Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni

L’assurda e icastica storia di Gakirah Barnes ci racconta la vita di una ragazzina afro-americana, nata in uno dei quartieri più pericolosi di Chicago e trasformatasi in una sorta di baby influencer, che come ogni influencer parla di quello che conosce bene: Chiara Ferragni, ad esempio, parla di vestiti, mentre Gakirah parlava di ragazzini morti, armi da fuoco e guerre fra gangs.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni

Perché la storia di Gakirah è così attuale

Di Gakirah e della sua breve vita hanno parlato tutti i giornali americani e un importante network ha fatto su di lei un lungo documentario, ma il modo in cui è stata descritta è sempre lo stesso: una piccola killer assetata di sangue che aveva, come unica attenuante, l’essere nata col colore di pelle sbagliato nel posto sbagliato, oltre che l’aver visto morire – almeno in un caso, letteralmente sotto ai suoi occhi – i suoi più cari amici. Io, invece, vedo la storia della sua vita da un punto di vista completamente diverso: sono sicura che Gakirah non abbia mai nemmeno sparato un colpo di pistola in vita sua e sono ancora più sicura che, senza i Social Media e il cyber-banging oggi sarebbe viva e probabilmente iscritta all’Università.

Gakirah è morta nel 2014, ma quello che rende la sua storia molto attuale è il modo in cui i Social Media, nonostante all’epoca fossero molto meno potenti di adesso, siano riusciti a trasformarla in una sorta di marionetta al soldo dei più che maggiorenni e talvolta anche “rispettabili” capi delle street gangs della città più violenta d’America: Chicago.

La bambina Gakirah

Gakirah era carina e intelligente, molto brava in matematica, e fin da piccolissima aveva mostrato un forte desiderio di voler combattere l’ingiustizia: le altre bambine volevano diventare estetiste o cantanti famose, mentre lei voleva fare l’assistente sociale. 

Abitava nel territorio dei Gangsters Disciples, una street gang che combatteva per il South Side di Chicago prevalentemente contro la street gang dei Black Disciples. A undici o dodici anni, mentre la violenza esplodeva nel suo quartiere Gakirah iniziò a sentirsi attratta dal rispetto e dall’ammirazione di cui godevano i membri delle gangs. A tredici anni, nel 2011, l’omicidio da parte della gang rivale di un amico, il quindicenne Tooka Gregory, supporter dei Gangsters Disciples, la devastò. Ma il vero detonatore che riuscì a far esplodere sia la vita della bambina Gakirah sia una guerra senza tregua fra le due street gangs è stato il cyber-banging.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni. Il cyber-banging

Il cyber-banging consiste nell’uso dei Social Media da parte di giovanissimi affiliati a street gangs per sfidarsi, minacciare e bullizzare i rivali. In questo specifico caso, ad esempio, la gang che ha ucciso Tooka, dopo avergli sparato, ha iniziato a bullizzarlo sui Social, postando l’immagine di Tooka morto nella bara, dopo averla ritoccata inserendo nella foto un rotolo di carta igienica. Nel 2011 il cyber-banging era ancora un sistema agli esordi, proprio come i Social che lo nutrivano. Le emoticon, ad esempio, erano utilizzate come una specie di codice (peraltro di semplicissima decrittazione): ad esempio una pistola ad acqua accanto a una faccia da diavolo significava minaccia.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni. Esempio di cyber banging
Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni. Cyber-banging spiegato nei dettagli

Ma la cosa più assurda di questo cyber-banging è che sembra proprio un gioco per bambini: le emoticon, i disegnini, lo scherzo della carta igienica nella bara e simili foto fra il macabro e il comico, frasi da bulletti che si vantano, video di drill-rap (un rap che parla esclusivamente di violenza e che inneggia alle street gangs). Il tutto fa pensare a due squadre che si sfidano a qualche tipo di video-game violento, o a bambini che scimmiottano gli adulti giocando alla guerra, ma questi ragazzini si trovano a giocare una guerra vera. Potrebbe venirci in mente “Il Signore delle Mosche”, ma a differenza dei bambini naufragati nell’isola creata da William Golding o diversamente dai bambini che giocano con pistole a vernice o ad acqua, i ragazzini di cui parliamo giocano con armi vere, hanno fratelli maggiori che uccidono e insegnano a uccidere e una quantità di armi da fuoco, compresi fucili d’assalto e mitra, quante è possibile trovarne solo in America.

