(Esterno giorno, mattina caldissima d’agosto in fila fuori della Asl)
Davanti a noi ci sono due ragazzi, fra i trenta e i quaranta, che parlano di un omicidio avvenuto 10 anni fa.
“Ma indov’è che l’hanno trovato?” fa il primo.
“Drénto ar bare, no?” risponde il secondo.
“Ma checcazzo, e s’era capito com’è morto?”
“Boh, nun se sà si l’hanno accortellato, si l’hanno impiccato… comunque l’hanno buttato drénto ar bare e hanno chiuso a saracinesca”
“Ma la moje, te ricordi, la negra, nun s’è preoccupata quanno nun l’ha visto tornà?”
“Embè, che poteva fà?”
“Lo poteva cercà, no?”
“Eddove?”
“Eddove? Drénto ar bare, cazzo!”
Mentre i due chiacchierano scende le scale una ragazza, zoppicando vistosamente. Qualcuno le chiede che s’è fatta e lei risponde:
“Mannaggia! Me sò presa ‘n’incarcata…”
Nel frattempo arriva uno dietro di noi, sui cinquanta, magrissimo e scavato, coi capelli da mohicano, le infradito ai piedi e dei pantaloncini che Ettore è sicuro siano quelli del pigiama: “Boxer no, ma nemmeno un costume, quello era un pigiama” ha sostenuto poi, sicuro come la morte. Il mohicano, serissimo, si mette a cantare, ad alta voce:
“Dottore ti voglio parlare! Mentre dipingi un altareeeee!” (parafrasi di una vecchissima canzone di Fausto Leali. nda)
La guardia giurata, un ragazzo che ha la pazienza, la tolleranza e la gentilezza di Gandhi al cubo, gli dice:
“Allora? Nun ce vai in vacanza?”
“Macché – dice il mohicano – nun me posso move perché c’ho sti cani. Prima erano solo due, mo’ me so’ preso pure er mastino e stò ‘nchiodato.”
“Ma non trovi nessuno che je porta da mangiare?”
“Sì ma poi chi li porta a spasso? No, loro, si nun me vedono, morono. Senza di me mica campano… Ma comunque me so’ preso ‘na piscina, tre metri pe’ due, 700 euri, l’ho montata io e quanno er callo t’ammazza me ce butto”
Intanto i due tizi davanti a noi si sono mossi. Il primo è già uscito, mentre il secondo parla già da un po’ al cellulare col vivavoce maltrattando una poveraccia che dalla voce sembra la madre, ma dal numero di volte che lo richiama immagino che invece sia la donna. Finalmente si avvia verso l’ambulatorio ma si ferma lungo le scale perché il telefono squilla di nuovo e lui si mette a parlare, tranquillo, mentre tutti noi aspettiamo sotto al sole. Sale due gradini e poi ne scende quattro urlando e gesticolando: lo vediamo tutti e tre in contemporanea.
“Ma guarda sto rincoglionito” fa Ettore.
“Poi uno dice che je dai ‘na pizza” commenta il mohicano, sempre serissimo.
Il tizio, appiccicato al telefono, sale e scende le scale come se fosse la cosa più normale, finché non gli spediamo la guardia giurata a minacciarlo.
“Ma guarda sto stronzo – scuote la testa il mohicano – sale e scende… sta a seguì la Borsa, sto pezzo demmerda…”
Noi scoppiamo a ridere. Lui sempre serissimo: un Buster Keaton mohicano.
FILA ALLA CASSA
Dialoghi di periferia ai tempi del Covid: a pochi metri da Eurospin
(Interno giorno, Eurospin, agosto ora di pranzo, caldo come l’inferno fuori ma dentro c’è l’aria condizionata)
Messe le cose nel carrello, Ettore si avvicina a una cassa. Nella fila accanto c’è una cassiera che chiamiamo “la Schizzata” perché, oggettivamente, lo è. Bisogna aggiungere che, potendo scegliere, la maggioranza dei clienti rifuggono dalla Schizzata come se fosse portatrice di patogeni devastanti. Mentre i clienti coi carrelli carichi si avvicinano timidamente, la Schizzata urla loro di restare fermi lì dove sono, a due-tre metri di distanza: “Vi chiamo io appena ho finito!” I primi della fila si immobilizzano. Sono moglie e marito: lei, enorme, molto alta, grassa ma anche muscolosa e forzuta, una che se ti dà un cazzotto in faccia ti fa saltare i denti. Il marito, invece, piccolo, timido e dall’aria un po’ pavida.
Mentre moglie e marito si sono fermati, rispettando il dictat della Schizzata, arriva un coatto sui quaranta, canotta, iper-tatuato, che supera la fila e si piazza a un centimetro dalla cassa. La Schizzata ha troppo da fare (forse sta elaborando una variante della teoria delle stringhe) per accorgersene. La moglie grossa guarda il marito che guarda verso il nulla. Poi arriva un’altra donna, coatta pure lei ma piccola di misure, che supera moglie e marito e si piazza dietro al tatuato. A quel punto la Schizzata dà il via alla giostra e il coatto tatuato si accinge a mettere le sue cose sulla cassa, ma la moglie enorme lo raggiunge con due balzi e prende di petto sia lui che l’altra donna, che subito si allontana, domandando:
“E allora ‘ndo me dovrei mette?”
“Me frega un cazzo, basta che stai dietro de me!” le ordina la moglie grossa.
Il coatto tatuato si ritira anche lui, borbottando:
“Vabbè, oggi nun c’ho proprio voja de litigà…”
Mentre prendono le cose dal carrello e le mettono sulla cassa, la moglie enorme sembra agitata per aver dovuto litigare con due teste di cazzo e intanto il marito si guarda ancora intorno vergognandosi. Ettore, dalla cassa accanto, si sente in dovere di fare una sviolinata alla donna. Quindi, di fronte a una platea composta dalla Schizzata, dal tatuato che non aveva voglia di litigare e dal resto della combriccola, le dice qualcosa del tipo:
“Brava, signora. Complimenti.”
