A prima vista nulla: il COVID-19, come lo chiamano ufficialmente,
è un virus che è riuscito a fare il salto della specie passando (sembra) da
pipistrelli ad umani: è molto contagioso ma non particolarmente cattivo. Alien,
invece, è una creatura enorme, con acido al posto del sangue, due o tre bocche piene
di denti ed è decisamente, assolutamente letale.
Entrambi, però, per replicare la propria specie hanno bisogno dell’essere umano come incubatrice. A quanto pare, replicare in eterno la propria specie è il compito affidato dagli dei a tutto ciò che vive, nel pianeta Terra e oltre. Compito che noi uomini e donne abbiamo preso molto seriamente: alla fine del 2019 la popolazione umana mondiale era stimata intorno a quasi 8 miliardi di persone.
La missione di Ripley
Coronavirus e Alien: Ripley
Che cosa ha impedito, quindi, ad Alien di raggiungere il nostro pianeta e trovare terreno super fertile per procreare ed allargare a macchia d’olio la sua specie aliena? La risposta è semplice: a impedirglielo è stata la sua nemesi, l’americana Ripley (interpretata dalla fantastica Sigourney Weaver) che anche quando muore rinasce sotto forma di clonazione. La missione di Ripley è quella di impedire alla perfida Compagnia di riuscire a portare un esemplare vivo di Alien sulla Terra, dove lo vorrebbero trasformare in imbattibile arma bellica. Famosa la frase che il caporale Hicks pronuncia alla fine di Aliens, Scontro finale (secondo e bellissimo episodio della saga, diretto da Cameron):
“Io dico che decolliamo e nuclearizziamo, questa è la sola sicurezza!”
Immagino che l’American Airlines, che ha sospeso tutti i voli da New York e da Miami per Milano fino al 24 aprile (e poi si vede) vorrebbe tanto poter dire, insieme a molti altri: “Nuclearizziamo Italia e Cina e voliamo via!”
Coronavirus e Alien: American Airlines vs Milano, Italia
Ieri, quando la sospensione di questi voli non era ancora stata annunciata, l’American Airlines ha bloccato un volo in programma alle 18.05 (ora locale) dall’aeroporto JFK di New York per Milano Malpensa mentre i passeggeri erano all’interno del gate e alcuni già nel pontile d’imbarco. Dopo una lunga attesa, l’American Airlines ha dichiarato che il volo non poteva partire perché l’equipaggio si rifiutava di salire a bordo per paura del Coronavirus.
Certo, l’immagine di se stessi che gli americani vendono nel mondo, immagine di uomini e donne senza paura, che non devono chiedere mai, ne risente un tantino… Mi immagino l’equipaggio dello sfortunato volo American Airlines mentre, inorridito, ascolta Ripley che, sempre in Aliens, parla della prima apparizione del mostro:
“Atterrammo sull’LV-426. Un membro dell’equipaggio era rientrato con qualcosa attaccato alla faccia, una sorta di Parassita. Tentammo di staccarglielo, ma inutilmente, più tardi sembrò si staccasse da sé e morisse. Kraine sembrava rimesso… noi eravamo tutti a cena… e l’ipotesi era che gli avesse lasciato qualcosa nella gola, una specie di embrione… e cominciò, ecco…”
Qualcosa nella gola, una specie di embrione: un po’ come fanno i virus dell’influenza, non si può negare! Come dare torto a tutti quelli che chiudono porti, musei e cancellano voli nella speranza di non far entrare questo invisibile virus incoronato nella loro patria, nella loro città, nel loro quartiere? In fondo lo sanno tutti che è una lotta già persa, ma qualcosa devono pur fare, giusto?
COVID-19
Coronavirus e Alien: la lotta contro la paura
Quando parlo di lotta già persa, mi riferisco alla lotta contro la paura. Almeno gli americani dovrebbero ricordare le parole di Roosevelt:
“La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa.”
Ma
del resto Franklin Delano Roosevelt aveva anche detto:
“Nessuna impresa che dipenda, per il suo successo, dal pagare
i suoi lavoratori meno di quanto serva loro per vivere ha diritto di
sopravvivere in questo Paese.”
Credo quindi che le sue parole non vadano più bene, né per i suoi pronipoti americani né per il resto del mondo. Io dico:
“Decolliamo e nuclearizziamo, questa è l’unica sicurezza…”
Su Coronavirus e media: riflessioni a ruota libera.
Giornalista di Sky TG24, parlando di un possibile contagiato dice: “Si è consegnato spontaneamente”. A quanto pare, dopo il killer dello Zodiaco e quello di Green River, adesso abbiamo anche il killer del Coronavirus, che, per fortuna, si è costituito…
Giornalista TG3 dice testualmente “contabilità dei decessi”. Allora, forse, dovrebbero chiamare in aiuto un ragioniere.
Negli schermi giganti di tutti i telegiornali troneggiano le maxi-fotografie dei Coronavirus. Perché le mettono? Perché i Coronavirus sono bellini nel loro elegante dress code bianco e rosso e assomigliano a fiori di viburno?
Coronavirus
Fiori di viburno
Coronavirus e media: ancora a ruota libera
Billie Eilish, ovvero l’altra faccia della pop music americana, aveva capito tutto già da tempo: “You should see me in a crown” (dovresti vedermi con la corona) l’ha resa ultrafamosa.
Gli italiani lombardo-veneti che hanno cercato di raggiungere il resort prenotato alle Mauritius (che loro chiamano Maurizio) sono stati fermamente rimandati indietro, in quanto possibili untori e hanno protestato: “Ci hanno trattato come profughi!” Diceva Dante, che però non era né veneto né lombardo: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”
I veneziani comunicano cupi che l’ultima volta in cui non
si è festeggiato il carnevale di Venezia è stato durante la peste, quindi
quattro secoli fa circa. Dicono che piazza S.Marco è mesta, ma guardandola in
TV l’ho vista piena di coreani come sempre, anche se invece di portare mascherine
sugli occhi le indossano sulla bocca.
La Diocesi di Venezia ha anche disposto la sospensione delle messe, delle celebrazioni per la Quaresima, di battesimi, prime comunioni e cresime fino al primo marzo. I fedeli sono invitati “alla preghiera e alla meditazione” in privato. Coronavirus più forte di Dio?
Mercoledì delle ceneri, Papa Bergoglio dice, durante l’omelia: ” È il tempo per spegnere la televisione e aprire la Bibbia. È il tempo per staccarci dal cellulare e connetterci al Vangelo.” Peccato che la messa vada in diretta video sul Canale Youtube di Vatican News. Allora, Francé, dobbiamo accenderlo o spegnerlo sto cellulare?
Mercoledì delle Ceneri, Volvera e Pinerolo fanno la Santa Messa senza pubblico ma in diretta Facebook. Zuckerberg, ormai, probabilmente uccide il Coronavirus solo fissandolo col suo sguardo alieno ma, di sicuro, è al di sopra di Dio. A quando il nuovo segno della croce: Nel nome di Zuck, dei Social e dello Spirito Morto?
La nave Diamond Princess parcheggiata di fronte a Yokohama e abbandonata lì: è diventata una bomba biologica, ormai i passeggeri sono contagiati quasi tutti, sembra un racconto di Lovecraft. Finirà come una di quelle serie americane dove i terroristi prendono possesso di una nave dotata di testate nucleari e il Presidente pronuncia la solita frase ai tizi dell’intelligence: “Avete dieci minuti per liberare la nave, o dovremo farla fuori”? Il governo giapponese non sembra interessato, ma gli americani potrebbero intervenire: loro, in fondo, sanno come si bombarda il Giappone.
A Roma non si trovano più le mascherine nelle farmacie e nei negozi, ma in giro non le indossa nessuno. Che accidenti ci fanno? Se le mettono per andare a dormire? Oggi il mio compagno è entrato da Eurospin con la sciarpa in faccia e il tipo della Sicurezza ha avuto un attimo di panico, quasi lo immobilizzava. Invece, uno dei presenti, ha commentato “Anvedi, sta a nevicà…”. Questo accade perché qui, in periferia, i problemi sono altri: del Coronavirus non frega un cazzo a nessuno.
In un supermercato del nord Italia un tizio, vicino alle casse, ha iniziato a starnutire e tossire con foga. Mentre tutti, cassieri e clienti, si allontanavano di corsa, lui è scappato col carrello pieno. Un genio, che altro dire?
Coronavirus e media: filosofia e cazzate a ruota libera
Da The Walking Dead, season 2: “- Scott: La razza umana combatte le pestilenze fin dall’inizio. Ci prendono a calci nel didietro per un po’, ma poi contrattacchiamo. È la natura che corregge se stessa, ripristina il suo equilibrio. – Rick: Vorrei poterlo credere.” Io dico credici Rick, credici ancora, credici meglio…
Da The Walking Dead, season 2: “La morte è la morte. C’è sempre stata. Che sia per un attacco di cuore, cancro o uno zombie. Che differenza c’è?” Io dico, beh, un colpo di pistola in fronte è meglio di uno zombie che ti divora vivo!
Parafrasando “Charles Manson”, canzone di Salmo sul Natale, viene fuori: “Buone feste del cazzo, Carnevale di merda, 25 febbraio: siamo in stato d’allerta”
Siamo in stato d’allerta ma Conte ha detto che dobbiamo solo “Collaborare, collaborare, collaborare”, così come Francesco Saverio Borrelli, in pieno boom berlusconiano, diceva: “Resistere, resistere, resistere”. Fra i due scelgo senz’altro il secondo, che ho sempre considerato un eroe. Ma in ogni caso, così come nei primi anni zero resistere non è servito, non credo nemmeno in questa fantomatica collaborazione che ci propongono oggi. Fra l’altro, non penso che ripetere le cose tre volte aiuti. Ho provato a dire “Bloody Mary Bloody Mary Bloody Mary” davanti allo specchio ma non è mai apparsa. Per fortuna, credo…
Cosa significa Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino? Partiamo da“The Piper at the gates of dawn”, Il Pifferaio ai cancelli dell’alba, primo album in studio dei Pink Floyd, 1967; album capolavoro del rock psichedelico mondiale, ideato, scritto, interpretato e diretto – dalla musica alle lyrics fino alla copertina – da Syd Barrett, artista eclettico, in grado di spaziare fra musica, testi, arte grafica e pittura.