Gakirah e la sua sofferenza

La foto ritoccata di Tooka nella bara è stata la proverbiale benzina gettata sul fuoco. Pochi mesi dopo Odee Perry, membro dei Black Disciples, è stato ucciso e da quel momento la guerra fra le due gang non ha più avuto un attimo di tregua. Come per sancire una dichiarazione ufficiale di guerra le due gang hanno ribattezzato i loro territori: “Tookaville” e “OBlock” in onore dei loro compagni caduti.

Da quel momento il dolore di Gakirah e il suo senso della giustizia si sono trasformati in rabbia, in furia nichilista ed essendo una ragazzina intraprendente, ha subito capito la teoria di Mc Luhan “Medium is the message” senza nemmeno averlo mai sentito nominare. E il mezzo perfetto, in questo caso, era rappresentato dagli allora nuovi Social Media: Twitter e Facebook, che le davano la possibilità di recitare, come una prima donna, un ruolo da killer sanguinaria, da gangsta girl e ottenere, in cambio, amore e rispetto da parte dei suoi coetanei. Dal punto di vista di quelli che realmente uccidevano e facevano traffici di crack, cocaina, oppiacei, metanfetamina e armi nell’ambito della street gang, Gakirah era una perfetta testimonial. E non dovevano nemmeno pagarla…

Gakirah e i suoi tweet

Bisogna dire che Gakirah imparò ad usare i Social rapidamente e ottimizzando quello che era il suo intento in un modo che nemmeno un Social Media manager oggi saprebbe fare. I suoi tweet raccontavano – senza mezzi termini – il suo stile di vita gangsta, e le minacce alla gang rivale si alternavano in modo perfetto a tweet di dolore per i compagni ammazzati. In breve tempo raggiunse su Twitter 5.000 followers, che per quel periodo erano veramente un numero molto alto. Fra il 2011 e l’aprile 2014 si contano almeno 27.000 tweet pubblicati da Gakirah. In quanto “testimonial” di Tookaville, iniziò presto a girare la voce che fosse stata proprio lei ad uccidere Odee Perry, e lei non solo non fece nulla per negare queste voci, ma, al contrario, fece in modo che tutti la considerassero un’assassina. Iniziò a farsi chiamare KI o Lil Snoop, da un personaggio della serie Tv HBO “The Wire” dove Snoop era una giovane donna nera che lavorava come killer per un cartello di trafficanti di droga.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni
Gakirah Barnes come appariva sui Social Media

Gakirah e il drill rap: la sua stagione aurea

Gakirah, come una stella nascente, iniziò ad apparire in video di drill rap e perfino i rappers delle gangs rivali la adoravano e flirtavano con lei. Nel video di “Murda” dei Fly Boy Gang (rap davvero noioso) in mezzo a una massa di teen-agers neri, tutti maschi, Gakirah è l’unica ragazza presente, con la bandana in testa o sul volto, ed è così piccola, fisicamente, che sembra una bambina di dieci anni. Ma in un video che rappresenta un mondo di giovani maschi violenti e certamente non femministi, l’apparizione della piccola Gakirah è un vero e proprio tributo a ciò che lei rappresentava, al ruolo da killer spietata che interpretava.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni

In seguito il Professore Desmond Patton della University of Michigan, che fu fra i primi a studiare il fenomeno del cyber-banging, disse di lei:

“She almost didn’t seem real.” Lei non sembrava vera. Infatti non lo era, proprio come un’attrice non è il personaggio che interpreta, per quanto brava e in grado di identificarsi con quel personaggio possa essere. Non a caso, fra i tanti omicidi che le sono stati imputati sia dagli altri ragazzi che da tutti i media, la polizia non ha mai trovato nemmeno una singola, minuscola, circostanziale prova contro di lei. Quindi la bambina così brava come killer doveva essere anche una specie di genio del crimine, capace di uccidere per la strada, a sangue freddo, e contemporaneamente esperta nel cancellare tutte le sue tracce.

Gakirah e l’inizio del dolore

Un anno dopo la morte di Tooka, Gakirah perse un amico con cui era cresciuta e che considerava come un fratello, Tiquan Tyler, che aveva solo tredici anni e non viveva nemmeno a Chicago. Tiquan era andato a trovare la famiglia di Gakirah e la sera, uscendo da un pub con lei ed altri ragazzini, era stato raggiunto da un proiettile che non era stato sparato contro di lui. Colpito al petto, era morto dopo poche ore. La perdita di un amico vero fu per Gakirah un lutto inestinguibile. Quella sera la videro piangere disperata senza riuscire a trovare pace. Il mondo vero era entrato con prepotenza nella “fiction” che era stata fino ad allora la sua vita.

