CHE COSA VUOL DIRE PER TE ESSERE DONNA?

“Che cosa vuol dire per te Essere Donna?” è una domanda da porre tanto alle donne quanto agli uomini. La storia della Donna si può riassumere facilmente: negli ultimi millenni la Donna è stata considerata alla stregua di un animale, di una pecora che finché produce lana e latte può essere tollerata, e proprio come un animale, fino a poco fa non ha avuto alcun diritto. Nonostante l’angolo buio e punitivo in cui è stata relegata, la Donna, piano piano, come le formiche che portano con estrema fatica piccoli pezzi di cibo al formicaio, briciole, pezzetti di foglie, di fungo, di insetti morti, tutte cose che pesano più di chi le trasporta sulla schiena, è riuscita a portare nel suo “formicaio segreto” nuove leggi, nuovi accessi alla vita pubblica, alla società, nuovi riconoscimenti, che, sempre con estrema lentezza, hanno creato un piccolo buco nel muro di gomma del patriarcato.

E grazie a quel buco, che col tempo si è allargato, gli obiettivi conquistati dalle donne sono stati grandi, ma il percorso verso la parità è ancora lungo.

Che cosa vuol dire per te essere Donna? Donne discriminate e/o umilite

Che cosa vuol dire per te essere Donna?

Purtroppo la cosa peggiore che ancora manca a noi donne è la connessione con noi stesse. Ci hanno insegnato che l’uomo deve sempre mostrare forza e superiorità e la donna deve sempre essere condiscendente, conciliante, disponibile, docile: questo non ha portato niente di buono né all’uomo né alla donna. Sono tante le donne che emulano il potere maschile per farsi strada in campi come la politica: cipiglio sempre più incazzato, pugno di ferro, vecchi mantra ormai fuori dalla storia urlati a loop, tipo “Dio patria famiglia”, oppure, donne semplicemente finte, manipolatrici, pronte a mostrare la vera faccia solo quando ti stanno pugnalando alla schiena (ecco due esempi di quelle che io chiamo Donne-uomo).

Così come sono tante le donne che trovano lavori importanti e molto ben retribuiti succhiando il sangue dell’uomo, in quanto mogli, figlie o amanti di uomini di potere (le classiche Donne-vampiro). E allo stesso tempo sono molte le donne che vivono chiuse e perse dentro a realtà orribili, e non credono più che esista una via di fuga (loro sono le Donne-vittima).

In questo biblio-trip incontreremo tanti tipi di Donna, brevi immagini prese dal teatro, da libri, da lettere, da serie tv, tramite monologhi, dialoghi, riflessioni. Ognuna può rappresentare una delle tante risposte alla domanda da mille risposte: “Che cosa vuol dire per te essere donna?”

Donne e Lupi

Che cosa vuol dire per te essere Donna? Donne e Lupi

“I lupi sani e le donne sane hanno in comune talune caratteristiche psichiche: sensibilità acuta, spirito giocoso, e grande devozione. Lupi e donne sono affini per natura, sono curiosi di sapere e possiedono grande forza e resistenza. Sono profondamente intuitivi e si occupano intensamente dei loro piccoli, del compagno, del gruppo. Sono esperti nell’arte di adattarsi a circostanze sempre mutevoli; sono fieri e molto coraggiosi. Eppure le due specie sono state entrambe perseguitate, tormentate e falsamente accusate di essere voraci ed erratiche, tremendamente aggressive, di valore ben inferiore a quello dei loro detrattori. Sono state il bersaglio di coloro che vorrebbero ripulire non soltanto i territori selvaggi ma anche i luoghi selvaggi della psiche, soffocando l’istintuale al punto da non lasciarne traccia. La rapacità nei confronti dei lupi e delle donne da parte di coloro che non sanno comprenderli è incredibilmente simile.”

(da "Donne che corrono coi lupi" di Clarissa Pinkola Estès)

La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio

“La mia notte è senza luna. La mia notte ha grandi occhi che guardano fissi una luce grigia che filtra dalle finestre. La mia notte piange e il cuscino diventa umido e freddo. La mia notte è lunga e sembra tesa verso una fine incerta. La mia notte mi precipita nella tua assenza. Ti cerco, cerco il tuo corpo immenso vicino al mio, il tuo respiro, il tuo odore. La mia notte mi risponde: vuoto; la mia notte mi dà freddo e solitudine.

Cerco un punto di contatto: la tua pelle. Dove sei? Dove sei?

Mi giro da tutte le parti, il cuscino umido, la mia guancia vi si appiccica, i capelli bagnati contro le tempie. Non è possibile che tu non sia qui.

