Carabinieri a Piacenza e serie TV

Non sono in grado di dire cosa abbia stupito particolarmente la gente nella disgustosa faccenda della caserma Levante dei Carabinieri a Piacenza. Per quanto riguarda me, la sola cosa che mi ha stupito è che tutta la faccenda sia uscita fuori. Che un appuntato dallo stipendio di 1300 euro al mese, con moglie e figlio, potesse vivere in una villona e cambiare in pochi anni sedici fra moto e macchine, sempre più belle, fino a comprarsi una Mercedes Classe A e una Ducati Hypermotard senza che questo facesse sorgere dubbi o domande fra i suoi più alti superiori o anche solo all’Agenzia delle Entrate non mi stupisce.

Prima di Piacenza abbiamo avuto decine e decine di anni in cui le malefatte dei Carabinieri (e della Polizia), pur evidenti, sono sempre rimaste impunite. E se sono rimaste impunite è perché questa è sempre stata la volontà politica, di ogni governo, e certamente l’interesse dei capi delle Forze dell’ordine. 

Carabinieri che commettono crimini: Stefano Cucchi

La più famosa fra le malefatte, per quanto concerne i media, è l’omicidio di Stefano Cucchi, ragazzo fragile e del tutto inerme massacrato di botte fino ad ucciderlo.

Carabinieri a Piacenza e serie TV: Stefano Cucchi pestato a morte
Stefano Cucchi pestato a morte dai Carabinieri

Anche l’ultimo dei medici legali non asserviti avrebbe riconosciuto una morte dovuta a pestaggio ma il sistema omertoso deve riguardare tutti oppure non funziona: ci sono voluti dieci anni di lotta da parte dell’eccezionale sorella di Stefano e un Carabiniere dotato di coscienza che alla fine ha parlato, sapendo bene che questo gli avrebbe distrutto vita e carriera, perché la verità uscisse fuori.

L’omicidio di Serena Mollicone

Carabinieri a Piacenza e serie TV: omicidio commesso da carabinieri di Serena Mollicone
Serena Mollicone

Poi c’è l’omicidio di Serena Mollicone ad Arce. Se non conoscete la storia andate a leggervela su questo link, è davvero così assurda da sembrare un film. Certo, in quel caso i Carabinieri che avevano ucciso Serena e quelli che avevano coperto il suo assassino, essendo anche coloro che avrebbero dovuto indagare sulla sua morte, hanno avuto gioco facile nel depistaggio, cercando di accollare il delitto a un poveraccio che è diventato una delle tante vittime provocate da questa storia. Adesso, dopo “soli” 19 anni, il Tribunale di Cassino ha rinviato a giudizio per concorso in omicidio i carabinieri Vincenzo Quatrale, Francesco Suprano e l’ex comandante della stazione di Arce Franco Mottola, insieme alla moglie Anna Maria e al figlio Marco. Quatrale è accusato anche di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi (un “suicidio” balisticamente impossibile.) Nel frattempo il padre di Serena, che in questi venti anni si è battuto per avere giustizia, è morto, e d’altra parte venti interminabili anni sotto pressione e col cuore spezzato ucciderebbero chiunque.

Il blitz alla Diaz

Non penso ci sia bisogno di raccontare la storia del blitz alla tristemente nota scuola Diaz, dove, ancora una volta, gli eroici medici si sono resi complici di torture e sevizie varie compiute con entusiasmo dalla Polizia.

E poi, per conoscenza diretta, potrei raccontare decine di “piccole storie” dove le Forze dell’ordine hanno torturato tossici (non spacciatori, solo semplici, inermi, disperati tossicodipendenti), dagli anni ’80 in poi: ricordo ancora quando costrinsero un mio amico a bere due litri di acqua salata fino a fargli vomitare l’anima, convinti che avesse appena acquistato una bustina d’eroina e che l’avesse ingoiata prima di essere perquisito. La bustina non c’era e dopo la tortura l’hanno sbattuto fuori senza nemmeno chiedergli scusa. Ricordo anche quando ti facevano spogliare nudo/a e metterti in ginocchio, sul pavimento, davanti all’ufficiale in comando, come se lui fosse il Papa e tu una nullità da calpestare

No, cari amici, Abu Ghraib alle nostre Forze dell’ordine non ha insegnato niente: loro conoscevano ogni nefandezza possibile già da molto, molto tempo prima..