Gakirah cambiò il nome del suo account Twitter in Tiquanassassin, in onore dell’amico morto e scrisse tweet addolorati, come questi:

“Da pain unbearable” e “Tyquan supposed 2 Be hear wit me But instead Lil bro ended up 6 feet under a million miles away.”

Immagino che fosse lei stessa a sentirsi lontana un milione di miglia, devastata dal dolore, dal senso di colpa (Tiquan non sarebbe morto se non fosse andato a trovarla) ma incapace di liberarsi del personaggio che lei stessa aveva creato tramite i Social Media.

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni

Nel marzo 2014 un altro suo amico, Lil B, morì ucciso dalla polizia e Gakirah scrisse, su Twitter: “My pain ain’t never been told”. Ma poi aggiunse che avrebbe dedicato la sua vita a vendicarlo, e quando, subito dopo, il membro di una gang rivale, Blood Money, fu ucciso, le voci che davano Gakirah come l’assassina di Blood Money iniziarono a circolare con insistenza, anche se la polizia sapeva perfettamente che la ragazzina non aveva niente a che fare con quell’omicidio. Poi, a fungere da detonatore, fu di nuovo il cyber-banging: un ragazzo della gang di Gakirah postò, su Instagram, una foto dove beveva un liquido rosso con la scritta “Sorseggiando Blood Money”.

Questo spinse i compagni di gang del morto a volersi vendicare contro quella gang che l’aveva bullizzato, e visto che Gakirah era la “testimonial” della gang oltre ad essere considerata da tutti l’assassina di Blood Money, era per loro il target perfetto. Il 10 aprile 2014 la ragazza scrisse, su Twitter, parlando dei due amici cari che aveva visto morire: “In da end We Die”. Alla fine moriamo. Credo fosse davvero stanca di portare sulle spalle un peso che non avrebbe mai dovuto portare, ma non vedeva nessuna via d’uscita. Subito dopo, come era facile prevedere, fu uccisa, per strada, da un ragazzo che la colpì al volto, collo e petto con nove proiettili.

Poche ore dopo, i membri della gang rivale bullizzarono la morte di Gakirah sui Social. Un po’ come un gioco senza fine: Social – assassinio – Social – assassinio e così via.

La breve vita di Gakirah, che nessuno ha mai protetto

Nel corso della sua breve vita nessuno mai – nessuno mai – aveva protetto Gakirah dalle street gangs che imperversano nel suo quartiere, dalle armi da fuoco che circolano in quantità veramente incalcolabili negli Stati Uniti d’America, e nessuno l’aveva protetta dai Social Media, che non hanno un aspetto minaccioso ma che, proprio per questo, rischiano di essere molto pericolosi. Nel suo caso, i Social avevano creato il perfetto eco-sistema in cui far crescere e prosperare il pericoloso gioco della “bambina killer”, per poi trarre il massimo dell’energia – come buchi neri – dalla stella morente. La polizia, pur sapendo benissimo che la ragazzina killer era solo un mito, un bluff, non l’aveva mai protetta, nemmeno quando era chiaro a tutti che la sua vita era ormai appesa a un filo.

E dopo la sua morte nessuno ha difeso Gakirah dai giornalisti americani e non solo americani che l’hanno etichettata come “killer diabolica che ha ucciso più volte in nome della sua gang”, dimenticando che la polizia, nemmeno una volta, l’aveva arrestata, interrogata ufficialmente o messa sotto indagine e dimenticando – cosa anche più grave – uno dei fondamenti della democrazia, che tutti siamo innocenti fino a prova contraria.

Gakirah a 13 e a 15 anni
Gakirah a 13 e a 15 anni

Gakirah Barnes: come morire di Social Media a 17 anni, considerazioni

Dovremmo proprio ricordare che:

Gli Stati Uniti d’America sono la prima nazione al mondo per omicidio di bambini tramite armi da fuoco.

Il Professor Patton e altri studiosi dei rapporti fra media e violenza nelle strade hanno sottolineato il fatto che i Social Media abbiano esacerbato lo scontro armato fra giovani e giovanissimi e cambiato, agevolandolo, il modo in cui le gangs reclutano teen-agers, li iniziano alla violenza e conducono i loro business.