E lei, ancora un po’ scossa, fa:
“E checcazzo! Ogni tanto ce vole ‘n po’ de grinta!!!”
FILA PER LA PIZZA
(Interno giorno, pizzeria, agosto ora di pranzo, 60 gradi all’ombra, ci avviciniamo al punto di ebollizione)
La pizzeria è piccola, non particolarmente pulita, ma la pizza è buona e costa poco. Il proprietario e pizzettaro, Mirko, è un omone grande e grosso. Io aspetto in macchina, in doppia fila (non per paura dei vigili, che da queste parti non ci mettono piede ma perché sto bloccando un garage.) Ettore ordina la pizza, e mentre aspetta che esca un’infornata di margherita si guarda intorno e vede che ci sono due amici di Mirko che stanno lì a passare il tempo, siccome c’è un bel fresco…
Uno dei due gli chiede qualcosa e Mirko diventa ancora più rosso:
“Ma che cazzo, stamattina ariva sto regazzino e me dice – Scusi non dovrebbe portà la mascherina? – e io prima me lo guardo pe’ capì se scherza, e quanno vedo che è serio je faccio: Ma li mortacci tua, de tu madre che t’ha partorito e de tu padre che quer giorno se poteva fa ‘na sega! A regazzi’, prova a tenettela tu a mascherina cor forno accanto a 300 gradi, che lo apri e lo chiudi, lo apri e lo chiudi, e ner frattempo sto calore aumenta, aumenta e sì c’hai la mascherina addosso te se squaja in faccia. “
Un attimo di pausa mentre apre il forno ustionante con l’infornata di margherita da cui stacca e ci taglia in rettangoli i nostri 2 euro e 80 centesimi di pizza. Subito dopo continua:
“E poi j’ho detto: ma vatten…”
E gli amici, birra in mano, gridano in coro con lui: “ AFFANCULOO!!!”
La “comunicazione autistica” è un ossimoro: tutti sanno che l’autismo è una patologia dove si perde completamente il contatto con la realtà e ci si costruisce un proprio mondo interiore che impedisce ogni tipo di contatto con gli altri, come si trovassero tutti al di là di una barriera impossibile da valicare.
Secondo il dizionario Treccani l’autismo “è un disturbo neurocomportamentale di tipo pervasivo che interessa più aree dello sviluppo (comunicativa, sociale, cognitiva), tanto che, nell’accezione psicodinamica, si parla di un disturbo dello sviluppo del pensiero e dell’affettività. Il termine autismo deriva dal greco autós («se stesso») e indica l’autoreferenzialità, la negazione dell’altro e di ciò che è differente da sé, e quindi la mancanza del senso della realtà.”
Facebook: comunicazione autistica
L’autismo è da sempre una malattia che si manifesta nei bambini, ma da quando esistono i Social Media e, nello specifico, Facebook, credo che una qualche deriva di questa malattia si sia diffusa a macchia d’olio fra gli adulti. Se proprio vogliamo mettere il dito nella piaga, i più esposti all’autismo da Social Media sono tutti i soggetti che vanno dai quaranta in su. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, i giovani fra i venti e i trentacinque anni circa usano – in buona parte – Facebook in modo più comunicativo: utilizzano gruppi specifici per avere o dare informazioni e aggiornamenti riguardo al proprio ambito professionale o di studio; condividono post di argomenti a cui si interessano, di associazioni a cui sono affiliati; utilizzano parole per commentare qualcosa e non solo like, cuori, faccette varie; per finire non postano mai, in modo compulsivo, uno dopo l’altro post “autoreferenziali” nel totale disinteresse di chiunque non sia se stesso, come invece fanno gli adulti.
Facebook: la categoria degli amici
Proprio come Alice quando attraversa lo specchio, anche noi, imbattendoci nel sistema Facebook, non siamo subito in grado di capire che ci ritroviamo in un mondo alla rovescia. Quello lo capiremo dopo un po’, quando avremo imparato a riconoscere tutte le varie categorie di utenti: la prima è quella degli amici. Parlo degli amici in carne e ossa, quelli che incontriamo nella realtà e con cui già parliamo al telefono, su whatsapp o telegram. Del tutto inutile, quindi, parlarci anche su Facebook, ma servono a noi e al sistema per fungere da “trama” su cui tessere l’ordito in cui verranno inseriti tutti gli altri nuovi contatti. Devo aggiungere, perché non ci siano fraintendimenti, che la maggior parte dei miei amici in carne e ossa va su Facebook solo per promuovere associazioni animaliste, ong serie o per cercare di far ripartire il proprio lavoro, e tutto sono tranne che addicted o autistici.
Facebook: comunicazione autistica, il mondo rovesciato di Alice
Facebook: la categoria dei vecchi amici
La seconda categoria è quella dei vecchi amici che non vedi né senti da quando eri giovane o giovanissima. Dai tempi del liceo, insomma. Ti chiedono l’amicizia o accettano la tua richiesta ma, di solito,non ti scrivono una singola parola. Il vecchio “hey ciao, come stai?” è del tutto off e ti viene perfino da rimpiangere il morettiano “Vedo gente, faccio cose”. Al massimo ti mettono un like, di tanto in tanto. Se intervieni con qualche commento nei loro post, magari anche con commenti educatamente provocatori, si stupiscono e hanno ragione: sei tu a comportarti in modo “diverso”, non loro. Questo è il momento in cui inizi a capire che ti ritrovi in un mondo alla rovescia: persone che collezionano diverse centinaia o alcune migliaia di “amici” ma non hanno nessuna voglia di comunicarci.