Carabinieri a Piacenza e serie TV: l’encomio solenne

Carabinieri a Piacenza e serie TV: la caserma dello spaccio di droga
Carabinieri a Piacenza e serie TV: la caserma dello spaccio di droga

Detto ciò, nella storia di Piacenza c’è comunque qualcosa che mi infastidisce molto. Il piagnisteo di Montella una volta arrestato? No, più sono feroci e più sono piagnoni. Lo sappiamo tutti. Il fatto che i Carabinieri venissero spronati a compiere arresti dai più alti vertici dell’Arma, tanto che la caserma Levante di Piacenza aveva ricevuto, nel 2018, un encomio solenne, conferito dal Comandante della Legione Emilia-Romagna e destinato «alle stazioni che si erano particolarmente distinte nell’espletamento del servizio istituzionale rappresentando un punto di riferimento costante e certo per la sicurezza delle rispettive cittadinanze, con particolare riguardo alla tutela delle fasce deboli»? Beh, certo, suona fortemente sarcastico, un po’ come se i torturatori/assassini inviati da Videla e Pinochet fossero stati premiati per ringraziarli degli splendidi giri in aeroplano che facevano fare alle «fasce deboli della popolazione». Ma non è nemmeno questo a darmi fastidio.

Carabinieri a Piacenza e serie TV: Gomorra

Quello che proprio mi è sembrato intollerabile, a livello personale, è stato constatare come la mente stupida, ancorché feroce e predatoria, dei Carabinieri di Piacenza, sia stata letteralmente assorbita dal demone dell’immaginario TV. Partiamo da quella frase di uno dei carabinieri intercettata dalla Procura:

“No, non hai capito? Hai presente Gomorra? Le scene di Gomorra… guarda che è stato uguale. Ed io ci sguazzo con queste cose. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato”.

Ecco, partiamo da Gomorra e da tutte le altre produzioni tipo “ZeroZeroZero” partorite da Saviano che poi, in fondo, racconta sempre la stessa storia. Certe serie Tv entrano ormai nell’immaginario delle menti prive di anticorpi come virus letali che trovano la porta aperta. Io credo che Gomorra abbia fatto un oceano di danni, in primis fra i giovanissimi ragazzi e ragazzini italiani, senza un presente né un futuro, il cui unico desiderio è diventato quello di entrare in una banda, avere una pistola e fare il criminale. Dopo i ragazzini, il virus si è insinuato anche negli adulti che, invece, un presente e un futuro ce l’avevano, come Montella e company, ma, soldi a parte, quella sensazione che devono aver provato nel malmenare gente inerme fino a diventare tutt’uno col loro sangue, sentendosi quindi uguali agli “eroi” di Gomorra che tanto li avevano colpiti, beh, quella dev’essere stata una sensazione impagabile. “Le scene di Gomorra… guarda che è stato uguale. Ed io ci sguazzo in queste cose.”

Carabinieri a Piacenza e serie TV: l’immagine del successo

Io credo che Roberto Saviano, padreterno di sinistra, dovrebbe continuare ad intascare i tanti milioni di dollari che gli entrano in tasca ma smettere di propinarci i suoi “pistolotti etico-morali”. Non solo perché essere plurimilionario e di sinistra a me (forse perché sono molto di sinistra e molto senza soldi) pare ancora un ossimoro, ma anche perché, se qualche volta dovesse affacciarsi dal suo attico di Manhattan e riflettere sul mondo, forse Saviano potrebbe anche arrivare a capire che il suo Gomorra, alla fine, ben lungi dal creare problemi a camorre e malavite organizzate, ha invece contribuito a rinforzarle.