Infine, a proposito di #Blacklivesmatter, se è mai esistita una vita nera che proprio non contava nulla pur facendo arricchire tanti, questa è stata la breve vita della bambina Gakirah Barnes, morta a diciassette anni nel South Side di Chicago. Mi sembrava giusto renderle un briciolo di giustizia raccontando – nel mio piccolo – la sua vera storia al posto di quella finta e ufficiale.

“I told her that I loved her and to be careful — which is something that I told her every day when she went out on the Chicago streets” Shontell Brown, madre di Gakirah

David Foster Wallace moriva 12 anni fa

Quest’articolo è un tributo a un grande scrittore americano diventato famoso come una rockstar e alla fine morto suicida proprio come una rockstar.

David Foster Wallace moriva 12 anni fa

David Foster Wallace moriva 12 anni fa, il 12 settembre 2008. Quello che tutti conoscono di lui è il grande successo ottenuto come scrittore e il suicidio finale, a soli 46 anni. Ci sono due cose, nella nostra vita, che nascondono segreti di cui nessuno sarà mai in grado di conoscere la formula. Il primo è il segreto del successo, il secondo è il segreto del suicidio. Non si sa perché una persona, rispetto ad un’altra che ha capacità simili, talento simile, aspetto simile, riesca ad avere, in vita, un grande successo e non si sa perché qualcuno, al contrario di altri ugualmente o più disperati, arrivi a portare a termine un suicidio.

David Foster Wallace e il segreto del successo

Riguardo a Wallace, sono piuttosto sicura che il suo successo non sia dipeso dalle sue opere. Mi spiego meglio: io amo moltissimo David come scrittore e come la persona meravigliosa e sofferente che è stata. Ho iniziato a leggerlo quando, in Italia, Einaudi pubblicò il suo primo strepitoso libro di racconti “La ragazza con i capelli strani” e credo anche di essere stata una delle poche persone – a parte critici letterari e accademici soprattutto americani – ad aver letto per intero il suo “Infinite Jest”, libro di 1200 pagine pubblicate a caratteri piccolissimi, estremamente complesso, non nella trama ma nello stile della narrazione, intricata a dir poco, romanzo distopico, a tratti comico, a tratti drammatico, pieno di digressioni e note a pié di pagina, ma soprattutto dotato di momenti di incredibile fulgore. Come se, nel flusso lungo, a volte un po’ presuntuoso della narrazione di “Infinite Jest” Wallace avesse, di tanto in tanto, delle illuminazioni che all’improvviso accendono una luce sfolgorante in una strada scura.

Dove la sua scrittura è sempre meravigliosa, è invece nei racconti. Sono convinta che Wallace fosse uno scrittore di racconti, un po’ come Carver, che dichiarava con orgoglio che mai e poi mai avrebbe voluto e saputo scrivere un romanzo. I racconti di Wallace, così come alcuni dei suoi articoli-saggio, non sono mai presuntuosi e sono il mezzo perfetto per la sua narrazione dove il tempo viene dilatato e tagliato a pezzettini come in una sorta di puzzle che alla fine viene ricostruito. Ma nemmeno i suoi bellissimi racconti sono in grado di rivelare il segreto del suo successo.

David Foster Wallace e il suo essere americano

David Foster Wallace moriva 12 anni fa

David Foster Wallace è stato uno scrittore americano in un periodo particolare, a cavallo di due millenni. Aveva dalla sua una cultura dominante e una lingua dominante. Aveva dalla sua il tipico narcisismo degli americani che, anche quando sono persone splendide come lui, raramente si accorgono che intorno all’America c’è un intero mondo. In un’intervista rilasciata nel 1996 a Laura Miller, dopo l’uscita di “Infinite Jest” David dice:

“La tristezza di cui si occupa il libro, e che stavo vivendo io, era un genere di tristezza veramente americano. Ero un giovane bianco, di classe medio-alta, vergognosamente ben istruito, sul piano professionale avevo avuto molto più successo di quanto avrei potuto legittimamente sperare, eppure ero come alla deriva. E lo stesso succedeva a molti miei amici. Alcuni si drogavano pesantemente, altri lavoravano con un’ossessione incredibile. Altri andavano ogni sera in qualche locale per single. Si manifestava in venti modi diversi, ma di base il problema era lo stesso.”

