendo tutti alla medesima, vacillante e illusoria sostanza.

Proprio come le ghiande dimorano nelle querce, e le querce dimorano nelle ghiande.

Nothin’ di Townes Van Zandt, 1971, dedicata a Marina, Alessandro, Fabio: amici, mi mancate sempre

*Dylan Thomas è tradotto da Emiliano Sciuba, che è anche l’unico traduttore in italiano delle opere giovanili da noi inedite di Dylan Thomas

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