Giuseppe Montella e la sua immagine del successo
L’appuntato Giuseppe Montella: la sua immagine del successo

Poi passiamo ad un’immagine: la foto dell’appuntato Montella con uno stupido cocktail in mano pieno di frutta e la piscina sullo sfondo. Montella sorride come farebbe un idiota in una pubblicità, perché nella sua mente è quella l’immagine del successo: piscina alle spalle, cocktail in mano e ragazza accanto, il cui volto, per questione di privacy, è stato cancellato. E perché per Montella e amici è quella l’immagine del successo? Perché l’hanno vista, centinaia e centinaia di volte, nell’ambito di serie TV di solito americane.

Da Miami Vice ad Animal Kingdom sono passati quasi cinquanta anni e migliaia di serie TV che raccontano storie malavitose, e tutte hanno cercato di insegnarci che senza cocktail, piscina e ragazze sexy non c’è successo. Magari quel cocktail del Carabiniere faceva schifo, magari Montella non sa nemmeno nuotare, ma ehi, non importa: appaio quindi sono se sono come appaio.

Carabinieri a Piacenza: il sonno della ragione da parte dello Stato

Carabinieri a Piacenza e mazzette di soldi

Poi c’è anche la foto dove i quattro Carabinieri sventolano le mazzette di soldi. A beneficio di chi? Non credo siano stati così incredibilmente stupidi da pubblicarla su Facebook. Quindi per chi era? Per i familiari, gli amici intimi, l’amante, o forse solo per riguardarsela nel telefonino, la sera, prima di andare a letto, come un nuovo tipo di favola della buonanotte? Come bambini coi soldi del Monopoli? Ma di sicuro non come vittime, ed ecco perché quelle fascette nere sugli occhi, per noi che guardiamo, sono come un cazzotto allo stomaco. Perché è da quando esiste la stampa che il mostro viene sbattuto in prima pagina, senza riguardo né per lui o lei né per la sua famiglia e spesso senza che ci siano nemmeno prove. Ma visto che si tratta di Carabinieri allora le cose cambiano: per i Carabinieri ci vuole riguardo!

Che questo riguardo, del tutto irrazionale, finisca subito. Se questo Stato ne è capace, faccia in modo che la ragione si risvegli, perché il suo sonno, come Goya ha cercato di insegnarci, genera mostri. Mostri come Giuseppe Montella e la sua orrenda combriccola.

La Tana dei Ghiri: into the Wild

La Tana dei Ghiri, Alaska

Quando ho imboccato la stradina sterrata che porta alla Tana dei Ghiri e visto dall’alto quel casale antico, grande e piccolo allo stesso tempo, incastonato in mezzo alle alte e disabitate colline lucane, come una piccola visione rosa in mezzo a tanto verde, ho pensato all’Alaska. Mi ricordava, non so perché, una di quelle bellissime case costruite ai primi dell’800 in Alaska, in mezzo alla natura incontaminata, dai mercanti russi di pellicce. Certo, il clima è diverso, perché la Tana dei Ghiri sta in Lucania, a pochi chilometri da Maratea, nell’unica striscia di accesso al mare della Basilicata, e quindi d’estate fa caldo, ma trovandosi a più di 500 metri d’altezza il caldo non è mai eccessivo.

La Tana dei Ghiri: erbe aromatiche
La Tana dei Ghiri, erbe aromatiche
La Tana dei Ghiri
La Tana dei Ghiri

La Tana dei Ghiri: energia della terra

Ci sono dei posti dove senti subito la magia, l’energia venirti incontro dal terreno, dalle piante, dai sassi, quella percezione particolare e rara di appartenenza alla Terra che forse provavano gli antenati degli antenati dei nostri antenati, quando l’uomo non aveva ancora predato e massacrato la natura. La Tana dei Ghiri è uno di quei posti, e già solo questa sensazione fa sì che valga la pena andarci.