Uno studio pubblicato dalla rivista Royal Society Open Science ha affermato come risulti quasi fisiologicamente impossibile avere più di 150 amici su Facebook. Questo numero, infatti – conosciuto come numero di Dunbar – è il numero massimo che il cervello riesce a gestire senza problemi. Il numero degli amici veri, poi, si restringe sempre di più, come tutti sappiamo, e anche secondo lo stesso studio possiamo contare sulle dita di una mano il numero degli amici reali. Eppure in molti cercano diligentemente di accrescere il numero degli “amici” di Facebook come se fosse un valore aggiunto. Del tipo: “accidenti, ha il massimo degli amici permessi da Facebook, wow!”
Fra i tanti che detengono con orgoglio quel numero massimo di “amici” alcuni dicono che “gli serve per lavoro”, ma è una frase totalmente priva di senso. I contatti di lavoro non li tieni su Facebook e comunque non sarebbero mai così tanti. Se poi devi vendere qualcosa, come commerciante o pubblicitario,se per per lavoro sei uno che decide quale pubblicità mandare e a chi mandarla, devi per forza di cose utilizzare contatti categorizzati, e quindi scelti – trasversalmente da tantissimi account diversi – tramite un algoritmo.
La categoria degli sconosciuti
Dopo aver incontrato la categoria dei vecchi amici, arrivano gli sconosciuti. Sei abituato a fidarti degli “amici degli amici”, come se fosse un invito a cena e non ti rendi conto che invece stai camminando su un dirupo. Basta un passo falso e ti arriveranno centinaia di richieste di amicizia da parte di uomini allupati se hai messo una foto bellina sul profilo; centinaia di richieste da parte di uomini africani basta che tu sia donna e occidentale; centinaia di richieste da parte di prostitute di tutto il mondo se sei uomo e hai più di quaranta anni. Riceverai richieste di amicizia scritte in arabo, in turco, in hindi, in altre lingue di cui nemmeno riuscirai a capire la provenienza, ma tutto questo per fortuna durerà poco. Quando avrai eliminato tutte quelle richieste, una ad una, poi non arriveranno più tsunami, ma solo qualche piccola onda qua e là.
Facebook: comunicazione autistica, gli spam travestiti
Quello che invece sarà difficile decrittare e quindi evitare sono gli appartenenti a un’altra categoria: i lupi travestiti da pecorelle (senza offesa per i lupi veri, che amo profondamente e che non si travestono mai). Mi spiego meglio: parlo di “amici” di qualche “amico” che sembrano persone come te, uomini e donne normali e solo dopo che gli hai dato l’amicizia scopri che ti hanno scelta perché – ad esempio – sei amante della letteratura e loro hanno un libercolo in uscita, di cui faranno pubblica lettura in qualche località, e di questa lettura troverai vari post con dovizia di particolari, e poi i commenti degli “amici”: “Bellissimo!” “Veramente profondo!” “Magico!” e per finire like e cuori come se piovesse. Avrebbero potuto creare una Pagina dedicata, ma poi l’intento sarebbe diventato palese: le Pagine sono una forma di trasparenza e ottenere il like alla Pagina, che è l’equivalente dell’amicizia su un normale profilo, è molto più difficile.Per quanto riguarda questo genere di utenti furbetti, puoi scommettere un braccio contro dieci euro che dopo quella lettura ce ne sarà un’altra e poi un’altra e la loro “amicizia” si rivelerà tristemente per quello che davvero è: spam.
I più addicted: gli auto-referenziali e gli iper-compulsivi
Quelli che hanno una vera, brutta dipendenza da Social sono: gli auto-referenziali, in genere colti e sicuramente interessanti come persone, che però postano continuamente cose su se stessi, di solito autoincensanti, ma quello che è più peculiare è che, come ragni nella ragnatela, questi utenti se ne stanno lì ad aspettare che qualcuno entri nei loro post ma non li vedrai mai – mai – scrivere qualcosa in un post altrui.
Non pochi i soggetti che non hanno né una cultura da mostrare né un libercolo da vendere, ma una compulsione autistica davvero impressionante. Alcuni sono fuori controllo: pubblicano post uno dopo l’altro fino a postarne dieci o più nel giro di un’ora, con vecchia musica che tutti conoscono (e se proprio volessero ascoltarla la cercherebbero da soli su youtube) e tutto quello che gli passa per la mente, senza preclusioni né esclusioni e soprattutto senza mai porsi la domanda: ma almeno a una o due persone interesserà anche solo un pochino quello che con dedizione indefessa continuo a postare? Ragazzi, con simpatia, il primo passo è rendersi conto di avere un problema: ve lo dice una persona che conosce bene le dipendenze.
La categoria degli idioti, a cui appartengo
Poi ci sono quelli come me, gli idioti, che creano una pagina col nome del proprio Blog solo ed esclusivamente nella ridicola speranza che questa Pagina serva a far conoscere il Blog. Pur avendo un livello informatico avanzato (utilizzare un Social Media è come giocare a rubamazzo, creare da soli un sito, impostare un Seo decente e poi collegare il sito a Facebook è come giocare a bridge) la creazione di una Pagina Fb e suo collegamento diretto al blog è un vero pain in the ass. Facebook for developers non è affatto un giochetto per bambini. Tutto questo per far capire che, dopo tanta fatica, ti accorgi che la tua stupida Pagina non sostiene proprio niente che non sia Facebook stesso. La gente in genere e gli italiani in particolare non hanno voglia di leggere articoli, di conoscere altri punti di vista, vogliono solo scrivere post, brevi e rivolti a se stessi. Le persone come me, che si rivolgono agli altri, non hanno chance. Perché sono un’idiota? Perché proprio io, che venero McLuhan, ho voluto dimenticare, in questa avventura del Blog con collegamento Facebook che “medium is the message” e nient’altro. Che su Facebook, come dice Davide Mazzocco “Lavoriamo per Mark Zuckerberg con la stessa passione che riserviamo ai nostri hobby, ma con una continuità assolutamente inedita nella storia dell’umanità. Siamo i nodi di un reticolo di due miliardi e 270 milioni di persone, mittenti e destinatari di messaggi pubblici e privati che alimentano un gigantesco Leviatano che si nutre di dati.“ Questo è il solo messaggio, tutto il resto è Matrix.