La mia mente vaga, i miei pensieri vanno, vengono e si affollano, il mio corpo non può comprendere.

Il mio corpo ti vorrebbe.

Il mio corpo, quest’area mutilata, vorrebbe per un attimo dimenticarsi nel tuo calore, il mio corpo reclama qualche ora di serenità.

La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio.”

(da una lettera di Frida Kahlo a Diego Rivera)

Che cosa vuol dire per te essere Donna? Clitennestra

he cos vuol dire per te essere Donna? Clitennestra uccide Agamennone
Clitennestra uccide Agamennone

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano – Clitennestra, superba.

Clitennestra:

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scrupoli a smentirle. Come può, uno, tramando ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio, sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi. Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

Coro:

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

Clitennestra:

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano, autrice di vendetta. Questi i fatti.                                                                                                                                     

Coro str. I:

Regina, che tossico frutto della zolla inghiottisti, che filtro stillato dall’onda salmastra per commettere l’assassinio? Per spezzare, troncare l’imprecazione che sale dal paese? Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio ti schiaccerà la tua gente.

Clitennestra:

 Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un tardivo equilibrio di mente.

Coro ant. I:

Sei spavalda di cuore e alzi la voce arrogante. Delira il tuo spirito per il cruento colpo di fortuna. Ombra fosca di sangue – la vedo – ti scintilla negli occhi. Hai vuoto d’amore, intorno: devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

Clitennestra:

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura…

(da “Agamennone” di Eschilo)

Dimmi cosa cazzo fare, Padre

“Fleabag” serie TV

“Qualcuno che mi dica cosa indossare ogni mattina.

Voglio qualcuno che mi dica cosa mangiare, cosa amare, cosa odiare, per cosa arrabbiarmi, cosa ascoltare, quale band seguire, quali biglietti comprare, su cosa scherzare, su cosa non scherzare. Voglio che qualcuno mi dica in cosa credere, per chi votare, chi amare e come dirglielo.

Io voglio che qualcuno mi dica come devo vivere la mia vita, perché finora ho sbagliato tutto.

Per questo molti cercano persone come te nella vita.

Perché tu dici loro come vivere.

Dici loro cosa fare e cosa otterranno alla fine.

E anche se non credo alle tue stronzate, e so che scientificamente niente di ciò che farò, farà la differenza, ho paura lo stesso! Perché ho paura lo stesso?

Quindi dimmi cosa fare. Dimmi cosa cazzo fare, Padre.”

(da Fleabag, serie TV britannica)

Che cosa vuol dire per te essere Donna?La Marchesa de Merteuil

“Le Relazioni Pericolose”

“Non avevo scelta, sono una donna. Le donne sono obbligate ad essere molto più abili degli uomini. Potete guastarci la reputazione e la vita solo con poche parole ben scelte, quindi è chiaro che io non ho dovuto inventare solo me stessa , ma espedienti  di fuga cui nessuno aveva mai pensato e ci sono riuscita perché   io ho sempre saputo di essere nata per dominare il vostro sesso e per vendicare il mio.”

“Si, ma in che modo mi domando”

“Quando feci l’ingresso in società avevo 15 anni e io già sapevo che il ruolo a cui ero condannata, vale dire stare zitta e obbedire ciecamente, mi dava l’opportunità ideale di ascoltare e osservare, non quello che mi dicevano che non era di alcun interesse, ma tutto quello che la gente cercava di nascondere ed ho esercitato il distacco. Imparai a sembrare allegra mentre sotto la tavola mi piantavo la forchetta nel palmo della mano e finii per diventare una virtuosa nell’inganno.

Non era il piacere che cercavo, era la conoscenza e consultavo i più rigidi moralisti per la scienza dell’apparire, i filosofi per sapere cosa pensare e i romanzieri per capire come cavarmela. E alla fine io ho distillato il tutto in un principio meravigliosamente semplice: VINCERE o MORIRE.”

“Così siete infallibile, vero?”

“Se io voglio un uomo è già mio, se ha qualcosa da dire, si accorge che non può e tutta la storia è qui.”

(da film tratto da "Le Relazioni Pericolose" di Laclos)

Dondolala via

“Dondolo” monologo di Samuel Beckett interpretato da Piera degli Esposti

Fate buon viaggio

“Certo che è faticoso essere una donna. Paure, vincoli, imperativo del silenzio, richiami a un ordine che ha fatto il suo tempo, tripudio di limitazioni imbecilli e sterili. Sempre delle estranee, a sobbarcarsi il lavoro sporco e fornire la materia prima tenendo il profilo basso…Ma in confronto a quello che significa essere un uomo sembra un gioco da ragazzi… Perché alla fin fine non siamo noi le più terrorizzate, e neanche le più disarmate o impedite.