La Tana dei Ghiri, papiro e altre piante

Come definire la Tana dei Ghiri

Definire la Tana dei Ghiri non è facile: è una via di mezzo fra un bed & breakfast e una sorta di comunità, dove tutti fanno colazione e soprattutto cenano insieme, partecipando, chi più chi meno, alla preparazione della cena. Il proprietario della Tana, Francesco Salvia, che tutti chiamano Ciccio, fa parte integrante del pacchetto. Prima di tutto ha il grande merito di aver preservato questo splendido angolo del pianeta evitando di trasformarlo in resort, o centro benessere-SPA, o albergo con piscina e poi appartiene a quella categoria di persone che, nel bene e nel male, hanno mantenuto viva la loro parte infantile e adolescenziale. Una “ragged company” a cui sono orgogliosa di appartenere anch’io. Ciccio Salvia è davvero un personaggio unico, e nel suo casale ci si diverte e si socializza molto, anche perché, non essendoci wifi, la gente è costretta ad abbandonare cellulare, social media e tutti gli schermi visibili o invisibili che, di questi tempi, siamo abituati a porre fra noi e gli altri.

La Tana dei Ghiri: Francesco Salvia
La Tana dei Ghiri: Francesco Salvia e il suo super basilico

Ovviamente, se siete di quelle persone che amano la natura, sì, ma ben ristretta in aiuole, se avete paura di lucertole e grilli, se amate il comfort prima di tutto e non vivete senza cose come l’aria condizionata, allora quello non è il posto per voi. Per quanto mi riguarda, invece, il mio unico rimpianto è di aver passato troppo tempo al mare (peraltro bellissimo, che in macchina dista solo cinque minuti da lì) e troppo poco tempo in giro per boschi, fra rovi, alberi e dirupi.

La Tana dei Ghiri: la casa sull’albero

I miei tre momenti preferiti nel corso di una settimana sono stati:

1 Arrampicarmi sull’albero da cui si accede ad una sorta di casetta-palafitta, e rimanere lassù, da sola, con le colline di fronte e gli alberi tutti intorno, con una sensazione di pace ed energia che non provavo da tanto, tanto tempo. Ho anche pensato che fosse uno di quei posti speciali di cui parlava Castaneda, tramite Don Juan, posti che sono come una chiave per l’equilibrio energetico dell’uomo: sedersi nel posto giusto ti ricarica, ti rende più forte, mentre sedersi nel posto sbagliato, nemico, ti indebolisce. La casa sull’albero è sicuramente un posto amico, e credo di essermici anche addormentata per un po’.

La Tana dei Ghiri: casa sull'albero
La Tana dei Ghiri; la casa sull’albero

Le lucciole

2 Le lucciole, intorno al tavolo e nell’orto, di sera, lucciole che non vedevo da quando ero bambina e pensavo fossero ormai estinte, almeno in Italia. Come un presagio di speranza e luce in un mondo sempre più immerso nella tenebra.

L’incanto della lucciola

La foresta e la gatta guardiana

3 Scendere lungo un sentiero quasi invisibile, verso il basso, inoltrandomi nella foresta fra rovi, alberi sempre più fitti, piante, farfalle, ragni, per poi accorgermi, dopo una bella scarpinata, che la gatta un po’ selvatica di Ciccio, micia che chiamavo Suriā, mi aveva seguita per tutto il tempo, silenziosissima, come una specie di guardiana. Avevo conquistato il suo amore dandole da mangiare per giorni, e la gatta deve aver pensato “Controlliamo che questa squilibrata non finisca in qualche burrone!”

Nella foresta con Suriā

La Tana dei Ghiri e la poesia: Beppe Salvia

Per finire, la Tana dei Ghiri, per chi ama la letteratura e la poesia come me, non può non far pensare a un grande poeta contemporaneo morto nel 1985 a soli trent’anni, Beppe Salvia, cugino di Ciccio e ad una sua splendida poesia:

Abbiamo nel cuore un solitario/ amore, nostra vita infinita/ e negli occhi il cielo per nostro vario/ cammino. Le spiagge i cieli, la riva/ su cui sassi e rovi e il solitario/ equiseto, e colli erbosi grassi/ rioni, città dispiegate come/ belle bandiere, e nude prigioni/ Questa è la nostra vita. Questi nostri/ volti vagabondi come musi/ di cani ci somigliano. Il vento/ il sole le corolle rosse e blu/ i sogni mai sognati i nostri sogni/ Questa è la nostra vita e nulla più.