Facebook: comunicazione autistica
Facebook: comunicazione autistica
Tornando quindi all’autismo, noi sappiamo che i bambini autistici non riescono ad identificare le emozioni degli altri individui né ad attribuirgli uno stato mentale. Non possiedono, quindi, ciò che viene definito “teoria della mente” che consiste nella capacità di immaginare cosa gli altri possano sentire e desiderare, facendo ipotesi e prevedendo il loro comportamento. Esiste un circuito speciale nel cervello umano che sta lì proprio per elaborare le informazioni che arrivano dal mondo sociale e questo circuito perciò si chiama “cervello sociale.” I bambini autistici non sono in grado di sviluppare una teoria della mente e non possiedono un cervello sociale. A mio parere, anche a buona parte dei più che adulti utenti di Facebook mancano queste skills.
Prima l’uovo o la gallina?
Un po’ come per la vecchia faccenda dell’uovo e della gallina c’è una domanda a cui è impossibile rispondere: la condizione umana è diventata così infernale e miserrima a causa dei vari Facebook o Facebook può esistere proprio perché la specie umana è così orribile?
In campo psico-pedagogico esiste un “metodo educativo” che si chiama Token Economy, applicabile, secondo molti educatori, a bambini dai 3 anni di età fino all’adolescenza. Funziona così:
Si crea una tabella/calendario e si decidono delle regole, specifiche o generali. Se i figli sono più di uno è anche meglio: le tabelle di ogni figlio saranno appese in casa, una accanto all’altra e i bambini andranno in competizione con i propri fratelli o sorelle e questo li renderà più malleabili e desiderosi di successo. Poi ci si munisce di stelline (adesive, disegnate, fai-da-te) e a fine giornata si metterà una stellina premio sulla tabella del bambino che ha seguito le regole, e niente a chi si è “comportato male”. Per rendere il tutto ancora più appetibile, si può aggiungere un bonus: quando un bambino raggiunge un tot numero di stelline gli si fa un regalo, ma gli educatori raccomandano che il regalo non sia mai e poi mai un giocattolo, ma qualcosa tipo un gelato, o un pomeriggio col padre (se fossi una bambina direi: Ma che schifo di bonus!)
C’è anche un’ultima variabile, su cui gli educatori sono in parziale disaccordo: se il bambino si comporta male, può perdere una o più stelline faticosamente accumulate.
Stelline e like: la tabella della Token economy
Stelline e like: bambini e animali marini
Un po’ come il pesce che danno ai poveri mammiferi marini in quelle mostruosità che chiamano sea parks quando la foca, il delfino o l’orca fanno quello che gli addestratori vogliono da loro. Per fortuna, ogni tanto, ci sono animali che disubbidiscono (vedi l’orca Tilikum) ma questa è tutta un’altra storia.
Detto ciò passiamo alle stelline degli adulti, che si chiamano “like”, ma non prima di ricordare forse l’unica frase veramente intelligente che il Berlusconi imprenditore, tanto tempo fa, suggeriva ai suoi venditori alle conventions di Publitalia: “Considerate sempre che il pubblico è come un bambino di 11 anni nemmeno troppo sveglio.”
La nascita dei like
Con Facebook e gli altri Social Media, che sono merce mentre noi fruitori siamo pubblico, possiamo senz’altro dire che il pubblico non è più un bambino scemo di 11 anni, ma una massa di bambinoni in forte ritardo mentale di non oltre 3 o 4 anni. Il like con il thumb up è apparso per la prima volta su Facebook nel 2009, per risolvere la problematica dei troppi commenti uguali e inutili che la gente esprimeva. Quindi Zuckerberg e amici hanno pensato ad un bottone che sintetizzasse il tutto con un’immagine; un po’ come un viaggio all’indietro nel tempo: visto che il linguaggio, parlato e soprattutto scritto è la capacità migliore che l’uomo sia riuscito ad esprimere nella sua – chiamiamola – evoluzione, facciamo tornare l’uomo all’epoca delle incisioni rupestri o paleoglifi che dir si voglia. Insomma, alla preistoria.
Incisioni rupestri di epoca preistorica in Valcamonica
Chi dobbiamo ringraziare per l’invenzione dei like?
C’è tutta una “letteratura” su chi sia stato ad inventare il like. Alcuni dicono siano stati due fra gli allora soci di Zuckerberg: Rosenstein o Leah Pearlman, che hanno poi entrambi lasciato Facebook, miliardari, per creare social media dedicati allo yoga, o addirittura strisce di fumetti dedicate all’amore universale. I soldi, comunque, se li sono tenuti stretti, forse in onore dell’amore universale per il denaro. In realtà il tasto like esisteva già in un social media sconosciuto, Friendfeed, acquistato da Zuckerberg per 50 milioni di dollari (spiccioli, per lui), ma da quando è uscito su Facebook si è diffuso a macchia d’olio in tutti i social media esistenti, perfino in quelli cinesi e russi.
Le strisce comic sull’amore universale by Leah Pearlman
Siamo quindi un intero mondo di bambini in cerca dell’approvazione di mamma e papà e ci fa piacere ricevere una stellina/like quando scriviamo una stronzata su Youtube o pubblichiamo qualcosa che non frega a nessuno su Facebook. Io stessa, che ho sempre usato molto Youtube, perché amo la musica e mi piace chiacchierare in inglese, principalmente con gli americani, ho ancora un micro-nanosecondo di gratificazione quando ricevo la scritta “A qualcuno è piaciuto eccetera” che ti manda Youtube. Subito dopo, però, mi dico: “Ma sei completamente scema?” La cosa più divertente, nell’osservare l’utilizzo dei like da parte della gente, è notarne da una parte la “tirchieria”, e dall’altra l’improvvisa generosità quando vedono che i like su un commento o un post sono già tanti. Quindi in parte siamo bambini capricciosi, del tipo “No, no, no. A questo/a il like non glielo voglio dare” e in parte siamo Walking dead, alla ricerca del branco con cui marciare uno dietro l’altro.