 Il sesso della sopportazione, del coraggio, della resistenza è sempre stato il nostro.

Non che abbiamo avuto scelta, sia chiaro.

Il coraggio vero. Confrontarsi con ciò che è nuovo. Possibile. Migliore. Crisi del lavoro?

Crisi della famiglia? Buone notizie.

Che automaticamente rimettono in discussione la virilità. Altra buona notizia. Ne abbiamo fin sopra i capelli di queste stronzate.

Il femminismo è una rivoluzione, non una riorganizzazione delle indicazioni di marketing, non una vaga promozione della fellatio o dello scambismo, non si tratta soltanto di migliorare gli stipendi integrativi. Il femminismo è un’avventura collettiva, per le donne, per gli uomini e per gli altri. Una rivoluzione, ben avviata. Una visione del mondo, una scelta. Non si tratta di opporre i piccoli vantaggi delle donne alle piccole conquiste degli uomini, ma di far saltare tutto.

E con questo, ciao ragazze, fate buon viaggio…”

(da King Kong Theory, libro di Virginie Despentes)

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

ESSERE HOMO SAPIENS

Homo Sapiens in Africa Paleolitico medio

Cosa significa essere Homo sapiens? Leggendo un qualsiasi libro di storia non vediamo altro che guerre e sopraffazioni compiute dalla nostra specie. Molti di noi hanno un cervello dotato di buone capacità, ad esempio siamo in grado di imparare senza difficoltà ogni materia (ciò che chiamiamo “studio”), a volte abbiamo una scintilla di qualcosa che assomiglia alla visionarietà, che permette alla nostra immaginazione di oltrepassare la barriera del sogno e trasformare in realtà quello che inizialmente era solo una vaga idea.

Migliaia e migliaia di anni fa scoprimmo come ingabbiare il fuoco e come utilizzarlo in cento modi diversi che avrebbero reso più facile e confortevole la nostra vita. Oggi, tutto quello che abbiamo scoperto da un certo momento in poi lo chiamiamo “tecnologia”. La cosa strana, però, è che la tecnologia, pur avendo fatto passi da gigante in ogni campo, mentre rendeva la vita di alcuni (non di tutti) più confortevole, contemporaneamente rendeva il nostro pianeta invivibile: invivibile da un punto di vista ambientale e da un punto di vista sociale. Cambiamenti climatici con uragani, alluvioni, allagamenti, siccità, frane, picchi di caldo e di gelo mai raggiunti prima; e poi guerre continue e sanguinose e abissi di diseguaglianza economica. Aver messo il fuoco in gabbia con tutto ciò che ne è conseguito, ci ha portato quindi dal vivere nelle grotte a correre sul bordo di uno scosceso dirupo. Nel corso di settantamila anni siamo diventati dei “blade runner”.

Genere e Specie

Essere Homo sapiens: Psnthera tigris
Panthera Tigris

Il perché di questo triste destino credo sia iscritto – senza se e senza ma – nei geni che rappresentano la nostra specie. Se in uno dei piatti della bilancia troviamo intelligenza, curiosità, capacità di adattamento, visionarietà, nell’altro piatto si accalcano avidità, egoismo, falsità, voglia di conquista, di possesso, ferocia, volontà di potenza.

Ricordiamo che gli organismi viventi vengono denominati con un doppio nome in latino, dove la prima parte rappresenta il “genere” e la seconda la “specie”. Tutte le specie che si sono evolute da un antenato comune vengono raggruppate sotto un unico genere (dal latino genus). Leoni, tigri, leopardi e giaguari sono specie differenti, ma fanno tutte parte del genere Panthera, e quindi sono parenti fra loro. Per quanto riguarda la specie, però, la tigre (Panthera tigris), ad esempio, appartiene a una specie, detta tigris, che definisce esclusivamente le tigri.  

Per chi fosse rimasto indietro in questo ambito di conoscenze, devo specificare che la cosiddetta specie sapiens sapiens viene al massimo considerata una sottospecie del sapiens. Non una nuova e diversa specie e ormai è una classificazione che non viene quasi più usata. Le ultime generazioni di scienziati e le ultime tecniche di comparazione fra genomi antichi e moderni ci hanno portato a poter dire con certezza che il cosiddetto sapiens sapiens è solo un Homo sapiens più recente, e quindi non una specie a sé.