Qui David descrive alla perfezione lo status quo dei giovani, a fine anni ottanta, appartenenti alla media e ricca borghesia di almeno quattro continenti, dall’Europa all’Australia, dal Sudamerica al Giappone, bianchi, asiatici o latini, ma è convinto che sia un modo di essere, di sentirsi, esclusivamente o tipicamente americano.

David Foster Wallace moriva 12 anni fa: il mondo cambia continuamente

Oltre ad essere americano e quindi appartenere alla cultura dominante, David aveva dalla sua una forte intuitività, una capacità analitica forse dovuta al suo grande amore per la matematica che gli facevano dire, già negli anni ’90: “Io mi sono sempre considerato un realista. Mi ricordo che al master litigavo con i miei professori. Il mondo in cui vivo è fatto di duecentocinquanta pubblicità al giorno e un numero incalcolabile di opzioni di svago incredibilmente piacevoli, la maggior parte delle quali sovvenzionate da aziende che vogliono vendermi qualcosa.”

Chissà cosa avrebbe pensato dell’internet odierna e dei Social media. Ho la presunzione di credere che avrebbe odiato l’iper-capitalismo ma che si sarebbe trovato bene con i Social. Avrebbe avuto un profilo Twitter con almeno un milione di follower e il suo ego ne avrebbe tratto giovamento. Ma, alla fine di tutto, quello che ha reso famoso Wallace credo sia stato Wallace stesso. Oggi non potrebbe accadere. Oggi l’editoria è morta (in America magari è solo moribonda) nonostante qualcuno, di tanto in tanto, ne sventoli da lontano il cadavere cercando di persuaderci che sia ancora viva. Oggi i libri non si pubblicano e soprattutto non si leggono. Oggi, fra i pochi libri che potrebbero essere pubblicati non ci sono libri di racconti né libri che superino le 200 pagine. Ulysses di Joyce non verrebbe mai pubblicato, Cent’anni di solitudine di Marquez nemmeno, figuriamoci Infinite Jest. I dischi non si vendono e i musicisti, per vivere, devono stare costantemente in tour, ma adesso il Covid ha reso impossibile anche questo. Il mondo cambia continuamente. Di solito in peggio, ma continuamente.

David Foster Wallace e Kurt Cobain

Gli anni ’90, soprattutto i primi anni ’90, erano quindi un pianeta proprio diverso da quello attuale. Le due grandi rockstar apparse quasi in contemporanea: Foster Wallace nella letteratura e Kurt Cobain nella musica rock, entrambi arrivati al successo planetario immediatamente, vendevano letteratura e musica di gran qualità, erano delle novità assolute – nei rispettivi campi – avevano un look attraente: Wallace, lo scrittore coi capelli lunghi e la bandana in testa e Cobain il rocker biondo, bellissimo, dal sorriso triste.

Ma, principalmente, quello che la gente comprava acquistando i loro libri o dischi era la loro essenza più intima, quella che traspariva attraverso foto, interviste, parole scritte, parlate o cantate, quell’essenza che conteneva il gene così raro e assolutamente non ereditabile del “Grande Comunicatore”. Quel gene che spesso – ma non sempre – nasce insieme al gene della disperazione, della depressione, del suicidio a orologeria, e che attira le persone come il famoso canto delle Sirene. Un meraviglioso, non riconoscibile, canto di morte.

David Foster Wallace e il suicidio

Come tutti sanno, sia Cobain che Wallace sono morti suicidandosi, ma attorno alla morte di Kurt si è parlato, parlato, parlato, mostrato foto, prodotto ipotesi farneticanti eppure, piano piano, tutto questo ci ha resi partecipi del come buona parte della breve vita di Kurt sia stata la “cronaca di un suicidio annunciato.”

Attorno alla morte di David, invece, è da subito calata una cortina di silenzio, che lui certamente non avrebbe gradito anche perché quel silenzio spacciato per pudore andava fortemente a cozzare contro quella “cultura pop” che Wallace aveva sempre considerato parte integrante della sua vita e della sua scrittura. Fra le cose dette a metà sulla sua morte, la più intollerabile – dal mio punto di vista – è quella che riguarda il suo ipotetico biglietto suicida. La moglie sostiene, ma non c’è nessuna certezza in proposito, che David le abbia lasciato un biglietto, prima di uccidersi, ma il “suicide note” di uno scrittore, così come quello di un autore di canzoni, magari si rivolge a moglie, figli, parenti, ma è sempre indirizzato a tutto il mondo, e di sicuro a tutti i suoi fans. C’è un’intera letteratura di “suicide notes”, da quello di Majakovskij a quello di Pavese (che riprende le parole del biglietto di Majakovskij) fino a quello di Kurt Cobain, e nessuno si è mai permesso di censurarli o di non farli conoscere.