Stelline e like: il nuovo Linguaggio Scritto
I like sono diventati il vero motore dei Social Media: i contenuti sono ormai inesistenti, sempre che non si parli di cose da vendere (merci varie o adesioni ad associazioni di qualsiasi genere) e la gente non riesce a leggere niente che sia più lungo di 100 caratteri e qualche faccina. A meno che non ci sia da insultare, bullizzare e litigare: solo in questi casi la gente ritrova l’uso, di solito molto sgrammaticato, della parola scritta. Il like è andato oltre ai migliori propositi dei suoi creatori, è diventato il Linguaggio Scritto con cui la gente finge di comunicare. I like sono diventati un’entità così potente da spaventare anche coloro che li hanno creati.
Jack Dorsey, Ceo di Twitter
Ultimamente i più famosi Social Media hanno cercato di fare esperimenti in cui i like venivano eliminati (magari un po’ alla volta, a scalare, come si fa con le dipendenze da qualche droga) o almeno dove eliminavano il loro conteggio. Jack Dorsey, CEO di Twitter, già da tempo si è dichiarato consapevole dell’eccessiva e negativa importanza che hanno assunto i like. Perfino Zuckerberg, più su Instagram che su Facebook, ha cercato di eliminare il conteggio dei like, anche per evitare i sempre più diffusi commerci di like, che, come tutte le cose rilevanti, vengono venduti e comprati per rendere più forti influencer e pagine potenti.
Stelline e like: mai togliere le stelline a un bambino
Contro chi si sono scontrati i CEO dei Social Media in questo tentativo di riassestamento dei like? Con il pubblico, che ha reagito furioso e preoccupatissimo. Mica ci vorrete togliere le stelline faticosamente accumulate, giusto? Perfino molti educatori pur favorevoli alla patetica e fuorviante Token Economy dicono che togliere a un bambino le stelline accumulate è una cattiveria, in certi casi un piccolo trauma.
Noi, però, non siamo bambini. Senza le stelline, forse, potremmo anche riuscire a sopravvivere…
“Nel corridoio del tempo ci sono demoni, o forse animali. Vivono nello spazio, al di fuori del tempo, ma cercano sempre una via d’accesso. Sembrano gatti, grossi gatti blu, solo che invece di giocare coi topi giocano col tempo. E lo divorano”
Jean Paul Galibert, filosofo e scrittore francese ha scritto un saggio intitolato “I cronofagi. I 7 principi del capitalismo” (Stampa Alternativa, 2015). Nel suo saggio ci spiega come l’ipercapitalismo appaia, sempre di più, come un progetto di dominazione dell’insieme del mondo, facendo in modo che la redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non essere. Maestro nell’arte sottile di vendere il niente e il nulla al prezzo del reale, l’ipercapitalismo tenta la conquista dell’esistenza nella sua totalità. Galibert è stato il primo a definire la “cronofagìa” come uno dei princìpi dell’ipercapitalismo contemporaneo, in cui la risorsa scarsa, dopo il capitale, diventa il nostro tempo.
Partendo da questo breve ma illuminante saggio, il giornalista Davide Mazzocco ha scritto “Cronofagìa” (D Editore, 2019), dove spiega il suo intento fin dalle prime righe:
“La storia dell’umanità è contraddistinta da un insopprimibile istinto predatorio. Si tratta di una caratteristica che ci accomuna a un’infinità di specie animali che necessitano di cacciare per il proprio sostentamento. … Queste pagine, però non vogliono descrivere la predazione nella sua forma istintiva, perché questa è materia per psicologi ed etologi. Questo libro vuole, molto più semplicemente, mostrare le dinamiche, le strategie e le sovrastrutture con le quali i poteri politico ed economico depredano le masse del loro tempo.“
Divoratori di tempo: Cronofagìa di Davide Mazzocco
Mazzocco, con una capacità rara di spiegare con parole semplici ciò che semplice non è, torna sul saggio di Galibert: l’ipercapitalismo è riuscito a fare in modo chelo sfruttamento del tempo libero possa apparire come la giusta ricompensa dello sfruttamento del lavoro. Infatti, tutti coloro che sono sfruttati al lavoro vorranno essere sfruttati come consumatori.
In pratica, quello compiuto dai cronofagi è una sorta di miracolo di riprogrammazione delle menti.
Divoratori di tempo: Naomi Klein e Marshall Mc Luhan
Già la giornalista e attivista canadese Naomi Klein, nel suo famosissimo libro “No Logo”, pubblicato nel 2000, aveva previsto: i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come “merci” ma come concetti. Di conseguenza, le aziende che venderanno meglio saranno quelle capaci di infondere significato agli oggetti apponendovi semplicemente il proprio nome; la Apple, ad esempio, che è riuscita addirittura a rendere il suo creatore, Steve Jobs, alla stregua d’un guru. E andando ancora più indietro nel tempo, non possiamo evitare di far riferimento a Marshall Mc Luhan, anche lui canadese, sociologo, filosofo e professore, autore, negli anni ’60, della celebre teoria “Medium is the message”, mai rivelatasi tanto attuale quanto in questo periodo. Mc Luhan, da “Gli strumenti del comunicare”:
“Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.”