Il rock psichedelico, nato contemporaneamente negli Stati Uniti e in Inghilterra negli anni ’60, trovò, in America, nella scena texana, i suoi adepti più sperimentali. L’esempio più calzante è quello dei 13th Floor Elevators, che furono anche i primi a usare, musicalmente parlando, il termine “psichedelico”, nell’album“The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators” del 1966.
“THE PSYCHEDELIC SOUNDS OF THE 13th FLOOR ELEVATORS” Album Cover
Psichedelico
Il vocabolo viene dal greco ψυχή, “anima” e δηλῶ, “rivelo”, e in qualche modo collegava strettamente quella musica neonata all’uso di sostanze psicotrope, sia naturali che chimiche (da peyote e mescalina all’acido lisergico) utilizzate per viaggiare con la mente e difatti chiamate anche trip. Ovviamente, per concepire, scrivere, suonare e cantare un album come The Piper at the gate of dawn non bastava di certo essersi fatti un acido, altrimenti avremmo avuto milioni di musicisti geniali. Come dice Caparezza in “Mica Van Gogh”:
“Allucinazioni che alterano la vista Tu ti fai di funghi ad Amsterdam Ma ciò non fa di te un artista”
Syd Barrett il Pifferaio
Syd Barrett aveva una mente eccezionalmente aperta, curiosa e dotata di grande talento. Syd aveva gli occhi spalancati, contemporaneamente rivolti al mondo microscopico (dentro alla sua testa) e a quello macroscopico (il cosmo e oltre); credo sia stato questo, alla fine, ad averlo portato alla “pazzia”. Chiunque abbia sperimentato sostanze psicotrope, sa che il viaggio, in sé, non appartiene né al bene né al male. È solo un’esplorazione fine a se stessa, e come tale, può andare male o bene, può risultare spaventosa o spassosa, pericolosa o liscia come l’olio, illuminante o del tutto dimenticabile. Nelle due canzoni principali, “Astronomy domine” e la strumentale “Interstellar overdrive”, Syd, supportato dai compagni, viaggia nel multiverso, raccontandoci, a suo modo, stelle, pianeti, mondi impossibili da immaginare, alieni, spiriti, divinità, fate, folletti. Viene quasi da pensare a Roy Batty, il replicante di Blade Runner e al suo famoso monologo:
“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare, navi da combattimento in fiamme al largo di Orione, i raggi Beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”
Syd Barrett il Visionario
SYD BARRETT
E come lacrime nella pioggia un giorno, fin troppo vicino al 1967, si perderanno le visioni di Barrett, ma per il momento è ancora in grado di trasformarle in creazioni meravigliose. In Astronomy domine, mentre il resto della band lo sostiene musicalmente, Barrett è libero di mettersi in viaggio, da solo con la sua chitarra. La sua voce ripete come un mantra la medesima strofa:
“Lime and limpid green, a second scene a fight between the blue you once knew. Floating down, the sound resounds around the icy waters underground. Jupiter and Saturn, Oberon, Miranda and Titania, Neptune, Titan, Stars can frighten.”
“Verde limpido e color lime, una seconda scena una lotta con l’azzurro a cui eri abituato. Fluttuando giù, il suono risuona attorno all’acqua ghiacciata sottoterra. Giove e Saturno, Oberon, Miranda e Titania, Nettuno, Titano, le Stelle possono far paura”.
Il Pifferaio ai cancelli dell’Alba
Le Stelle possono far paura, ma non a lui. E non solo perché Syd Barrett è troppo curioso e troppo giovane per aver paura. La verità è che ogni testo, ogni poesia, ogni canzone, romanzo, racconto riflette il periodo in cui viene scritto, e gli anni ’60 furono gli anni della rivolta hippy, della rivoluzione sessuale, del movimento studentesco sessantottino, di Woodstock, delle comuni, delle grandi manifestazioni per la pace. Ovviamente in quella decade ci furono anche ombre e lutti, ma quello che conta – in questo caso – è che furono anni di movimento e di ideali, anni di rivolta, e ciò che più conta, non furono anni di crisi economica. Ecco perché il titolo che Barrett diede all’album, “Il Pifferaio ai cancelli dell’alba”, lo prese in prestito dal capitolo numero 7 di un famoso libro per bambini: “Il vento nei salici” scritto da Kenneth Grahame nel 1908.
Nel vento nei salici alcuni animali vivono le loro piccole e grandi avventure. Nel capitolo del Pifferaio appare il dio Pan, che suonando una meravigliosa musica col suo flauto magico, aiuta Ratto e Talpa a ritrovare un cucciolo smarrito, per poi svanire nel nulla senza lasciare alcun ricordo nelle loro memorie. E del resto il Flauto magico – in musica – appartiene a fiabe gioiose fin dai tempi di Mozart.
“Oh, Talpa! Come è bello! Il cicalare giocondo, il tenue, netto, felice richiamo del flauto lontano! Io non ho sognato mai simile musica, e il richiamo in essa è anche più forte di quanto sia dolce la musica! Rema, Talpa, Rema! Che la musica e il richiamo devono essere per noi”
Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino
La musica psichedelica, dopo i primissimi anni ’70, divenne meno popolare. Gli stessi Pink Floyd, ormai orfani di Barrett già da tempo, crearono veri capolavori, come “Wish you were here” o “The wall”, che però non avevano più nulla a che fare con la psichedelia. Ma negli anni ’90 – i famosi corsi e ricorsi della storia – la musica psichedelica riprese vita, e venne chiamata “neo-psichedelia”. In questo termine, però, furono collocati decine e decine di generi: alcune band garage rock, alcuni tipi di punk-house, pop melodico immerso in atmosfere sognanti e qualsiasi musicista che abbia mai dichiarato di essersi ispirato ai Velvet Underground. Ma qualcuno meritevole di portare nuovamente e seriamente quella bandiera esiste, e, ancora una volta, appartiene alla scena texana.
Fra le band realmente neo-psichedeliche voglio citare solo gli strepitosi The Black Angels, in attività da metà anni zero e organizzatori del Festival psichedelico di Austin, TX, loro città d’origine. Il loro primo album, “Passover”, del 2006, è una bomba nucleare. Non c’è altro modo per definirlo. Loro sono molto lontani dall’essere un semplice ritorno a musiche di altri tempi. I Black Angels suonano un vero rock psichedelico molto heavy, dal ritmo incessante e primitivo, incredibilmente bello, trainante e potente. Ricorda, a tratti, il suono di qualche band anni ’60, ma non più di quanto il volto di un nipote possa ricordare quello del nonno. Inoltre, se la psichedelia anni ’60 raccontava viaggi personali, voli interstellari, flauti magici, al contrario, i Black Angels ci raccontano l’apocalisse. Nell’album c’è una citazione di Edvard Munch:
“La malattia, la pazzia e la morte sono gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla e mi accompagneranno per tutta la vita”
THE BLACK ANGELS, PHOTO BY ALEXANDRA VALENTI
Rock neo-psichedelico: l’Oscurità
Il mondo, ormai è in pieno Kali Yuga, l’oscurità è ovunque, non c’è più salvezza per nessuno e i testi dei Black Angels ce lo ricordano. Se I Pink Floyd avevano creato “The Piper at the gates of dawn”, i Black Angels intitolano una canzone “The Sniper at the gates of Heaven”. Il Pifferaio ai cancelli dell’alba si è trasformato in un cecchino appostato addirittura all’entrata del Paradiso.
“Where do you go when heaven calls you? What do you do? Who do you turn to? How old will you be when they finally catch you? Don’t stop moving, they’re right behind ya. When there’s no one left on this earth you know who can save you kid, so just wake up wake up wake up
What is it like when hell surrounds you? How hot does it get? I think I’ve already felt it. Is there any way out? You better find one”
Dove
andrai quando il Cielo ti chiamerà? Cosa farai? A chi ti rivolgerai? Quanti
anni avrai quando alla fine ti prenderanno? Non ti fermare, loro ti stanno alle
costole. Quando non ci sarà più nessuno che conosci, su questa terra, chi potrà
salvarti ragazzo, perciò svegliati svegliati svegliati
Come ci si sente quando l’Inferno ti circonda? Quanto diventa rovente? Io credo di averlo provato. C’è qualche via d’uscita? Faresti meglio a trovarne una.
Sniper at the Gates of Heaven
Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino
I Black Angels ci dicono, in breve, che – nel terzo millennio dalla nascita di Cristo – non ci sono dolci animaletti né possibilità di fluttuare in mondi paralleli ma solo questa terra devastata a cui apparteniamo e la gravità che ci schiaccia al suolo. Inferno e Paradiso sono la stessa cosa: il primo ti circonda, il secondo manda un cecchino a finirti.
Dal 2006 ad adesso i Black Angels hanno pubblicato diversi album, tutti di rock neo-psichedelico, ansiogeni e catartici allo stesso tempo, ma soprattutto molto, molto belli (l’ultimo, “Death song”, è del 2017). Inoltre, le loro profezie apocalittiche si sono dimostrate corrette. Il mondo di adesso, 2020, è veramente intriso di Malattia, Pazzia e Morte, e pur rimanendo ben svegli, trovare vie d’uscita sembra sempre più difficile.
Negli anni ’60 domandarono a Jean Luc Godard cosa pensava
della televisione. Era il periodo in cui la televisione, in Europa, si stava
diffondendo rapidamente, un po’ come internet negli anni zero. Godard rispose
che la televisione è un rubinetto, quindi tutto dipende dal liquido che ci
metti dentro. Sono sicura che oggi Godard risponderebbe “La televisione è pubblicità”.
Dal vecchio rubinetto, ormai, esce sempre lo stesso liquido. Stessa cosa per
internet: nata come tecnologia dal potenziale stellare è stata trasformata nel
Regno Universale e Banalissimo del Mercato, che, a sua volta, ha partorito il mostruoso,
gigantesco Leviatano della Pubblicità contro cui non facciamo che sbattere quando
cerchiamo di navigare.