Piccola farfalla nel bosco
La Tana dei Ghiri, colline lucane
La Tana dei ghiri, colline lucane

Per chi fosse interessato a una vacanza alla Tana dei Ghiri, può contattare Ciccio sul suo profilo Facebook Francesco Salvia (La tana dei ghiri)

Intervista a Laura Salvinelli, la fotografa che dà forma e vita ai ricordi

“Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato.”  Yukio Mishima “La decomposizione dell’angelo”

Laura Salvinelli non è solo un’artista, una grande fotografa di fama internazionale, specializzata nel difficile ambito della fotografia sociale, ma anche una persona davvero bella e rara: empatica, amorevole, solidale, animalista e sincera. Fisicamente sembra uscita da un dipinto di Klimt: alta, magrissima, occhi azzurri, capelli rossi e carnagione eterea. La sua casa è semplice e affascinante, piena di foto e oggetti speciali riportati dai luoghi più remoti della terra. La mia componente “bambina” vorrebbe frugare nel baule antico e orientale che ha in ingresso, e lei è così gentile che, se glielo chiedessi, probabilmente me lo lascerebbe fare.

Domanda: La tua carriera da fotografa è iniziata con cinema e musica, campi in cui hai lavorato per quasi vent’anni. Dopo di che sei passata dal fotografare Keanu Reeves alle ragazze di un carcere minorile in Kenya. Non è proprio un percorso normale: come ci sei arrivata?

Laura Salvinelli: Ho sempre seguito i miei sogni. Da bambina ero ossessionata dal voler dimostrare la verità dei sogni. Quando sognavo di stringere un oggetto speciale nelle mani pensavo che, al risveglio, ritrovandomelo in mano, avrei dimostrato che il sogno era vero. Ma ovviamente l’oggetto spariva sempre. Poi, a 21 anni ho iniziato a fotografare professionalmente, e ho avuto la fortuna di avere un maestro come Peppe D’Arvia che mi ha preso come assistente, senza scuole, e quando nella prima settimana di lavoro ho visto l’immagine apparire nella bacinella in camera oscura, ho realizzato che finalmente si era avverato il passaggio da una dimensione all’altra. Il sogno era vero e l’oggetto non sarebbe più sfuggito dalle mie mani. Poi, per tanti anni ho fatto ritratti, perché io sono una ritrattista, e vivendo a Roma ritraevo personaggi dello showbusiness o politici.

Intervista a Laura Salvinelli: Keanu Reeves in "Little Buddha" 1992 by Laura Salvinelli
Keanu Reeves in “Little Buddha” 1992 by Laura Salvinelli
Intervista a Laura Salvinelli: girls behind the bars Kenya by Laura Salvinelli
Girls behind the bars, Kenya 2005, by Laura Salvinelli

Ma, piano piano, mi accorgevo che i lavori che facevo per i miei clienti, maschi o femmine, erano tanto più belli – dal mio punto di vista – quanto meno assomigliavano a loro, o all’idea omologata e mercificata del loro aspetto, soprattutto per ciò che concerne il corpo femminile. Nel frattempo sono passati venti anni ed è arrivato l’11 settembre 2001: stavo fotografando un’attrice tedesca quando mi ha telefonato un’amica dicendomi di guardare la televisione e ho visto quelle immagini pazzesche del crollo delle Torri, e non dico che sia stata un’illuminazione sulla via di Damasco, perché era tempo che pensavo di fare, sempre in ambito fotografico, qualcosa di diverso, ma ho deciso di mettere le mie capacità al servizio di qualcosa di utile, di vero. E dopo poco sono andata in Afghanistan, che è il luogo della Terra in cui ho più lavorato e che amo particolarmente.

Intervista a Laura Salvinelli: Mercante, Afghanistan 2003 by Laura Salvinelli

Domanda: Ho letto sul tuo blog questa frase, a proposito del tuo lavoro: the invisible beauty of the weak. Quindi l’invisibile bellezza di ciò che è fragile. Cosa significa per te?

Laura Salvinelli: Sì, è una percezione che appartiene al cuore. Forse anche perché sono donna, mentre il fotografo/reporter uomo può avere uno sguardo più predatorio. Io vado d’istinto verso ciò che è debole, anche perché significa riconoscere la parte debole che hai dentro, che non tutti vogliono vedere. La fragilità, così come l’ombra e la luce, appartiene a ognuno di noi, e riconoscerla in se stessi aiuta a entrare in contatto con la fragilità altrui; è in questo contatto che trovi la vera bellezza, di solito intrecciata con la sofferenza.