David Foster Wallace moriva 12 anni fa: il suicide note di Kurt Cobain
Suicide note di Kurt Cobain

La rete di silenzio creata attorno alla morte di David

Dal momento che la moglie di Wallace appartiene di sicuro alla categoria di quelle mogli/madri di artisti morti, che, appena seppellito l’amato, iniziano a raschiare il barile fino in fondo, tirando fuori ogni scritto, bozza, lettera, aborto di racconto o di articolo (o l’equivalente in campo musicale) per darlo alle stampe, suona davvero strano che proprio lei abbia invece provato il “forte pudore” di tenere per se stessa il biglietto d’addio di David al mondo. Quello di cui sono sicura, invece, è che David, compulsivamente perfezionista e dotato di una forte etica professionale, non avrebbe mai dato il permesso di pubblicare un romanzo come il “Re Pallido”, incompiuto, senza averne potuto scrivere – solo lui – ogni parola e senza averne potuto controllare, lui e solo lui, almeno cento volte ogni singolo paragrafo.

Ma in ogni caso, per quanto sia stata tessuta una rete di ipocrisia attorno alla morte di David, ogni suicidio parla da solo, ed è impossibile farlo tacere. Sylvia Plath, che era una che di suicidio, oltre che di grande poesia, se ne intendeva, disse: quando si parla di suicidio quello che conta non è mai il perché, ma il come. Il perché infatti non ha mai senso. Wallace soffriva fortemente di depressione, ma è una maledizione che perseguita tanti di noi, e se finissimo tutti col suicidarci ci sarebbero stragi ogni giorno. Il come, invece, non mente mai. L’impiccagione, fra i tanti suicidi possibili, è quello più “violento” nei confronti di se stessi e di chi ci troverà. Negli Stati Uniti, poi, dove per procurarsi una pistola basta scendere al supermercato, la scelta dell’impiccagione ha proprio un forte sapore di punizione, verso se stessi e verso chi ci troverà. Wallace, qualunque sia stato il meccanismo che, alla fine, ha chiuso il cerchio trasformando il suo canto segreto di morte in suicidio, sapeva bene che sarebbe stata la moglie a trovarlo.

David Foster Wallace moriva 12 anni fa

Fra le tante cose scritte – racconti, romanzi, articoli, saggi – da David Foster Wallace, pubblicate in vita o postume, sono state trovate frasi molto vere e illuminanti sul dolore provocato dalla depressione, ma niente che potesse raccontare, nel suo personalissimo ed esclusivo modo, il suicidio. Non parlo di un suicidio commesso da uno dei suoi personaggi e vissuto dall’autore in modo emozionalmente distante, ma del proprio insostenibile desiderio di suicidarsi, anche se travestito da altro.

Allora mi sono messa a cercare, a rileggere e alla fine l’ho trovato, in uno dei suoi racconti più belli, nella raccolta “Brevi interviste con uomini schifosi”. Il racconto si chiama “Per sempre lassù” e parla di un tredicenne, in una vecchia piscina pubblica, che sale sul trampolino per tuffarsi: il tempo si cristallizza e allo stesso tempo corre velocissimo in quel modo che solo Wallace sapeva raccontare. Rileggendolo, ho capito che David, parlandoci di quel tuffo, ci stava invece raccontando un suicidio, struggente, vero, inesplicabile, ineluttabile.

Da “Per sempre lassù”

“…Ehi ragazzino tutto bene.

C’è stato tempo in tutto questo tempo. Non puoi uccidere il tempo col cuore. Tutto richiede tempo. Le api si devono muovere rapidissime per restare immobili.

Ehi ragazzino fa lui. Ehi ragazzino tutto bene.

Sulla lingua ti sbocciano fiori di metallo. Non c’è più tempo per pensare. Ora che c’è tempo non hai tempo.

Ehi.

Due macchie nere, violenza, e scomparire in un pozzo di tempo. Il problema non è l’altezza. Quando torni giù cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso.

E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo?