Essendo la pubblicità un po’ la spina dorsale del nostro
paralitico sistema, ci si potrebbe aspettare che coloro che vengono scelti e
abbondantemente pagati per promuovere le merci siano persone brillanti. Non dico
sempre puntuali ma nemmeno in ritardo mentale.
Spesso questi signori, chiamati “creativi”, riescono a “creare” dei veri autogoal. Senza nemmeno rendersene conto. Per premiare queste opere geniali ne abbiamo scelte tre: il top degli ultimi anni, un po’ come un podio olimpico.
“ANCHE I PUBBLICITARI” numero tre, Medaglia di Bronzo
FIAT 500X, Pubblicità uscita nel settembre 2018
Nel 2018 lo slogan di una delle tante Fiat 500 mi è apparso davanti agli occhi come una brutta allucinazione: “NUOVA FIAT 500X. IL DOMANI TI ASPETTA. OGGI.” Ho pensato: più che uno slogan questa è una minaccia. Viviamo in un mondo dove il futuro, senza esagerare, terrorizza la maggioranza della popolazione umana. Questo è il presente: riscaldamento globale e clima impazzito, per iniziare. Situazione politica e sociale disastrosa ovunque. Sovrappopolazione. Mancanza generale di lavoro in occidente e morte per fame, per acqua contaminata e medicine inesistenti in buona parte di Africa, Sud America ed Asia. Continuiamo con corruzione e nepotismo a 360 gradi ovunque volgiamo lo sguardo. Guerre di vario genere e nuova e orgogliosa proliferazione di armi nucleari. Diritti civili che si assottigliano. Il ritorno di tortura e schiavitù, come vecchi amici mai morti ma che, finalmente, possiamo di nuovo ospitare nel salotto buono.
Questo è, solo in parte, il presente. Eleviamolo al cubo e avremo il futuro prossimo. Eleviamolo alla quarta e avremo un futuro un po’ anteriore. I ragazzini di tutto il mondo fanno manifestazioni sul clima contro politici e grossi imprenditori, perché loro, quindicenni, sanno bene che un futuro orribile – costruito dai loro padri, nonni, bisnonni – li raggiungerà, e sono spaventati e incazzati. Ma i creativi della Fiat, come “Alice” di De Gregori, tutto questo non lo sanno e il terrificante, apocalittico domani hanno deciso di impacchettarlo in una graziosa e costosa macchinetta e portarlo oggi stesso qui da noi! Potevano almeno optare per: “Nuova Fiat 500X. APOCALYPSE NOW”. Se non altro facevano una citazione…
“ANCHE I PUBBLICITARI” numero due, Medaglia d’Argento
La cinese di Dolce & Gabbana, novembre 2018
Parafrasando Garcia Marquez, potremmo definirla “Cronaca di un disastro annunciato”. Nel novembre 2018 i creativi del duo Gabbana e Dolce sono stati strapagati per creare un video che promuovesse la grande sfilata con gala che, di lì a poco, avrebbe avuto luogo in Cina. Esito dell’operazione: i pubblicitari sono riusciti ad offendere mortalmente un miliardo e mezzo di cinesi, senza contare i neonati. Nemmeno se la pubblicità fosse stata progettata da Donald Trump in persona avrebbe raggiunto un tale risultato!
Perché “disastro annunciato”? Perché tutti, perfino gli abitanti di Tristan da Cunha, l’arcipelago più lontano da ogni altra terra emersa, sanno che i cinesi, dietro ai loro modi ossequiosi, sono tutt’altro che miti e remissivi. Lasciamo stare la momentanea umiltà profusa dalla classe dirigente cinese a causa del coronavirus di Wuhan: un profilo basso che durerà solo il tempo di bloccare l’epidemia o di infettare il resto della popolazione mondiale. I cinesi, al contrario di noi italiani hanno un senso molto forte della loro identità nazionale e, come popolo, s’incazzano facilmente, sono storicamente vendicativi e possono permettersi di esserlo. Nonostante questa consapevolezza, che cosa hanno inventato i creativi di Dolce e Gabbana? Una modella cinese, nemmeno troppo carina, appena uscita da una Cina non solo antica ma soprattutto assurda, inesistente, così come se l’immaginano solo loro, che ridendo come si fosse appena fumata una canna, prova e riprova, senza riuscirci, a mangiare con le bacchette una pizza, un piatto di spaghetti (alimento, fra l’altro, inventato dai cinesi) e il più grande cannolo siciliano mai visto. Guardando quel video, abbiamo tutti pensato: “Ci sono solo due possibilità: la cinese è strafatta o completamente scema. Terza ipotesi, entrambe le cose”.
Attenti a quei due!
DOLCE & GABBANA CHIEDONO SCUSA ALLA CINA
Ma la storia non finisce qui. Diventa una vera epopea. Di
fronte alla prevedibile ira funesta dei cinesi, gli illustri stilisti hanno
reagito da umiliati e offesi. Gabbana ha twittato, in un inglese terrificante,
cattiverie inenarrabili, con tanto di emoticon a forma di cacca per definire la
Cina e chiamando i cinesi razzisti perché
mangiano i cani mentre noi, invece, li amiamo e rispettiamo (sì certo,
raccontalo ai canili lager e a tutti i cani abbandonati).
Vabbè. Di fronte ai tweet al cianuro di Gabbana, i p.r. di “attenti a quei due”, geniali come i creativi creatori della cinese demente, hanno raccontato la classica madre di tutte le cazzate, ovvero il solito hacker che si insinua oggi qui domani là, finito nell’account dello stilista e sbizzarritosi nell’insultare la Cina. Dopo questo pietoso racconto hanno costretto i due sarti a fare un video dove, seduti di fronte a un muro dalla tappezzeria che fa pensare a un vecchio bordello turco, cupi come mucche in coda dietro alla mucca Giuda, cercano di scusarsi con la Cina. Ma senza crederci, come risulta evidente. Ma almeno – ed ecco la buona notizia – parlando in italiano e non in inglese.
“ANCHE I PUBBLICITARI” numero uno, Medaglia d’Oro
Pubblicità delle Moments molli, 2011
Ricorderete tutti la pubblicità del 2011 delle – allora – nuovissime compresse d’ibuprofene Moments molli. In realtà uguali alle Moments vecchie, ma liquide invece che solide e quindi più rapide nel togliere il dolore. Potevano chiamarle liquide, rapide, morbide, duttili, tenere, soffici o vattelapesca ma hanno scelto “molli”. Scelta probabilmente casuale, chi può dirlo? Ciò che è sicuro è che questa parola ha suggerito ai brillanti creativi il promo perfetto.
Chi non ricorda la ragazza americana di nome Molly che va a trovare il suo ragazzo italiano? I due giovani devono uscire ma Molly ha un gran mal di testa; il ragazzo, però, le fa ingerire una delle Moments molli e Molly si sente subito bene tanto che i due partono allegramente in scooter. Passando davanti a una farmacia Molly vede in vetrina la promozione delle Moments molli, e urla col suo accento americano: “Guarda, molli!!!” E tutti e due ridono come scemi.
Dall’inizio alla fine della pubblicità la parola “molli” viene pronunciata continuamente. Una specie di mantra, creato apposta dai pubblicitari ingaggiati dalla Casa Angelini per far rimanere ben impresso il nuovo concetto nella mente della gente. Riusciti, ci sono riusciti. Qual è il problema, allora?
Il problema è che la parola molly, negli Stati Uniti prima e subito dopo in Europa, in Australia e probabilmente anche nel bel mezzo del Sahara è diventata, già da ben più di dieci anni, sinonimo di anfetamina. Dalla MDMA o ecstasy, passando per tutte le varietà possibili e immaginabili di pasticche nate per “andare veloci”, molly significa anfetamina, e quindi droga. Non sto parlando di un nomignolo conosciuto solo in ambienti tossici e ristretti: negli Stati Uniti – per capirci – anche i bambini delle scuole medie sanno cosa è molly. Perfino qui da noi, basta guardare una serie televisiva qualsiasi con dialoghi italiani (Two broke girls, Elementary, Animal Kingdom, Law & Order, Euphoria, Shameless, Prodigal Son, solo per citarne alcune) per sentir nominare più volte molly in quel senso. Inoltre non si tratta di una droga leggera come la cannabis, ma, al contrario, di una droga molto pericolosa, ed essendo considerata anche droga da discoteca viene usata da molti con superficialità. Qualcosa che – in effetti – sarebbe meglio non pubblicizzare ogni due minuti in televisione. Se poi consideriamo che, sia nel caso dell’anfetamina sia nel caso dell’ibuprofene entrambi i principi attivi vengono consumati principalmente tramite pasticche, l’incredibile gaffe suona ancora più evidente.
Ad ogni modo, dopo più di due anni di continui spot in tema, i signori dell’Angelini devono aver scoperto che stavano spendendo un sacco di soldi per pubblicizzare il narcotraffico, e la giovane Molly, così com’era arrivata, è improvvisamente sparita. Proprio dall’oggi al domani. In ogni caso nessuno può togliere ai suoi creatori la nostra medaglia d’oro, decisamente più che meritata…
Il gatto di Schrodinger, per spiegarlo rapidamente e con parole decisamente poco scientifiche, è un esperimento mentale ideato da Erwin Schrodinger nel 1935. Lo scopo dell’esperimento era quello di dimostrare come l’interpretazione ortodossa della meccanica quantistica, pur funzionando a livello subatomico, risulti decisamente problematica quando mettiamo in relazione il mondo subatomico col mondo macroscopico.
Da lì l’idea di un marchingegno infernale fatto di una piccola porzione di sostanza radioattiva, di una capsula al cianuro con martelletto pronto a romperla, il tutto chiuso per un’ora in una scatola assieme a un povero – e certamente incazzatissimo – gatto. Se uno degli atomi radioattivi si disintegra, il martelletto rompe la fiala e il cianuro uccide il gatto; se, invece, nessun atomo si disintegra, il gatto resta vivo. Se all’apertura della scatola sarà ancora vivo, probabilmente il micio vi azzannerà alla gola: è bene che siate preparati!