Intervista a Laura Salvinelli: bambino lavoratore Pakistan 2013 by Laura Salvinelli
Bambino lavoratore, Pakistan 2013 by Laura Salvinelli

Domanda: Fra le tante foto che hai fatto, ce n’è una che senti più tua, o un servizio che in qualche modo ti è entrato nell’anima?

Laura Salvinelli: la foto che forse amo di più appartiene al reportage che ho fatto in Afghanistan sul buzkashi, nato come una competizione di guerra e diventato uno sport violentissimo, il più violento del mondo, dove i cavalieri si devono impossessare di una carcassa di capra e mandarla in una zona delimitata. Nel frattempo si muovono a velocità pazzesca tutti insieme e non ci sono regole. Possono usare la frusta sugli altri cavalieri e cavalli e fare qualsiasi cosa. Il gioco nel gioco, poi, è che il pubblico deve stare vicinissimo, senza muoversi, finché non arriva questo enorme gruppo di cavalli al galoppo e allora la gente inizia a correre, caricata dai cavalli. Io ero vestita da uomo perché le donne non sono ammesse, e cercavo di stare in mezzo al campo e il più vicina possibile ai cavalli.

Intervista con Laura Salvinelli: Buzkashi, Afghanistan 2013 by Laura Salvinelli
Buzkashi, Afghanistan 2013 by Laura Salvinelli
Buzkashi Portrait, Afghanistan 2013 by Laura Salvinelli

Nella foto di cui parlo c’è moltissimo dentro: innanzi tutto il mio amore per gli animali; non ho mai paura di stare vicino agli animali, nemmeno in situazioni pericolose. Quel giorno c’era finalmente una luce morbida, perfetta e all’improvviso, guardando un cavallo con la testa all’indietro ho avuto un ricordo: nello studio di mio padre c’era una gigantografia di Guernica grande tutta la parete, e nell’immagine di quel cavallo ho rivisto una parte di Guernica, perciò qualcosa che avevo dentro, qualcosa che per me significava “home”, e mentre arrivavano decine e decine di cavalli al galoppo verso di me sono rimasta immobile, ho messo perfettamente a fuoco e scattare è stato come un miracolo. Mi ero avvicinata fino al massimo che la messa a fuoco mi consentisse, e quindi ero a un metro da quel cavallo bianco, che ho toccato, mentre tutti gli afghani mi guardavano strabiliati.

Intervista a Laura Salvinelli: Buzkashi/Guernica 2013 by Laura Salvinelli
Buzkashi/Guernica Afghanistan 2013 by Laura Salvinelli

Quella foto “Buzkashi/Guernica” è comunque un ritratto, anche se un ritratto in azione. Invece, come foto di ritratti più “classici”, amo molto il reportage che feci per Internazionale alle ragazze kenyote rinchiuse in un carcere minorile, dove c’erano di base solo ragazzine di strada, arrestate per vagabondaggio o costrette a prostituirsi. Per avere il permesso di entrare nel carcere ho dovuto organizzare un corso di fotogiornalismo. Sono riuscita a stare ben tre settimane con queste ragazze, e piano piano io conoscevo tutto di loro e loro si erano talmente abituate a me che ero diventata invisibile. E questo è il sogno del reporter, diventare invisibile, perché in ogni situazione che vuoi fotografare basta che tiri fuori l’attrezzatura e tutto cambia. Questa invisibilità mi ha permesso di scattare foto bellissime assolutamente naturali, fra cui, la mia preferita, quella di una ragazza seduta che legge Oliver Twist, libro che racconta una storia uguale a quella di tutte le ragazze rinchiuse in quel carcere: il bambino che rimane solo per strada e finisce nelle mani della microcriminalità.