Chi controlla il presente controlla il passato: George Orwell “1984”
Come ricorda Mazzocco, per la propaganda il tempo è il presente eterno e indistinto dell’urgenza e dello schieramento. E per l’ipercapitalismo cronofago l’unico tempo utile è il tempo presente. La percezione della realtà è diventata praticamente la stessa di quella che il Grande Fratello di George Orwell in “1984” imponeva ai cittadini:
“Il partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston Smith, sapeva che appena quattro anni prima l’Oceania era stata alleata dell’Eurasia. Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla il passato” diceva lo slogan del partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
George Orwell “1984”
Il regime immaginato da Orwell utilizzava il Ministero della Verità per negare il passato, per poi negare ciò che aveva negato e negare il tutto ancora e ancora e ancora, in una sorta di negazione in progress, senza fine. Attività fondamentale, per il potere economico e politico di quasi tutti i tempi, ma più che mai nel tempo attuale, in modo da non doversi mai assumere nessuna responsabilità. E grazie a questa damnatio memoriae: la causalità viene sostituita dalla casualità: ciò che è prevedibile (un ponte che crolla, un territorio che si allaga, un villaggio distrutto da un terremoto, migliaia di abitazioni contaminate dall’amianto) viene trasformato dalla retorica della politica e del mercato in un evento imprevedibile, frutto del caso, autonomi rispetto all’ordine cronologico degli eventi(da Mazzocco, “Cronofagìa”).
Potere vuol dire infliggere doloree umiliazione
Per comprendere in che modo una esigua minoranza di popolazione riesca a tenere sotto scacco tutti gli altri, dobbiamo ancora ricorrere al capolavoro di Orwell:
“Il vero potere, il potere per il quale dobbiamo lottare notte e giorno, non è il potere sulle cose ma quello sugli uomini”. Si interruppe e per un attimo riprese quell’aria da maestro che interroga uno scolaro promettente: “Winston, come fa un uomo a esercitare il potere su un altro uomo?”
Winston rifletté: “Facendolo soffrire” rispose.
“Bravo, facendolo soffrire. Non è sufficiente che ci obbedisca. Se non soffre, come facciamo a essere certi che non obbedisca alla nostra volontà ma alla sua? Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione. Potere vuol dire ridurre la mente altrui in pezzi che poi rimetteremo insieme nella forma che più ci parrà opportuna. … Un mondo fatto di paura e tradimento, di tormento, un mondo nel quale si calpesta e si viene calpestati, un mondo che, nel perfezionarsi, diventerà sempre più spietato…”
… “Non so come e neanche m’importa, ma non riuscirete nel vostro intento. Qualcosa vi distruggerà. La vita vi sconfiggerà.”
“Noi, Winston, controlliamo la vita a tutti i suoi livelli. Tu immagini che esista qualcosa come la natura umana che si sentirebbe oltraggiata da quello che noi facciamo e che si ribellerà contro di noi. Ma siamo noi, a crearla, questa natura umana. Gli uomini possono essere manipolati in tutti i modi … Se è vero che sei un uomo, Winston, tu sei l’ultimo uomo. La tua specie si è estinta e noi ne siamo gli eredi. Non capisci che sei solo? Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti.”
Queste le parole del torturatore e potente nemico dello sfortunato eroe Winston Smith: la rappresentazione e personificazione del Potere, del Regime, l’uomo che fa torturare Winston non perché pensi che il ragazzo abbia qualcosa da rivelare (sa già tutto di Winston, forse anche più dello stesso Winston) ma solo perchéPotere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.
I’ll stay home forever, where 2 and 2 always makes 5
La domanda che il torturatore continua a porre a Winston è “Quanto fa 2+2?” pretendendo che lui risponda “5”. Quando il povero Winston, stremato dalla tortura, risponde finalmente “5”, il torturatore non è ancora soddisfatto. Perché non basta che risponda che 2+2 fa 5: deve credere che 2+2 faccia 5.
“I’ll stay home forever, where two and two always makes five” cantavano, non a caso, i Radiohead nell’album “Hail to the thief”, del 2003, più di diciassette anni fa, e da allora, l’ipercapitalismo ha davvero fatto passi da gigante: ormai non ha più bisogno di torturare, perché ha infine trovato il modo di far credere alla stragrande maggioranza della gente che due più due sia davvero equivalente a cinque.
2+2=5 Radiohead live 2009
Divoratori di tempo: Primo Step
E quindi come sono riusciti, negli ultimi venti anni, i nostri Masters and Commanders a farci fare quello che vogliono senza usare la forza in modo troppo evidente? Immagino siano partiti da un primo step: con buona pace delle battaglie per la riduzione dell’orario, iniziate nel lontano 1800, tutto è radicalmente cambiato con la grande crisi economica del 2008. L’improvvisa carenza di lavoro, i licenziamenti, le famiglie in mezzo a una strada, tutto questo ha fatto sì che, chi ancora detenesse un lavoro o chi fosse riuscito a trovarne uno, pur di tenerselo stretto, avrebbe finito con l’autocensurarsi: se il rischio è quello di accrescere la schiera di chi non è più in grado di pagare le bollette, meglio evitare di fare gli schizzinosi e quindi sì, lavorare il doppio per la stessa paga che prima avresti ricevuto per la metà del tempo.
Correre per restare fermi: Alice di Lewis Carrollnel giardino della Regina Rossa
Nessun libro può farci capire questo concetto meglio di “Alice through the looking glass”, di Lewis Carroll, capolavoro assoluto e insuperabile:
Alice non riuscì mai a capire, ripensandoci in seguito, come avevano cominciato: ricordava solo che correvano tenendosi per mano, e la Regina andava così veloce che al massimo lei riusciva a tenerne il passo: e la Regina continuava a gridare: “Più svelta! Più svelta!”, ma Alice sentiva di non poter correre più di così, e le mancava perfino il fiato per dirlo.
… La Regina l’appoggiò contro un albero e disse in tono gentile: “Ora puoi riposarti un poco”.
Alice si guardò intorno molto sorpresa. “Ehi, ma secondo me siamo state tutto il tempo sotto quest’albero! È tutto esattamente come era prima!”