La proverbiale “gatta morta”
Secondo la teoria ortodossa, conosciuta come entanglement quantistico, e già contestata da Einstein prima che da Schrodinger, due sistemi fisici, se interagiscono, si vanno a sovrapporre e devono essere trattati come un sistema unico, descritto da un solo stato quantico, e precisamente l’entanglement di cui prima. Ed ecco il paradosso del gatto, perché, all’apertura della scatola, il gatto non può essere sia vivo che morto: nessun “intreccio” può esistere fra i due stati. A meno che non si tratti della proverbiale “gatta morta”, che, come tutti sappiamo, è morta solo a parole…
Il gatto di Schrodinger e il gatto di Google
Dal gatto di Schrodinger passo rapidamente al gatto di Google. Cosa diavolo è il gatto di Google? Una sorta di stalker che, ultimamente, mi segue ovunque su internet. Vado su un sito che parli di qualsiasi cosa possiate immaginare e chi ci trovo, in alto a destra, o al centro? Quell’accidenti di gatto. Vado su youtube? Il gatto è lì che mi aspetta. Quel gatto arriva sempre per primo e mi fa pensare a quella frase di Terry Pratchett sulla luce, che crede di viaggiare più veloce di tutto, ma si sbaglia. Per quanto sia veloce, la luce scopre sempre che l’oscurità è arrivata prima di lei e l’aspetta.
Il mio meraviglioso gatto Axl
Oscurità e luce a parte, la faccenda che riguarda lo stalking del gatto è davvero inquietante, e vi spiego il perché. Come la maggioranza dei frequentatori del web anch’io amo i gatti, e ne ho due. Google ovviamente può accedere ai nostri pensieri più reconditi, e a maggior ragione alle foto che scattiamo col telefonino. Nel mio caso, in mezzo a tante foto che vanno dalle radici degli alberi a fiori, api e farfalle, foto di amici e tutto quello che vi può venire in mente, le foto dei miei gatti sono davvero poche. Sono poche per un motivo semplice: a quelle due bestie ingrate non piace essere fotografate; appena scoprono che li stai inquadrando – e lo scoprono subito – se ne vanno disgustati.
Ed ecco la rivelazione inquietante: il mio gatto Axl (sì, Axl come Axl Rose) è praticamente la fotocopia del gatto di Google.
IL MIO GATTO AXL
IL GATTO DI GOOGLE
Il gatto di Schrodinger e il gatto di Google:due domande
La prima
domanda, quindi: come fa l’algoritmo di Google a sapere che ho un gatto che amo
più di ogni altro animale al mondo e mettermi una foto di un gatto a lui
identico che mi segue? Se fossimo americani direi: roba da NSA.
La seconda domanda, ma prima
per importanza: a cosa serve il gatto di Google? È un premio, come per dire “ti
vogliamo bene e vogliamo che tu ti senta a casa, qui da noi”, o al contrario
“sappiamo tutto di te e se solo fai una mossa sbagliata ti strangoliamo il
gatto? Il tuo, si capisce, non il nostro”.
Quali che siano le risposte, è evidente che siamo tornati a “1984” di Orwell. Con i televisori del Grande Fratello che osservano ogni tuo movimento, perfino il più piccolo, il più apparentemente inutile, pronti ad usarlo contro di te:
“Smith! – gridò la voce petulante dallo schermo – 6079 Smith! W.! Sì, proprio tu! Chinati di più per cortesia. Puoi fare di meglio. Non ti sforzi. Più giù, più giù. Così va meglio, compagno. E ora riposo, tutta la squadra, e guardate me”.
Ora Winston traspirava da ogni poro della pelle un sudore bollente. Il suo volto rimase però impassibile: mai mostrare sgomento, mai mostrare risentimento! Un guizzo negli occhi ed eravate perduti.
Razze pericolose
A qualsiasi algoritmo
risponda, il gatto di Google probabilmente nella realtà non esiste. O magari è
esistito e adesso è morto. Ma in ogni caso il gatto di Google supera il
paradosso del gatto di Schrodinger, perché, al contrario del gatto nella
scatola, è un perfetto entanglement: può essere vivo e morto allo stesso tempo,
reale e irreale, vero e finto, amico e nemico, proprio come tutto ciò che è
virtuale, proprio come tutto ciò a cui diamo la nostra fiducia in questa
infelice epoca.
I nostri padroni, però, che ci
guardino dallo schermo di uno smartphone o da un televisore in bianco e nero,
che appartengano a un tipo nuovo o vecchio di economia, fanno sempre parte della
medesima razza. Una razza pericolosa. Non dimentichiamolo mai.
Donne lasciate sole in un mondo dominato da uomini
Lady Hamilton as MEDEA di George Romney
NUNC MEDEA SUM, ovvero “Adesso sono Medea” è il verso 910 della Medea di Seneca, dove Medea, in un turbine di ira e passione, supera ogni dubbio e si accinge a compiere la sua vendetta contro Iason, suo marito e padrone, che l’ha condotta nell’abisso del dolore. Il senso di quelle parole è “Finalmente sono diventata la vera Medea”, come se avesse vissuto e patito ogni attimo della sua vita in preparazione del suo nuovo e implacabile ego.
Per far comprendere a tutti chi fosse Medea e in che modo il suo destino sia stato segnato, bisogna fare un passo indietro e parlare degli Argonauti. Devo ricordare che la storia degli Argonauti, mito preomerico, è lunga come un’Odissea all’ennesima potenza, e qui ne tracceremo giusto le linee principali.
Gli Argonauti, in breve, furono quel gruppo di 50 guerrieri greci che, a bordo della nave Argo e sotto il comando di Iason, si mossero dalla Grecia verso la Colchide (terra del Caucaso, che oggi potremmo situare fra la Georgia occidentale e la Turchia) per prendere possesso di un oggetto speciale, il “vello d’oro” che i greci sostenevano essere di loro proprietà. L’idea di fare quella spedizione venne da una sorta di patto fra Pelia, re di Iolco in Tessaglia e Iason, legittimo pretendente al Regno: Pelia gli assicurò che, se fosse tornato col vello, il Regno sarebbe stato suo.
Quello che forse, più di ogni altra cosa, ha reso memorabile l’avventura degli Argonauti è stato quello che oggi chiameremmo un supercast. Fra quei 50 guerrieri c’erano personaggi davvero molto noti, fra cui Teseo, Castore e Polluce, fino ai celeberrimi Orfeo ed Ercole. Inoltre, per sottolineare l’assoluto genere maschile come imprinting del gruppo, va ricordato che Atalanta, cacciatrice imbattibile, pur volendo partecipare all’impresa non fu accettata sulla Argo da Iason perché femmina (secondo alcune versioni del mito). Anche Cenis, donna bellissima che desiderava combattere fu, di conseguenza, trasformata in uomo…
Iason incontra Medea
Nonostante il grande sfoggio di virilità e di guerrieri semi-divini nel gruppo degli Argonauti, Iason non sarebbe riuscito né ad avvicinarsi al vello d’oro e tantomeno a fuggire da lì, se non grazie all’aiuto fornitogli da una ragazza, Medea. Eete, che regnava sulla Colchide e quindi era il legittimo proprietario del vello d’oro, era figlio del dio Helios (il dio Sole) e padre, fra gli altri, di Medea, giovane e formidabile maga. La principessa Medea, a causa dell’intervento del dio Eros, s’innamorò disperatamente di Iason e da quel momento divenne uno strumento nelle mani di lui. Riuscì, grazie ad incantesimi eccezionali, a fargli ottenere il vello e, una volta in fuga con lui e gli altri Argonauti sulla nave, non esitò ad uccidere il giovane fratello Apsirto. Forse Medea lo aveva preso in ostaggio o forse li stava inseguendo, ma, una volta ucciso, dovette tagliargli il corpo a pezzi; quello, infatti, sarebbe stato l’unico espediente in grado di fermare Eete, costretto a rimettere insieme i brandelli del figlio per dargli una sepoltura degna.
Iason e Medea, di Gustave Moreau, 1865
Maria Callas in MEDEA di Pasolini
Ritorno in Tessaglia
Nel corso del viaggio di ritorno furono ancora tante le situazioni in cui fu Medea, con le sue arti magiche, a salvare gli Argonauti. Ma pur essendosi servito di lei fin dal primo momento, Iason non la amò mai e la sposò solo come stratagemma per far sì che i Colchi e i loro alleati non gli sottraessero il vello d’oro. Una volta poi arrivato a “casa” Iason scoprì che Pelia non aveva nessuna intenzione di tener fede al patto, e, ancora una volta, fu Medea a salvargli la vita uccidendo il re. Iason lasciò comunque il trono al figlio di Pelia, Acasto, che pur essendo stato uno dei 50 Argonauti, condannò all’esilio Iason e Medea.
NUNC MEDEA SUM: Medea e Iason a Corinto
Ed eccoci al punto. Medea e Iason li ritroviamo esuli a Corinto, con due figli bambini e una vita piuttosto stabile, anche se Medea, considerata straniera e barbara non riuscirà mai a sentirsi benvoluta e a casa. I suoi modi sono diversi, e lei rifiuta di comportarsi da greca; non vuole legarsi i capelli e oppone le sue conoscenze magiche e antichissime alla ragion di Stato. Medea è indomabile, e delle donne dei Corinzi pensa che “siano come animali addomesticati, resi mansueti dagli uomini”. I popoli del Caucaso, da dove lei proviene, avevano un costume di totale uguaglianza fra uomo e donna. Ad esempio, le donne erano guerriere tanto quanto gli uomini (le Amazzoni, infatti, provengono da quelle terre).
Invece Iason, che desidera da sempre il potere, diventa amico del re Creonte che gli offre di sposare la giovane figlia Creusa. Iason accetta, pur avendo già moglie e figli. Come se nulla fosse si organizza così: i figli andranno a vivere con lui e la nuova moglie, mentre Medea verrà mandata via, sola, in esilio. Iason è certamente un personaggio orribile, sia nella Medea di Euripide che in quella di Seneca: un uomo – decisamente e tristemente attuale e moderno – innamorato solo del potere e di se stesso, abituato ad usare la seduzione come mezzo per raggiungere il potere. Non a caso Dante, nella Commedia, lo mette all’Inferno proprio per questo motivo.