Intervista a Laura Salvinelli: girls behind the bars "Oliver Twist" Kenya 2005 by Laura Salvinelli
Girls behind the bars “Oliver Twist” Kenya by Laura Salvinelli

Domanda: tu hai scelto di raccontare la parte del mondo più fragile, più povera. Se dovessi fotografare l’altra parte del mondo, quella opulenta, capitalista, che foto faresti?

Laura Salvinelli: di sicuro non fotograferei politici, perché fotografandoli promuovi la loro immagine e fai il loro gioco. Di primo acchito mi piacerebbe fotografare la contraddizione, ma avendo io una vena estetica molto forte, so anche che la bellezza può essere un’arma e quindi va controllata. Ad esempio nei posti di guerra mi sono sempre rifiutata di lavorare per i militari, perché avrei rafforzato la loro immagine. Poi con i militari non hai nessun controllo su quello che puoi fotografare, e più sono importanti e più ti impediscono di fare il tuo lavoro. L’ultima guerra che i reporter hanno potuto seguire e fotografare è stata quella del Viet-Nam.

Domanda: Parlando di guerra, lavorare col dolore della gente, se sei una persona empatica, ti può far soffrire molto. Ogni tanto ripenso a quel film di Katryn Bigelow “The hurt locker”, dove c’è l’artificiere che affronta e disattiva bombe con l’insostenibile leggerezza dell’essere, quasi con piacere, mentre nel rapporto con moglie e figlio neonato, in licenza, prova solo depressione. Gli domandano “Qual è il modo migliore per disinnescare quelle cose?” e lui risponde “Quello in cui non si muore.” Il suo hurt locker è chiaramente la dipendenza dall’adrenalina, che viene anche chiamata Dipendenza da Ricerca del Rischio Estremo (DRRE). Qual è il tuo hurt locker, se ne hai uno?

Laura Salvinelli: In quel film ti mostravano benissimo il meccanismo di dipendenza dalla guerra, e questa è una cosa che succede. Quando sono stata in Libano per la Croce Rossa Internazionale ho lavorato proprio in mezzo alle pallottole e ho provato quella sensazione. Volevo rimanere un mese ma alla fine, per fortuna, sono stata lì solo per dieci giorni, e dieci giorni in mezzo alle pallottole mi hanno fatto tornare drogata, perché in quelle situazioni ti senti vivo come non mai, e nonostante i sensi di colpa ti ricordino che stai provando piacere sulla morte altrui, solo perché hai avuto la fortuna di essere ancora viva, la dipendenza rimane ed è una cosa che provano tutti quelli che lavorano fuori, in situazioni di guerra ed emergenza, militari, reporter, medici ecc.

Intervista a Laura Salvinelli: Tripoli, Libano, 2014 by Laura Salvinelli
Tripoli, Libano, 2014 by Laura Salvinelli

Per non farmi soffocare dalla sofferenza, invece, lavoro molto con immagini interiori, in una sorta di auto-analisi. Infine, il sentirsi utile è fondamentale. La seconda volta che andai in Afghanistan fui catapultata in un ospedale, nel centro grandi ustioni. C’erano tutte donne che si erano date fuoco ed era un tunnel dell’orrore: donne bruciate anche fino all’80% della superficie del corpo, in una situazione di dolore assoluto, senza anestesia, e ho pensato che non ce la potevo fare. Poi ho capito che queste donne erano ribelli: si davano fuoco per ribellione, altrimenti avrebbero continuato a vivere in apatia e depressione come la maggior parte delle donne afghane. Questo mi ha fatta sentire in connessione con loro, che soffrivano dolori al cui confronto il mio non era nulla. Una di loro, subito prima di morire, mi ha fatto cenno con la mano di avvicinarmi e mi ha detto “Foto”, in afghano. Allora ho iniziato a lavorare perché ho capito che quelle storie andavano raccontate.

Intervista a Laura Salvinelli: ragazza tibetana, 2004 by Laura Salvinelli
Ragazza tibetana, 2004 by Laura Salvinelli

Domanda: Il villaggio degli elefanti? Quello che non sono riuscita a capire è: quegli elefanti erano felici o no?