“Certo” disse la Regina “Perché, come dovrebbe essere?”
“Be’, al paese nostro” disse Alice, sempre con un po’ di fiatone “in genere si arriva in un altro posto… se si corre per tanto tempo come abbiamo fatto noi”.
“Che paese lento!” disse la Regina “Qui, invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio”.
Quindi, primo step: farci correre più che possiamo solo per restare fermi.
Alice corre per restare ferma insieme alla Regina Rossa
Divoratori di tempo: Secondo Step
Secondo step: ricavare denaro anche – e soprattutto – dal nostro riposo, e rendere sempre meno libero il nostro tempo libero. Ma inconsapevolmente, si capisce: 2+2 deve sempre essere uguale a 5. I modi in cui l’ipercapitalismo divora il nostro tempo sono vari: la burocrazia, che, al contrario di ciò che ci viene raccontato, aumenta esponenzialmente con la crescita della tecnologia; gli ipermercati, costruiti scientemente come veri e propri labirinti dove nemmeno Arianna potrebbe aiutarti a trovare la strada, in modo che, girando e girando alla ricerca dello scaffale dei tostapane, le persone vedano altre cose non necessarie ma appetibili e finiscano per acquistarle. Una delle cose più tristi degli ultimi dieci anni: quelle famiglie, sempre più numerose, che la domenica, invece di andare in campagna o al mare vanno a passare la giornata da Ikea.
Ma quello che ha spostato il confine da capitalismo a ipercapitalismo cronofago è stata la creazione della nuova internet, quella dei social media e degli smartphone, ma anche la televisione dei realities e delle serie TV. Il Ceo di Netflix, nel 2017, ha detto:
“Quando guardi uno spettacolo di Netflix e ne diventi dipendente rimani sveglio fino a tarda notte. Alla fine siamo in competizione con il sonno ed è una grande quantità di tempo.”
Lavoriamo tutti per Mark Zuckerberg
Come dice Davide Mazzocco: “Lavoriamo per Mark Zuckerberg con la stessa passione che riserviamo ai nostri hobby, ma con una continuità assolutamente inedita nella storia dell’umanità. Siamo i nodi di un reticolo di due miliardi e 270 milioni di persone, mittenti e destinatari di messaggi pubblici e privati che alimentano un gigantesco Leviatano che si nutre di dati. In soli cinque anni i minuti spesi sugli account social è aumentato del 50%.”
Il capitalismo digitale si è rivelato infinitamente più aggressivo e infestante di quello analogico, e se può permettersi di esserlo non dipende tanto dal fatto che i CEO delle varie piattaforme vestano in felpa e sneakers comportandosi come rockstar, ma principalmente perché i servizi che offrono risultano gratuiti. Anche se in realtà non lo sono. Si nutrono del nostro tempo, e il vecchio detto capitalista “il tempo è denaro” non è mai stato tanto vero quanto adesso.
Divoratori di tempo: Harlan Ellison e “L’Uomo del Tic-Tac”
Divoratori di tempo: Harlan Ellison e l’Uomo del Tic-Tac
Come spesso capita, la fantascienza migliore raramente ci aiuta a comprendere il cosmo, ma spesso ci aiuta a capire il nostro mondo. Harlan Ellison, grande scrittore sci-fi, ha scritto nel 1965 un racconto gioiello che parla di un futuro in cui il tempo diviene il fattore principale attorno a cui ruota ogni vita, tanto che il Sistema mette a propria salvaguardial’Uomo del Tic-Tac, per controllare che i cittadini rispettino i tempi previsti dal regime, fino al centesimo di secondo, per ogni attività, senza ritardare o sforare nemmeno di pochi attimi. Un po’ come il torturatore di 1984, l’Uomo del Tic-Tac ha il potere di terminare, ovvero di mandare a morte, chi si sia macchiato del reato di tempo ritardato o tempo sprecato o tempo mal dosato.
Da “Pentiti, Arlecchino, disse l’Uomo del Tic-Tac”:
Persino negli ambienti della Gerarchia, dove la paura veniva generata, di rado subita, veniva chiamato l’Uomo del Tic-Tac. Ma nessuno lo chiamava così al cospetto della sua maschera.
Non si chiama un uomo con un nome odiato, quando quell’uomo, dietro la sua maschera, è capace di revocare i minuti, le ore, i giorni e le notti, gli anni della vostra vita. Era chiamato Maestro Cronometrista, in sua presenza. Era meno pericoloso.
“Questo è ciò che è — disse l’Uomo del Tic-Tac con autentica dolcezza. — Ma non chi è. La scheda oraria che tengo nella mano sinistra reca impresso un nome, ma è il nome di ciò che è, non chi è. Questa cardiolastra che tengo nella mano destra reca pure impresso un nome, ma di ciò che è nominato, non di chi. Prima di poter operare una regolare revoca, debbo sapere chi è.”
Ai suoi collaboratori, tutti i furetti, tutti i confidenti, tutti gli spioni, tutti gli informatori, persino i commessi, disse: — Chi è questo Arlecchino?
Non faceva le fusa. Dal punto di vista del tempo, strideva.
Per fortuna nel futuro immaginato da Harlan c’è un ribelle assoluto, un personaggio anarchico e romantico, l’incarnazione della vera disobbedienza al regime; non a caso il racconto inizia con una lunga citazione da “Disobbedienza civile” di Thoreau. L’eretico, che si fa chiamare Arlecchino, è solo il primo tassello instabile che potrebbe mandare il sistema in cascata trofica:
“Il Sistema era stato turbato per sette minuti. Era una cosa da poco, appena degna di nota, ma in una società in cui l’unica forza motrice erano l’ordine e l’unità e la prontezza e la precisione cronometrica e la devozione all’orologio, la venerazione per gli dei del tempo che passava, era un disastro di tremenda importanza.”