Mentre prepara la sua mossa contro l’uomo che l’ha
sfruttata portandole via tutto per poi abbandonarla sola, misera e in esilio,
Medea viene così descritta da Seneca, per voce del Coro:
“S’aggira come tigre che cerca furibonda i figli per la
foresta del Gange. Medea è incapace di dominare sia l’ira sia l’amore; ira e
amore adesso si sono alleati: che ne seguirà?”
Ed è questo un punto davvero interessante: tutti sanno che le tigri sono le più amorevoli delle madri, e una tigre che si aggira furiosa in cerca dei propri cuccioli di sicuro non lo fa per ucciderli, ma semmai per uccidere chi cerca di far loro del male. Io credo che Medea, apprestandosi ad uccidere i figli che ama, non sia mossa solo dal desiderio di vendetta, ma principalmente dal sentore insostenibile provato da tutti quelli che sanno di non avere più altre scelte possibili. Io penso che, in quel momento, lei ami i propri figli appassionatamente, e sceglie di ucciderli perché uccidere se stessa e Iason sarebbe troppo facile. Nella sua visione di “exit life” i due genitori, Medea e Iason, devono restare vivi, sopravvivere alla morte dei loro figli, per morire di nuovo, nello spirito, il giorno dopo e quello dopo ancora e così via fino all’ultimo giorno di vita. “The privilege to die” diceva Emily Dickinson.
Nel lungo monologo che costituisce il nucleo dell’opera, in cui Medea parla alla nutrice, dirà:
“Delitto è avere Iason per padre e delitto anche maggiore Medea per madre.Che vengano uccisi, non sono miei; che periscano, sono miei.”
NUNC MEDEA SUM: “Medea con i figli morti fugge da Corinto con un carro trainato da draghi” di German Hernandez Amores, Museo del Prado
Il Personaggio Medea
Medea è forse uno dei personaggi più complessi che il mito ci racconta, estremamente difficile da comprendere. Forse le donne, a maggior ragione se madri, inaspettatamente possono riuscire a comprenderla, per via di quella sorta di scollamento che avviene con la maternità, quando, letteralmente, una parte viva di te si stacca dal tuo corpo e lo abbandona per sempre. Non riesco a concordare, invece, con la versione creata da Christa Wolf, famosa scrittrice tedesca. Secondo Wolf i figli di Medea vengono sacrificati dai cittadini di Corinto per purificare la città da un’epidemia, e Medea, considerata straniera, quindi facile capro espiatorio, viene ingiustamente accusata di averli uccisi.
La versione di Christa Wolf, francamente, mi sembra fuorviante proprio perché, nel tentativo di rendere giustizia a Medea, la trasforma in vittima e in donna debole. La bellezza del personaggio Medea, invece, risiede proprio nella sua forza e nel suo rifiuto di diventare vittima. Oltre che in quel fascino che deriva dalla sua ambiguità morale vagamente bipolare, e da quel suo attaccamento alle forze cosmiche ancestrali, quasi fosse, lei stessa, la personificazione della Natura. Una Natura spesso crudele, costretta a sacrificare i propri figli affinché altri possano vivere, morire, rivivere.
NUNC MEDEA SUM: Medea e Veronica
Passando rapidamente dal mito alla realtà, nel corso degli anni non ho mai trovato fra le pur numerose donne, italiane o straniere, condannate per omicidio di un figlio, una che potesse essere definita Medea. Finché non ho visto la siciliana Veronica Panarello, condannata per l’omicidio del figlio Lorys Stival, bambino di otto anni, morto per strangolamento tramite fascette da elettricista.
Perché Veronica merita l’appellativo di Medea? Per vari motivi. Veronica si è sempre dichiarata innocente e l’ipotesi dell’autostrangolamento con le fascette compiuto da Lorys in una sorta di gioco terribile sembra verosimile e non contraddetta da prove, ma non è questo a renderla Medea.
Che sia davvero stata l’autrice dell’assassinio del figlio oppure no, di sicuro è stata abbandonata a se stessa dagli uomini della sua famiglia molto prima della morte di Lorys. In seguito alla tragedia, consegnata dai familiari, con un’acredine quasi sadica, a una stampa e a una società che amano scagliarsi contro i deboli, soprattutto quando i deboli sono donne.
Secondo motivo che la rende Medea: il suo aspetto. Veronica, all’epoca dei fatti aveva solo ventisei anni, e fisicamente ne dimostrava diciotto. Le foto e le immagini girate dai vari documentari ce la mostrano giovanissima, magrissima, a mio parere bellissima, bianca come se il sangue avesse da tempo smesso di scorrerle nelle vene, vestita di nero con lunghi capelli castani e occhi grandi e persi. Le physique du rôle da Medea, quindi, era perfetto.
Veronica Panarello
Veronica Panarello Stival
Chi era quindi Veronica Panarello prima di finire in carcere per trent’anni, confermati in Appello e in Cassazione? Una ragazzina passata direttamente dall’adolescenza alla maternità. A soli 26 anni aveva già due figli, di cui uno molto piccolo e l’altro, Lorys, di 8 anni, ipercinetico. Due figli molto difficili da gestire anche per donne ben più adulte e mature, che Veronica, però, doveva tirar su da sola.
Il marito, infatti, col suo lavoro da camionista passava settimane e settimane lontano da casa, senza preoccuparsi minimamente della gabbia fisica e psichica in cui aveva rinchiuso la sua giovanissima moglie. Forse Stival, il marito, lavorava più del dovuto. Forse rimaneva ancora più assente da casa proprio per far sì che Veronica non dovesse lavorare per potersi dedicare esclusivamente, 24/7 ai figli bambini, facendola sentire sola e alienata. Il tutto in un paesino in provincia di Ragusa, dove ogni cosa che fai passa al vaglio della gente: i vicini, i conoscenti, la scuola, la chiesa.
Un moderno Iason
Quando Lorys è morto e Veronica, dopo poco, è stata accusata dell’omicidio pur dichiarandosi innocente, il marito neanche per un momento le ha dato fiducia. Al contrario: le si è scagliato contro come se stesse solo aspettando il momento per farlo. Quando Veronica ha accusato il suocero di avere un ruolo nella vicenda (cosa che, fra l’altro, sembra ragionevole sotto vari punti di vista, a iniziare dall’isolamento sociale in cui viveva la ragazza) il marito ha creduto ciecamente al padre e neanche per un istante alla moglie. Ecco quindi, un moderno Iason che non esita a disfarsi della moglie alleandosi col suo mondo di uomini: il di lui padre, i giudici, gli investigatori, il pubblico.
NUNC MEDEA SUM: Differenze basilari tra Panarello e Franzoni
Parliamo per un attimo del famosissimo assassinio di Cogne, dove Anna Maria Franzoni, donna decisamente adulta, ha ucciso il proprio bambino, Samuel, di tre anni, percuotendogli la testa fino a fargli schizzare il cervello sul soffitto. Al contrario dell’omicidio di Lorys, nell’omicidio di Cogne le prove contro la madre del bambino, fin dall’inizio, si sono dimostrate estremamente solide. Inoltre il comportamento della Franzoni fin dal primo momento è stato freddo, distaccato e sospetto.
Franzoni spalleggiata dalla famiglia
Il marito e la sua grande famiglia, però, hanno fatto il contrario degli Stival: le hanno creduto nonostante tutto proteggendola da stampa e investigatori. La Franzoni non è stata abbandonata a se stessa, di conseguenza nessuno si è mai permesso di trattarla nel modo vergognoso con cui giudici e stampa hanno trattato la Panarello.Ma, soprattutto, il mondo degli uomini in Corte d’Appello ha ridotto alla Franzoni la pena a 16 anni. Diventati poi 11 fra indulti e sconti per trascorrerne infine (senza contare i frequenti permessi ottenuti) neanche 6 e ottenere gli arresti domiciliari con la possibilità di lavoro fuori casa e, poco dopo, tornare definitivamente totalmente libera per pena espiata.
Ho conosciuto persone che per possesso di pochi grammi di droga sono state in carcere più a lungo. Ma si sa, l’Italia è uno strano paese dove alcuni assassini, ovviamente da prima pagina, creano audience e, di conseguenza, ottengono grande benevolenza.
NUNC MEDEA SUM: Medea piange, dalla MEDEA di Pasolini con Maria Callas
Migliaia e migliaia di anni sono passati da quando i Corinzi addomesticavano donne come fossero state animali, ma gli uomini tengono ancora salde nelle mani le chiavi del potere. La Medea del mito ha cercato di ribellarsi a questo, non accettando il ruolo della donna come proprietà del marito. Medea-Veronica, colpevole o meno di aver ucciso il figlio, di sicuro non ha avuto un trattamento equo, né dalla giustizia né dalla società, e resterà a lungo in carcere.
Quelli che accendono un cero alla Madonna perché hanno il nipote che sta morendo, oh yeah! Quelli che di mestiere ti spengono il cero, oh yeah! Quelli che Mussolini è dentro di noi, oh yeah! Quelli che votano a destra perché hanno paura dei ladri, oh yeah! Quelli che credono che Gesù Bambino sia Babbo Natale da giovane, oh yeah! Quelli che la notte di Natale scappano con l’amante dopo aver rubato il panettone ai bambini, oh yeah! … Intesi come figli, oh yeah! Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh yeah! Quelli che sono soltanto le due di notte, oh yeah! Quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio e poi vanno a casa e picchiano i figli, oh yeah! Quelli che dicono che i soldi non sono tutto nella vita, oh yeah! Quelli che per principio non per i soldi, oh yeah oh yeah! Quelli che sono onesti fino a un certo punto, oh yeah! Quelli che non si divertono mai, neanche quando ridono, oh yeah! Quelli che a teatro vanno nelle ultime file per non disturbare, oh yeah! Quelli… quelli di Roma. Quelli… che non c’erano. Quelli lì…
ENZO JANNACCI
QUELLI CHE “REMAKE 2020”
Quelli che fanno il simbolo del cuore con le mani, oh yeah!
Quelli che baciano i
crocifissi e danno fuoco agli zingari, oh yeah!
Quelli che “sono onesto,
mica cretino” oh yeah!