Laura Salvinelli: Gli elefanti sono animali selvatici e non sono fatti per vivere in cattività, difficilmente si riproducono e i maschi adulti a volte impazziscono. Detto ciò quello era il più grande tempio in India, a Kerala, dedicato a Ganesh, dio con la testa d’elefante, e lì gli elefanti non stavano in gabbia, erano liberi, ben nutriti e lavati in uno stagno che non era né grande né profondo, ma comunque erano ben accuditi.

Villaggio degli elefanti, Kerala, India 2007 by Laura Salvinelli
Villaggio degli Elefanti, Kerala, India, 2007 by Laura Salvinelli
Villaggio degli Elefanti, Kerala India, 2007 by Laura Salvinelli

La prima volta che andai lì rimasi per circa dieci giorni; ogni giorno andavano e venivano turisti indiani, facevano due foto e via, mentre io, da sola, stavo sempre lì. Un giorno i guardiani degli elefanti volevano andare alla partita di cricket, mi sono venuti tutti intorno dicendo, col loro inglese divertentissimo: “Senti Madam, tu hai visto tante volte, tu adesso sai fare tutto, noi andiamo a vedere la partita.” Hanno tagliato una noce di cocco in due e mi hanno messo i gusci grossi e rasposi in mano indicandomi un elefante gigantesco, maschio, di 41 anni, dicendo: “Tu sai come, lui fa tutto” e mi sono ritrovata, quasi al tramonto, da sola con quest’elefante enorme e i due gusci di noce che servivano per grattarlo, per fargli una sorta di scrub.

Villaggio degli elefanti, Kerala India 1996 by Laura Salvinelli

Lui entra nello stagno, si sdraia e si rovescia, col pancione all’aria e gli occhi chiusi. Io mi avvicino lentamente ed entro nell’acqua putrida e quando lui ha capito che ero completamente imbranata ha iniziato con la proboscide ad annusarmi e toccarmi. La cosa pazzesca è che mentre la pelle degli elefanti è durissima, la proboscide è morbida e umida ed è un contatto meraviglioso. Allora ho detto “Beh, proviamoci” e ho iniziato a grattarlo, piano piano, con i gusci di noce, e lui, come un gatto enorme, quando mi stancavo e mi fermavo apriva l’occhio e mi guardava. Dopo un po’ mi ero messa, bagnata fradicia, a cavalcioni del suo grosso collo e gli aprivo il labbro, gli contavo i denti, gli tiravo su l’orecchio e provavo un amore sconfinato. Se non fosse stato così grosso avrei voluto portarlo a casa! Il contatto con gli animali deve essere fisico, e allora è una cosa meravigliosa…

giovane uomo vestito e truccato per festa in Niger 2018 by Laura Salvinelli
Giovane uomo vestito e truccato per festival in Niger, 2018 by Laura Salvinelli

Domanda: Com’è la salute della fotografia, in generale?

Laura Salvinelli: Ovviamente è in declino, come mezzo che diventa per certi versi obsoleto, ma soprattutto perché è legata all’editoria, ai giornali, ed essendo l’editoria in crollo porta giù con sé anche la fotografia. La cosa positiva, invece, è che la fotografia è stata sdoganata nel mondo dell’arte, dove è difficilissimo accedere, però non ci sono mai state così tante mostre e i fotografi, finalmente, sono riconosciuti come artisti. Prima non potevamo entrare nei musei, adesso sì, e questa è una buona cosa.

Murale sulla mostra contro la mutilazione genitale femminile con foto di Laura Salvinelli, New York City 2019

Subito prima del Covid Laura stava preparando una mostra sulla natività in Afghanistan, sponsorizzata da un’importante associazione, e realizzata insieme a un altro lavoro fatto per Emergency, mostra che doveva essere inaugurata il 18 maggio ma poi con la pandemia tutto si è bloccato e in questo caso la situazione è ancora ferma. Laura, però, sta portando avanti quattro altri progetti ed è una donna incredibilmente positiva ed ottimista. Il suo sito, www.laurasalvinelli.com raccoglie tutti i lavori meravigliosi, reportage, collaborazioni, mostre, libri, fatti da Laura nel corso della vita e le foto sono in alta definizione: fate un piacere a voi stessi, visitatelo.

Tutte le foto sono pubblicate col permesso di Laura Salvinelli

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