Divoratori di tempo: In Time di Andrew Niccol
Da questo bellissimo racconto ha preso ispirazione il film del regista e sceneggiatore AndrewNiccol, “In Time” del 2011. Harlan Ellison, che nel 2011 era ancora vivo, deve aver pensato che Niccol sia andato ben oltre alla semplice ispirazione, tanto da portarlo in causa per plagio. Ma, comunque sia, il film racconta un futuro in cui gli esseri umani sono programmati per vivere solo fino a 25 anni. Un vero e proprio timer installato nel braccio fa partire, a quel punto, un conto alla rovescia che porterà automaticamente alla morte di lì a un anno. A meno che non ci si riesca a procurare, in qualche modo, tempo ulteriore: i timer diventano come conti bancari elettronici, in cui si versa o da cui si preleva valuta, solo che la valuta di “In Time” è il tempo. Per cui ci sono i ricchi che hanno anche milioni di anni da vivere (lo sviluppo fisico si arresta a 25 anni e non si invecchia) e i poveri – neanche a dirlo, la stragrande maggioranza – sono costretti a lavorare come schiavi per non doversi vendere anche quei pochi mesi che li separano dalla morte.
Divoratori di tempo: “In Time” di Andrew Niccol
Dal dialogo fra un uomo ricco ma stanco di vivere e il protagonista, povero e inconsapevole prende avvio la storia:
Henry Hamilton: Arriva un giorno in cui ne hai abbastanza. La mente può essere esaurita anche se il corpo non lo è, e vogliamo morire, dobbiamo farlo.
Will Salas: È questo il tuo problema? Hai vissuto troppo a lungo? Hai mai conosciuto qualcuno che è morto?
Henry Hamilton: Per pochi immortali la maggioranza deve morire.
Will Salas: Questo che significa?
Henry Hamilton: Tu proprio non lo sai, vero? Non possono vivere tutti in eterno, dove li metteremmo? Perché esistono le zone orarie? Perché credi che le tasse e i prezzi aumentino nello stesso giorno nel ghetto? Il costo della vita aumenta per far sì che la gente continui a morire o non esisterebbero uomini con milioni di anni e altri che vivono alla giornata. Ma la verità è che ce ne sarebbe per tutti, nessuno deve morire prima del tempo. Se tu avessi tanto tempo quanto ne ho io su quell’orologio, che cosa faresti?
L’ultima frontiera, quella del sonno
Già, che cosa faremmo di noi stessi e del nostro tempo se fossimo immortali come Zuckerberg, come Bezos, come Bill Gates e come gli altri ultramiliardari di tutto il mondo, gente per cui potere e denaro sono diventati peggio, molto peggio di una forte dipendenza da oppiacei? Impossibile rispondere, mentre al contrario, quello che fanno loro è molto evidente: far correre gli altri il doppio, il triplo, il quadruplo, solo perché lo status quo possa rimanere fermo. E l’ultima frontiera che gli resta da azzerare è solo quella del sonno.
Davide Mazzocco ci parla del passero dalla corona bianca: uccello migratore che in autunno vola dall’Alaska sino al Messico, per poi compiere il tragitto inverso in primavera, e durante la migrazione può rimanere in stato di veglia per una settimana. Il Dipartimento statunitense della Difesa ha studiato a lungo i meccanismi che permettono a questi uccelli di rimanere svegli e attivi così a lungo.
Passero dalla corona bianca
Ovviamente il loro obiettivo è la creazione di soldati liberi dall’esigenza del sonno. E una volta creati i soldati, poi sarebbe facile forgiare, su quel modello, un nuovo genere di lavoratori e consumatori senza sonno.
Perché, per il capitalismo cronofago il tempo del sonno è una nicchia di resistenza non ancora mercificata, e quindi va ridotta al massimo se non eliminata del tutto.
Divoratori di tempo: ipercapitalismo e pandemie
A forza di attentare al sonno, il ritmo circadiano collassa, fra noi poveri umani cresce l’ansia e l’insonnia e la capacità di dormire diventa una merce. Acquistabile come tutte le altre. Vuoi dormire? Comprati benzodiazepine, sonniferi di vario genere, oppiacei, alcool e credimi: dormirai…
Ma, a noi miseri mortali, con pochi mesi nell’orologio-timer e pochi soldi nell’orologio-banca, che già da tempo lavoriamo gratis per Zuckerberg e per Google, sempre più maltrattati, sfruttati, umiliati e confusi, quale opzione rimane nel disperato tentativo di salvare i nostri figli, se non noi stessi, da questo mondo fatto di paura e tradimento, di tormento, un mondo nel quale si calpesta e si viene calpestati, un mondo che, nel perfezionarsi, diventerà sempre più spietato?
Potremmo attendere pazientemente l’avverarsi della profezia di Marx, secondo cui il capitalismo dovrebbe finire per collassare su se stesso. Ma l’attuale ipercapitalismo sembra capace di mutare come un retrovirus, e, come un coronavirus, portare al mondo una pandemia che sembra creata ad arte per rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri e disperati sempre più poveri e disperati.
Rallentare, rallentare, rallentare
Io temo che la sola possibilità che ci rimanga contro un Sistema che vuole farci correre, consumare ogni attimo del nostro tempo e infine buttarci in qualche discarica come fossimo batterie o pile non più ricaricabili, sia, al momento, quella di rallentare, rallentare e ancora rallentare i nostri ritmi in una sorta di resistenza passiva.
Milan Kundera
Da Milan Kundera, “La Lentezza”:
“Aspetta un momento.”
Voglio contemplare ancora il mio cavaliere che si dirige lentamente verso la carrozza. Voglio assaporare il ritmo dei suoi passi: più egli avanza, più questi rallentano. In questa lentezza mi sembra di riconoscere un segno di felicità.
… Senza domani.
Senza pubblico.
Ti prego, amico mio, sii felice. Ho la vaga impressione che dalla tua capacità di essere felice dipenda la nostra unica speranza.