Quelli che “io ho fatto
felice te” “no, tu hai fatto felice me” e siamo tutti felici, oh yeah!
Quelli che dicono “BRO”, “HASHTAG”, “STARTUP”, “SPOILER”, “CASHBACK”, “FASHION” oh yeah! Ma non parlano inglese, oh yeah!
Quelli che “Mussolini era un
grande statista” oh yeah! Così grande che grazie a lui apparteniamo agli Stati
Uniti d’America, oh yeah! O yeah!
Quelli che votano Salvini
per paura dei migranti, oh yeah!
Quelli che gli piace l’uomo
forte, perché l’uomo forte ha le palle quelle vere, come Putin, Orban, Erdogan,
Giorgia Meloni, oh yeah! Oh yeah!
Quelli che fanno cori
razzisti allo stadio ma se incontrano da soli Balotelli corrono veloci come la
luce, oh yeah!
Quelli che votavano
Berlusconi ma si vergognavano a dirlo, oh yeah!
Quelli che cambiano forma politica mutando come un retrovirus, oh yeah! Inteso come HIV, oh yeah! Oh yeah!
Quelli che sono filonazisti, filoleghisti, filorenziani, come un filovirus, oh yeah! Inteso come Ebola, oh yeah! Oh yeah!
Quelli che vanno a caccia di fringuelli e leprotti, oh yeah! E quando nel bosco appare un cinghiale mandano avanti l’amato cane mentre loro, armati di fucile, scappano, oh yeah! Oh yeah!
Quelli…
quelli di Milano, oh yeah!
Quelli… che non c’erano.
Quelli lì.
Giochiamo con “Quelli che”: scrivetemi i vostri quelli che e li pubblico. Non fate come quelli che non c’erano! O come quelli lì. Oh yeah!
“Le giraffe vanno ad Amburgo. …Sul ponte scorsi una grande cassa di legno
da cui spuntavano le teste di due giraffe. Venivano dall’Africa Orientale
Portoghese, mi disse Farah, che era salito a bordo, e sarebbero state condotte
in un serraglio ambulante di Amburgo.
Volgevano
di qua e di là la testa delicata: parevano sorprese; e avevano buone ragioni
per esserlo. Non avevano mai visto il mare. Dovevano avere appena lo spazio per
stare in piedi, in quella cassa stretta. Il mondo intorno a loro,
all’improvviso, s’era mutato, rattrappito, chiuso.
Non
conoscevano né potevano immaginare la degradazione che le aspettava. Creature
orgogliose e innocenti, miti animali delle grandi pianure, dal passo elegante,
erano ignare della cattività, del freddo, del tanfo, del fumo, della scabbia e
dell’atroce noia di un mondo in cui non accade mai nulla.
…
Rammenteranno mai, le giraffe, nei lunghi anni che le attendono, il paese
perduto? Dove, dove sono scomparsi i prati, gli spineti, i fiumi, gli stagni,
le montagne azzurrine? Si chiederanno. La dolce aria alta sulle pianure si è
sollevata e ritratta. Dove sono le altre giraffe che correvano nelle lunghe
galoppate sulla terra ondulata? Le hanno abbandonate, dileguandosi tutte
quante; chissà se torneranno mai più. Dov’è la luna piena, la notte?
Le
giraffe si agitano e si destano, nella carovana del serraglio, nella gabbia
stretta odorante di paglia fradicia e di birra.
Addio, addio. Vorrei poteste morire durante il viaggio, tutte e due, perché la vostra piccola testa piena di nobiltà, che ora si tende, sorpresa, dall’orlo della cassa, contro il cielo azzurro di Mombasa, non debba voltarsi vanamente da tutti i lati, ad Amburgo, dove l’Africa è ignota. Quanto a noi, dovremo trovare qualcuno che ci faccia veramente del male, prima di poter in coscienza chiedere perdono alle giraffe per il male che facciamo loro.”
La cattura dell’orca Tilikum
Nei primi anni ’80 mia madre e mio padre andarono a fare un
viaggio in Canada, British Columbia, e dal traghetto che li portava all’isola
di Victoria videro passare un pod di orche. Erano tante, nelle acque gelide
nuotavano a balzi, libere, le pinne dorsali dei maschi sollevate con orgoglio, potenti,
meravigliose, sincronizzate, perfettamente connesse l’una all’altra. Per tutto
il resto della sua vita mia madre, fra tanti ricordi, ha sempre privilegiato
quell’immagine, raccontandola come una visione folgorante, come un incantesimo a
cui aveva avuto il privilegio di assistere, come qualcosa che potrebbe riuscire
ad illuminarci, se solo la nostra mente sapesse vedere.
Nel medesimo periodo, dall’altra parte del mondo, in Islanda, terra prediletta dai bracconieri affiliati ai grandi “parchi acquatici”, Tilikum fu catturato: era il 1983 e il piccolo maschio d’orca aveva solo due anni. Se consideriamo che le orche in natura hanno una vita lunga come e più di quella umana, un’orca di due anni è poco più che neonata.
Tutti gli ambientalisti, gli animalisti e anche persone che non sono né l’una né l’altra cosa sanno perfettamente chi era Tilikum: per alcuni l’orca più incredibilmente grande fra tutti i SeaWorld del mondo; per altri l’orca colpevole di aver ucciso una sua addestratrice, e forse un vagabondo entrato di notte nella sua prigione d’acqua. Per altri ancora, il protagonista del famoso “Blackfish”, documentario del 2013 di Gabriela Cowperthwaite, che racconta proprio la vita di Tilikum denunciando i maltrattamenti delle orche nei parchi acquatici e mostrando le scene ignobili e dolorose delle piccole orche catturate in natura, davanti alle proprie madri che urlano impotenti.
TILIKUM, AL SEAWORLD, CON LA PINNA DORSALE FLOSCIA, SINTOMO DI MALATTIA E INFELICITA’
Voglio solo ricordare i molti studi che mostrano come le orche siano capaci di una profondità emotiva del tutto assente nell’uomo. Non voglio, invece, raccontare di nuovo la storia di Tilikum: di come da giovanissimo sia stato più volte traumatizzato, non solo al momento della cattura ma anche dopo, rinchiuso in piccoli e lerci carceri acquatici di SeaWorld, tenuti, evidentemente, ben nascosti al pubblico. Del modo in cui è stato addestrato con metodi feroci basati, fra l’altro, sulla privazione del cibo. Della sua trasformazione in “testimonial” del SeaWorld ma soprattutto in un business milionario grazie al suo seme particolarmente fertile che ha portato alla nascita di quattordici cuccioli come minimo.
I signori dei Sea Parks
La colpa del Sea World di Orlando, dove Tilikum è approdato nel ’91, colpa nei confronti delle vittime umane della grande orca è dimostrata da come Tilikum sia sempre stato tenuto al di fuori di quelli che i signori dei sea parks chiamano waterworks. I waterworks significano interazione dentro l’acqua fra orca e addestratore, interazione impossibile, nel caso di Tilikum, perché “non impostato nel modo giusto”. Che poi significa recalcitrante a diventare una marionetta. Non nato per essere schiavo e quindi usato solo per lo stupido splash segment, dove con la sua mole, potenza ed energia affascinava e caricava il pubblico d’adrenalina. Appena finito il suo breve show, veniva rimandato nella sua piccola e solitaria piscina. Giorno dopo giorno la sua salute fisica e mentale peggiorava irreversibilmente, così come accade a tutte le orche in cattività.
Non ho nemmeno voglia di raccontare la tragedia annunciata, quando per Dawn, l’addestratrice, rimanere fuori dall’acqua, seduta sul bordo della piscina rocciosa, non è stato sufficiente per salvarsi la vita. Tilikum è riuscito ad afferrarla per i capelli legati in coda di cavallo trascinandola sott’acqua fino a farla annegare. Da quel momento il SeaWorld non ha più fatto esibire Tilikum relegandolo nell’ennesima vasca prigione, sempre più angusta. Nonostante la pressione pubblica e l’impegno di organizzazioni animaliste per reintrodurre Tilikum in un santuario marino, i vertici di SeaWorld hanno sempre rifiutato.
Morte di Tilikum
Quando il 6 gennaio del 2017 ho saputo che Tilikum era morto ho ringraziato l’universo. La morte, infatti, non è niente, mentre sofferenza, schiavitù, malattia e noia non sono tollerabili. Io spero sia almeno riuscito a dimenticare la madre, il suo gruppo familiare e le acque gelide dell’Islanda. Spero non abbia aggiunto all’orrore di una vita di torture anche la tristezza del ricordo di quei due unici anni di vita in natura.
La sua vita rubata in modo criminale e la sua sofferenza fisica, era tutto finalmente finito. Quello che non è finito e non finirà mai, invece, è l’arroganza, la prepotenza e la ferocia umana: che cosa c’è di profondamente sbagliato nella nostra specie per sentirci padroni di terre, mari, aria e di ogni creatura vivente?
Cosa ci lascia Tilikum
Per me Tilikum non è stato solo un meraviglioso e infelice animale, un portento della natura, ma anche il simbolo di chi decide di non piegarsi, di chi rifiuta di essere schiavo. Il simbolo di chiunque, animale o umano, scelga di ribellarsi alla tirannia, in qualsiasi forma questa si presenti.
POD DI ORCHE LIBERE
Quanto a noi, dovremo trovare qualcuno che ci faccia veramente molto, molto male, prima di poter in coscienza chiedere perdono a Tilikum e a tutti gli altri animali che schiavizziamo, ingabbiamo, torturiamo in allevamenti intensivi, vivisezioniamo, mangiamo, scuoiamo per indossarne pelli o pellicce, diamo loro la caccia, togliamo loro il territorio condannandoli all’estinzione. Chiedere loro perdono per tutto il male che gli abbiamo fatto e che, imperterriti, continuiamo a fargli.
“…Moby Dick mi suscitava un altro pensiero, o piuttosto un orrore vago e senza nome, così intenso a volte da soverchiare tutto il resto; e tuttavia così misterioso e quasi ineffabile che a momenti dispero di poterlo esprimere in una forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che soprattutto mi atterriva.”
CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI è un breve viaggio che faccio partire da alcune osservazioni personali:
In televisione vedo la pubblicità di una penna sbiancante per denti, con questa modella dall’aria inquietante: capelli biondo platino; pelle del genere “whiter shade of pale”; un sorriso pieno di denti scintillanti resi ancora più bianchi dal contrasto con numerosi strati di rossetto vermiglio.
Ancora pubblicità. L’ennesimo spot su qualche detersivo da
lavatrice, con l’ennesima donna quasi in orgasmo mentre stende lenzuola
iperdotate, a quanto pare, del fondamentale pregio di apparire così bianche da
mandare in estasi femmine di tutte le età. Praticamente un porno.
A quel punto mi sono domandata: da dove viene questa umana mania, questo delirio archetipico, questa attrazione fatale per il bianco? Mi è venuto in mente quel capitolo di Moby Dick, intitolato “La bianchezza della balena”:
“…In
certo modo, vari popoli hanno riconosciuto in questo colore una qualche
preminenza regale…e altri uomini hanno preferito e scelto quel colore per farne
l’emblema di molte cose nobili e commoventi, come l’innocenza delle spose e la
benignità della vecchiaia… nei miti Greci il grande Giove in persona s’incarna
nel toro candido…tutti i sacerdoti cristiani ricavano direttamente dalla parola
latina che significa bianco il nome di una parte del loro abito sacro…E’ vero
che nella Visione di San Giovanni i redenti portano vesti bianche, e i 24
anziani stanno vestiti di bianco davanti al gran trono candido, e il Santo che
vi siede è bianco come la lana. Eppure, nonostante questa montagna di
associazioni con tutto ciò che è soave e venerabile e sublime, sempre nell’idea più profonda di questo
colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel
rosso che ci atterrisce nel sangue.
È questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza, quando è separata da associazioni più benigne e accoppiata con un oggetto qualunque che sia terribile in se stesso, capace di accrescere quel terrore fino all’estremo…”
Melville continua con esempi di creature in cui il bianco provoca all’uomo sensazioni di panico. L’orso polare e lo squalo bianco, ad esempio: “…cos’altro se non la loro bianchezza candida e fioccosa li rende quegli orrori ultraterreni che sono? È quella bianchezza spettrale che impartisce una bonarietà così orrenda…Tanto che nemmeno la tigre con le sue zanne feroci, avvolta nel suo mantello araldico, può scalzare a un uomo il suo coraggio meglio dell’orso e del pescecane dal bianco sudario”.
Ma anche esempi di visione magica, se non mistica, come l’albatros: “…là, gettato sul boccaporto di maestra, vidi un che di regale, di piumato, di bianchezza immacolata, e con un sublime, arcuato, rostro romano. A tratti inarcava le grandi ali d’arcangelo come per abbracciare qualche sacro tabernacolo… Attraverso i suoi occhi strani, inesprimibili, mi pareva d’intravedere segreti che avvolgevano lo stesso Dio. Mi chinai come Abramo davanti agli angeli; quella cosa bianca era tanto bianca, le sue ali tanto vaste, e in quelle acque solitarie in eterno io avevo perduto le memorie meschine e deformanti delle città e delle tradizioni…”
Il bianco albatros, in letteratura, viene raccontato varie volte, a iniziare da Rime of an Ancient Mariner, poema di Coleridge. Qui troviamo un albatros che segue la nave su cui è imbarcato il marinaio che dà il titolo al poema; l’albatros è considerato presagio di buona fortuna per via del suo colore bianco ed è salutato e quasi venerato da tutto l’equipaggio, finché il marinaio non impugna la balestra e lo uccide con una freccia. Il marinaio non sa il perché del suo gesto e nessuno lo saprà mai: Coleridge non ce lo spiega. Credo che il peccato del marinaio, in quanto indotto inconsapevolmente dal Fato, sia il classico peccato di hýbris, dal greco antico.
Lo hýbris è un accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e le proprie forze: chi osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei”. Per quanto incolpevole giuridicamente, il marinaio non lo è religiosamente, perché il peccato di hýbris, dal punto di vista della divinità, è il peggior tipo di peccato e va punito severamente. In seguito all’assassinio dell’albatros la nave verrà perseguitata dalla sfortuna e tutti i compagni del marinaio moriranno, tutti tranne lui che dovrà convivere col senso di colpa e la maledizione del sopravvissuto.
La storia dell’albatros e del marinaio ricorda quella di Parsifal e del cigno. Parsifal, il “puro folle”, uccide un cigno selvatico con una freccia del suo arco nel lago dei cavalieri del Graal. Nemmeno Parsifal, proprio come il marinaio di Coleridge, sa realmente spiegare il perché di quell’assassinio, e i cavalieri del Graal considerano il suo gesto sacrilego, motivo per cui lo cacciano via dalla loro terra, così come in Coleridge l’equipaggio della nave tratta con rabbia sempre maggiore il marinaio per aver ucciso l’albatros, dopo avergli appeso al collo il cadavere del povero uccello, come fosse un crocifisso, perché sia chiaro a tutti l’orrore innaturale della sua colpa. Eppure è proprio in seguito alle morti dei due uccelli bianchi che il marinaio e Parsifal riusciranno a raggiungere obiettivi spiritualmente alti.
CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI: Parsifal, di Rogelio De Egusquiza y Barrena, Museo del Prado
In entrambi i casi il bianco è simbolo di trasmutazione, di creatura che sacrifica se stessa per un bene superiore, quindi simbolo cristico. Ma ciò nonostante, anche in questi due poemi la purezza del bianco ha la sua piccola parte ambigua: dopo la morte dell’albatros e dell’equipaggio della nave, il bianco dell’uccello si trasferisce nell’occhio del marinaio, che Coleridge definisce “glittering eye”, ovvero occhio abbagliante, dotato di poteri magici. “Glittering”, un po’ come lo “Shining” di Stephen King.
Ovviamente anche Parsifal eredita dal cigno la magia del
bianco, visto che riceve una sorta di rivelazione e, di conseguenza, riesce
facilmente a ridurre in cenere i suoi nemici nel giardino delle fanciulle
fiore.
Tornando a Melville, per lui l’ambiguità del bianco è proprio una medaglia con due facce opposte e complementari:
“Ma ci sono altri casi in cui la bianchezza perde completamente quella strana aggiunta di sublimità che l’informa nel cavallo bianco e nell’albatro. In un uomo albino, cosa c’è che ripugna in modo così particolare e spesso offende l’occhio, tanto che a volte egli è aborrito da amici e familiari? È la bianchezza che lo fascia e che si esprime nel nome che porta. L’albino non è meno ben fatto degli altri, non ha alcuna sostanziale deformità, eppure basta quella bianchezza che lo copre tutto a renderlo, chi sa perché, più orribile del più orrendo aborto. Come spiegarlo?”
Moby Dick è un romanzo del 1851, ma ancora oggi, a quasi 170 anni di distanza, in buona parte dell’Africa australe e soprattutto in Tanzania – dove gli albini sono particolarmente numerosi, a causa di un’anomalia genetica – tutti li considerano esseri maligni. Ma, allo stesso tempo, i loro arti, i loro organi sono considerati degli incredibili portafortuna; infatti, così come ci sono i cacciatori di frodo di elefanti, che uccidono per estirpargli le zanne di bianco avorio, esistono anche i cacciatori di albini, che vengono massacrati affinché parti del loro bianco corpo siano fatte a pezzi e mescolate in un calderone dagli stregoni, per poi essere trasformate in amuleti da rivendere alla popolazione locale a carissimo prezzo.
CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI: Copertine di Moby Dick di Melville
Cos’è, quindi, che trasforma il colore bianco in una calamita col suo campo magnetico, che attrae l’uomo, in un modo o nell’altro, come se fosse fatto di ferro? E soprattutto, mi domando come riesca ad essere sia simbolo di purezza e misticismo quanto di un genere di magia che non sempre vorremmo conoscere, e che se a volte è benigna e ha il volto di una fatina delicata, molto più spesso evoca quello spettro mostruoso che ci portiamo sempre dietro, narcotizzato, ma pronto a svegliarsi e mostrarsi a noi.
Ecco come Melville affronta la questione: “Forse, con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della Via Lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato?”
E se si parla di assenza di colore, di colore inesistente, non si può non citare il meraviglioso “The colour out of space”, racconto capolavoro di Lovecraft fra l’horror e la fantascienza, dove il colore rappresenta il nemico, il mostro, l’entità senza corpo né forma che ci assale nella nostra parte più vulnerabile, che è poi la natura, a cui siamo attaccati tramite cordone ombelicale, poiché, come feti, per vivere dipendiamo da lei. È il racconto di un crollo, di una cascata trofica che non ha nulla di scientifico e quindi inizialmente imprevedibile, ma che ben presto metterà in evidenza, passo dopo passo, la nostra essenza inerme, fragile e facilmente penetrabile e che porterà, irreversibilmente, ad una fine nota:
“…Sugli alberi di tutti i frutteti apparvero boccioli dai colori strani…I colori, era quella la vera follia. Tranne nell’erba e nel fogliame, i colori di una natura sana erano deviati da variazioni prismatiche, impossibili, su tutte un unico, malato tono dominante completamente estraneo a qualsiasi altra tinta conosciuta sulla terra… A luglio, la donna aveva cessato di esprimersi a parole, muovendosi a carponi. Prima della fine del mese, Nahum divenne ossessionato da una nozione delirante: che, nella tenebra, sua moglie emettesse una sorta di vaga luminescenza. La medesima luminescenza che ora poteva notare nella vegetazione tutta attorno.”
È chiaro che nel racconto di Lovecraft il colore che viene dallo spazio è solo il messaggio, o se vogliamo il biglietto da visita di qualcosa di molto più profondo e agghiacciante che non riusciamo a conoscere anche se sappiamo che è proprio intorno e dentro di noi. Infatti non solo il bianco, ma ogni tinta della natura, dalla pittura di un quadro meraviglioso alle sfumature di un tramonto, dai colori più vivaci di fiori e farfalle fino ai colori tenui e pastello di nuvole, laghi e fiumi, ogni singolo colore non appartiene alla sostanza su cui ci sembra di vederlo.