La bugia è che è una cosa o l’altra. Un’ape immobile, fluttuante, si muove più in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassù la dolcezza la fa impazzire.

La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari.

Ciao.”

David Foster Wallace moriva 12 anni fa: citazione da Infinite Jest

L’Urlo della Farfalla Morta

Oggi, nel mio giardino ho trovato una farfalla morta. Era un podalirio, una delle farfalle più belle che abbiamo in Europa, dall’apertura alare di quasi 8 cm, così grandi e leggere che sembrano “veleggiare” quando soffia un po’ di vento, e ti lasciano senza fiato per quanto sono delicate, eleganti e meravigliose.

L'urlo della farfalla morta. La mia farfalla trovata morta
L’urlo della farfalla morta: la mia farfalla ormai morta

La farfalla che ho trovato morta, in particolare, non era una sconosciuta. La riconoscevo perché, da circa un mese aveva perso la punta di una delle ali, forse perché sbattuta dal vento contro un muro o un albero o magari durante un tentativo di cattura da parte di un uccello. La vedevo quasi tutti i giorni, almeno da maggio, e passava ore nel nostro giardino per via della buddleia, i cui fiori dal forte profumo di vaniglia attirano le farfalle e le api.

La mia farfalla a maggio, sulla pianta di Buddleia

Vita e morte della farfalla

La farfalla si era così abituata alla mia presenza che riuscivo anche a farmela salire sul dito. Immagino che sia stato proprio tutto l’insieme: fiori buoni da mangiare, umani amichevoli, una gatta anziana che di sicuro non avrebbe mai rappresentato un problema a farle decidere di fermarsi a dormire nel nostro giardino. Quando stanotte, i maledetti vicini che fanno disinfestazioni contro le zanzare – anche in questo periodo in cui le zanzare quasi non ci sono – hanno sparso nell’aria i loro antiparassitari hanno avvelenato la mia farfalla. Poco distante ho trovato morto anche un piccolo geco, nato da poco, ancora quasi trasparente. Il fatto che sia morta, quindi, proprio perché credeva di stare al sicuro, mi fa sentire in colpa e disgustata dagli esseri umani.

L'urlo della farfalla morta. La farfalla sul mio dito
La farfalla sul mio dito

La morte di tutto il mondo

Io mi rendo conto che per molte persone la morte di una farfalla non sia niente, così come la morte della bellezza, della giustizia, dell’empatia, ma in questo momento – almeno per me – la morte di questa farfalla rappresenta la morte del mondo intero. La morte di questa farfalla è simbolo di una società dove gli animali vengono massacrati, sfruttati, schiavizzati, brutalizzati, uccisi nell’indifferenza totale. Un mondo dove l’ambiente viene inquinato, il pianeta ucciso pezzo dopo pezzo, ancora nell’indifferenza generale, a eccezione di quei pochi che, purtroppo, non fanno testo proprio perché pochi.

L'urlo della farfalla morta. La sua ultima foto da viva
L’urlo della farfalla morta: la sua ultima foto da viva

La gente si domanda da dove viene il Covid-19. Io posso rispondere: guardatevi allo specchio. Voi siete i genitori, il padre e la madre del virus, perché, nel vostro menefreghismo e nella sola adorazione del Dio Denaro avete creato le condizioni ideali perché il Covid potesse nascere e diffondersi. E il prossimo virus o batterio o patogeno di altro genere sarà più cattivo, molto più cattivo di quello attuale e perfino allora – ne sono convinta – continuerete a fregarvene del mondo inseguendo un sogno fatto di banconote.

L’Urlo della Farfalla Morta

Jim Morrison disse: “Prima di morire voglio sentire, voglio sentire l’urlo della farfalla.

Io oggi quest’urlo l’ho sentito. La farfalla ha urlato forte nella mia mente ed è stato un grido che non posso dimenticare. Quando l’ho trovata non era ancora morta, muoveva lentamente una zampina; allora le ho fatto una specie di lettino in una scatola, con erba fresca e un fiore di buddleia proprio davanti, per confortarla con quel profumo negli ultimi suoi momenti di vita.

Sono così triste e furiosa e so – adesso lo so con certezza – che da ora in poi dedicherò quello che resta della mia vita, oltre che alle persone che amo, a perseguire quelli che maltrattano e massacrano gli animali. Come diceva Sylvia Plath in Lady Lazarus:

“Herr God. Herr Lucifer. Beware. Beware.”

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