Grazie a Newton sappiamo che il colore non è inerente agli oggetti, mentre è la superficie degli oggetti a riflettere alcuni colori e ad assorbire tutti gli altri. Noi percepiamo esclusivamente i colori riflessi. Se guardiamo una fragola, il rosso non è “nella” fragola, ma la superficie della fragola riflette le lunghezze d’onda che vediamo come rosso e assorbe tutto il resto. Un oggetto appare bianco, invece, quando riflette tutte le lunghezze d’onda. E questo Melville lo sa bene:
“Sicché tutta questa Natura deificata non fa che dipingersi proprio come una puttana che copra di vezzi il carnaio che ha dentro. E andando ancora oltre, ricordiamo che il cosmetico misterioso che produce tutte le tinte del mondo, il gran principio della luce, rimane sempre in se stesso bianco e incolore…Quando riflettiamo su tutto questo, l’universo paralizzato ci sta davanti come un lebbroso…”
Ed ecco, forse, perché il fascino del bianco ci nutre e allo stesso tempo ci consuma. Ecco cosa si acquatta di ambiguo nell’idea più profonda di questo colore. Ecco perché simboleggia gioia, innocenza e nobiltà così come terrore e disgusto. Il bianco è la sola fotocopia del nulla, quel nulla da cui veniamo e a cui un giorno torneremo. Perché, che piaccia oppure no, il grande vuoto, il grande nulla, è l’unico vero genitore che, dopo averci messi al mondo, sarà sempre lì ad aspettare il nostro ritorno.
CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI: PHOTO BY JASON POHLMAN
A
volte mi pongo domande bizzarre. Ad esempio: che cos’ha questa parola, Capitano, che in epoca di invasivi
vocaboli inglesi come brand, start up, spoiler, cashback dovrebbe apparire così
antica, stantia e noiosa, ma, inaspettatamente riesce ad attrarre la gente come
il miele attira gli orsi?
Il sostantivo Capitano, in contesto militare, significa colui che guida una forza armata sul campo, mentre in ambito marittimo – che poi resta l’ambito privilegiato del termine – rappresenta il comandante di barche, vascelli, navi, sia militari che mercantili. Da lì, per estensione, Capitano è anche l’appellativo che si dà a chi guida un’azienda, una squadra sportiva, una formazione politica, ma in tutti questi casi è un titolo che viene assegnato dal popolo: solo i più amati vengono definiti “Capitano”, e una volta diventati Capitano lo rimangono per sempre. Pensiamo a Totti, che non gioca più nella Roma ma i tifosi romanisti continuano, tutti, a chiamarlo e considerarlo, ufficialmente, “Il Capitano”. Oppure, allontanandoci di molto, pensiamo a quella montagna californiana, una sorta di enorme e meraviglioso monolite granitico, “El Capitan”, su cui alcuni amano rischiare la vita in free-climbing.
DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: EL CAPITAN, YOSEMITE
DI CAPITANI, BALENE E MAMBA
Parlando di politica, invece, è sufficiente pensare al comizio di Salvini a Pontida del 15 settembre 2019, fra i leghisti della vecchia guardia, arrivati in massa dalle everglades del lombardo-veneto e dalle ricche e noiose cittadine del profondo nord. Fra urla xenofobe, cazzotti a un reporter di Repubblica e ostentazione di croci e rosari come nemmeno Madonna ai tempi di “Like a virgin”, un giornalista si fa largo fino a domandare a un’anziana come riescano, lei e gli altri leghisti della prima ora, a mandare giù la nuova Lega che ha rinunciato alla secessione prima, al federalismo poi, per andare a cercare voti al sud, in mezzo a quei terroni che loro odiano da sempre.
“È
stata dura, non posso negarlo – ha risposto lei – ma per il nostro Capitano si
fa questo e altro…”
Il Nostro Capitano. Questo è amore. Senza se e senza ma. Lo stesso Berlusconi, che ha governato per circa un’era geologica, è stato chiamato in tanti modi: con quel ridicolo “Cavaliere”, con quell’ambiguo “Presidente” fino allo sprezzante Bunga Bunga usato dai giornalisti stranieri; nessuno, però, l’ha mai chiamato Capitano. No, Capitanosi usa solo con chi si ama, e questo dovrebbe far riflettere tutti quelli che, invece, Salvini non lo amano affatto e vorrebbero evitare di ritrovarlo, nei prossimi mesi, premier in un governo di iperdestra. A prescindere dalla sua sconfitta personale alle elezioni regionali in Emilia Romagna, perché non è necessario aver letto Sun-Tzu per sapere che perdere una battaglia non significa perdere la guerra.
Che Capitano è Salvini?
Per iniziare, ecco qualcosa su cui riflettere: che genere di Capitano è Matteo Salvini?Sicuramente gli piacerebbe considerarsi un “Capitano coraggioso”, ma non può, perché il “Captain Corageous” da cui Kipling ha preso il titolo del suo famoso libro era una donna, Mary Ambree, le cui gesta furono cantate in un’antica ballata inglese, che Thomas Pierce raccolse e fece pubblicare a metà settecento:
DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: MARY AMBREE IN BATTAGLIA
“Then Captain Courageous, whom death could not daunt,
Had roundly besiegéd the city of Gaunt,
And manly they marched by two and by three,And foremost in battle was Mary Ambree“
Il Capitano Coraggioso, che la morte non poteva spaventare, aveva assediato strettamente la città di Gaunt, marciarono soprattutto in gruppi di due o di tre, e la prima in battaglia fu Mary Ambree.
Non temere la morte, per gli elettori di Salvini, potrebbe essere una retorica perfetta (l’inno di battaglia dei franchisti, nella guerra civile spagnola, era “Viva la Muerte!”), ma identificare il loro Capitano con una “Mary”, proprio no. Fosse anche una Mary in stile Marvel…
Forse, allora, il Matteo nazionale potrebbe vedersi come il “O Captain! My Captain!” di cui ci parla Walt Whitman in una delle sue poesie più famose, inclusa nella sua raccolta Leaves of Grass del 1867:
“O Captain! My Captain! rise up and hear the bells; Rise up—for you the flag is flung—for you the bugle trills; For you bouquets and ribbon’d wreaths—for you the shores a-crowding; For you they call, the swaying mass, their eager faces turning; Here captain! dear father! This arm beneath your head; It is some dream that on the deck, You’ve fallen cold and dead “
O Capitano! mio Capitano! Alzati e ascolta le campane; risorgi — per te è issata la bandiera — per te squillano le trombe, per te fiori e ghirlande ornate di nastri — per te le coste affollate, per te le grida, la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi; ecco Capitano! amato padre! questo braccio sotto il tuo capo; dev’essere una specie di incubo se sul ponte sei caduto freddo e morto.
Certo, trattandosi di un Capitano morto, Salvini toccherebbe ferro, o altro. Ma trombe, bandiere, fiori, la massa di gente che grida il tuo nome, sono tutte cose che ogni politico vorrebbe per sé. Ma anche qui c’è un problema: questa poesia è stata scritta da Whitman dopo l’assassinio di Abraham Lincoln, è un’elegia in suo onore, e quindi il Capitano, Mio Capitano è l’uomo “colpevole” di aver abolito la schiavitù negli Stati Uniti d’America, di aver dichiarato che bianchi e neri hanno gli stessi diritti e condannato l’economia degli stati confederati – all’epoca interamente basata sul lavoro degli schiavi – ad un faticoso e costoso mutamento, obtorto collo.
Quindi
no, non credo che il leader della Lega, nonché grande amico di Casa Pound e
affini, potrebbe mai identificarsi col Presidente Lincoln.
ABRAHAM LINCOLN
Achab-Salvini
Invece, un Capitano a cui, di sicuro, Salvini non vorrebbe paragonarsi, è il Capitano più famoso della storia della letteratura mondiale, Achab. Ma, secondo me, al contrario degli altri capitani citati fino ad ora, Achab è l’unico a cui Salvini potrebbe assomigliare, almeno in parte. Non certo esternamente, perché Achab, fin dalla sua prima entrata in scena, mostra al lettore, già nel suo aspetto, tutta la sua distanza dalla normalità: ha una grande cicatrice in faccia e gli manca una gamba. Salvini, invece, da questo punto di vista, cerca di mostrarsi il più normale possibile: né magro né grasso, volto anonimo, né bello né brutto, con gli stessi capelli e la stessa barba che, al momento, portano la maggioranza degli uomini fra i 25 e i 45 anni.
Tornando a Melville, solo quando la nave raggiunge il mare aperto il Capitano Achab rivela ai marinai che l’unico vero fine del viaggio è uccidere Moby Dick. Ed è qui che la pericolosità di Achab affiora dirompente,perché in pochi attimi riesce a convincere l’intera ciurma, a eccezione del secondo ufficiale Starbuck, che cercare, inseguire e distruggere un’unica balena sia la cosa giusta da fare, contro ogni buon senso e contro ogni ragionamento di carattere economico. Tutti vittime della sua stessa ossessione.
Ed ecco dove l’identità dei due “capitani” si avvicina fino a toccarsi: nella propensione ad ottenere consenso, nella capacità di mostrare lucciole per lanterne e nell’eccezionale talento di comunicare il proprio odio trasformato in paura agli altri, come fosse il contagio di una malattia devastante. Che odio e paura siano rivolti a balene bianche o a migranti neri poco importa.
DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: Matteo Salvini e Mamba verdi
D’altra parte immagino non siano pochi quelli che, ricordando il Salvini da Papeete che balla e canta con le cubiste, siano tentati dal pensare a lui come al capitano de “La Bamba”, popolarissima canzone messicana:
Para bailar La Bamba
se necessita una poca de gracia
Yo no soy marinero,
soy capitan soy capitan, soy capitan
Che lui non sia un semplice marinaio, questo ormai è chiaro a tutti, ma se lo considerassimo un capitano da operetta faremmo un grosso torto a noi stessi e un grosso favore a lui. Perché è così che l’amato capo dei leghisti vuole che si pensi alla sua persona, come a un simpatico capitano da spiaggia; allo stesso modo in cui i mamba verdi, serpenti arboricoli, cercano di sembrare innocui ramoscelli.