Essere Homo sapiens: Le domande di Yuval Noah Harari

Tornando all’Homo sapiens, per capire meglio come la specie sapiens sia riuscita ad impadronirsi del pianeta, ricorrerò a Yuval Noah Harari, storico israeliano giovane ma già molto famoso e tradotto in 30 lingue. Il lavoro di Harari è stato, con libri e articoli, principalmente quello di dare risposta a domande specifiche e originali, oltre che fondamentali, del tipo: “Qual è il rapporto tra storia e biologia? Qual è la differenza essenziale tra l’Homo sapiens e gli altri animali? Esiste la giustizia nella storia? La storia ha una direzione? La gente è diventata più felice man mano che la storia si è sviluppata?”

Yuval Noah Harari

Ecco una rapida cronologia secondo Harari dello sviluppo contemporaneo del nostro mondo e della nostra specie, Homo sapiens.

Da “Sapiens” di Harari:

“13,5 miliardi bt (before today, prima di oggi): Appaiono materia ed energia. Inizio della fisica. Appaiono atomi e molecole. Inizio della chimica.

4,5 miliardi bt: Formazione del pianeta Terra.

3,8 miliardi bt: Comparsa degli organismi. Inizio della biologia.

6 milioni bt: Ultima progenitrice comune di umani e scimpanzé.

2,8 milioni bt: Evoluzione del genere Homo in Africa. Primi utensili di pietra.

2 milioni bt: Gli homo (che chiameremo anche umani) si diffondono dall’Africa all’Eurasia. Evoluzione di specie umane diverse.

500.000 bt: I Neanderthal si evolvono in Europa e nel Medio Oriente.

300.000 bt: Uso quotidiano del fuoco.

200.000 bt: L’Homo sapiens si evolve nell’Africa Orientale.

70.000 bt: Rivoluzione cognitiva. Emergere del linguaggio e della capacità di creare finzioni. Inizio della storia. I sapiens si diffondono fuori dell’Africa.

45.000 bt: i sapiens si stabiliscono in Australia.  Estinzione della megafauna australiana.

30.000 bt: Estinzione degli Homo Neanderthal.

16.000 bt: I Sapiens si stabiliscono nel continente americano. Estinzione della megafauna americana. 13.000 bt: Estinzione dell’Homo floresiensis. L’Homo sapiens è l’unica specie umana rimasta.

12.000 bt: Rivoluzione agricola. Domesticazione delle piante e degli animali. Insediamenti permanenti.

5000 bt: Primi regni, prime forme di scrittura e di moneta. Religioni politeiste.

4250 bt: Il primo impero: l’impero accadico di Sargon.

3000 bt: Invenzione della coniatura, una moneta universale. L’impero persiano: un ordine politico universale “a beneficio di tutti gli umani”.

2000 bt: Impero degli Han in Cina. Impero romano nel Mediterraneo. Cristianesimo.

1400 bt: Islam.

500 bt: Rivoluzione scientifica. L’umanità ammette la propria ignoranza e comincia ad acquisire un potere senza precedenti. Gli europei cominciano a conquistare l’America e gli oceani. Unificazione della storia del pianeta. Ascesa del capitalismo.

200 bt: Rivoluzione industriale. Le famiglie e le comunità sono sostituite dallo stato e dal mercato. Estinzione di animali e piante su grande scala.

Oggi: “Gli uomini trascendono i limiti del pianeta Terra. Le armi atomiche minacciano la sopravvivenza dell’umanità. Gli organismi sono sempre più modellati dalla progettazione intelligente più che dalla selezione naturale. “

Homo sapiens e Homo di Neanderthal, agli antipodi anche se simili

Essere Homo sapiens: ricostruzione facciale di bambina sapiens
Bambina sapiens in una ricostruzione facciale compiuta dagli esperti del laboratorio Daynes di Parigi

Purtroppo, già da questa breve cronologia, risulta evidente come ci sia poco da essere orgogliosi nell’appartenere a questa specie, che con assoluta mancanza di umiltà si è autodenominata “sapiens”. Una specie che, senza alcun motivo, ha compiuto un vero e proprio genocidio nei confronti di tutte le altre   specie di genere Homo, fra cui l’Homo di Neanderthal, così simile ai sapiens – a prescindere da carattere e finalità – tanto che le due specie si sono incrociate fra di loro a lungo.

Ricostruzione in laboratorio di giovane donna Neanderthal

Essere Homo sapiens: il genio di Philip K.Dick

Il rapporto fra Neanderthal e Homo sapiens torna in diversi libri, scritti soprattutto fra gli anni ‘50 e ‘60. Ne citerò tre che più hanno a che vedere, secondo me, col nostro articolo, oltre ad essere bellissimi libri che consiglio di leggere. Indimenticabile la fantascienza di Philip K. Dick in “Svegliatevi dormienti” (scritto nei primi anni 60) che ci racconta un pianeta Terra, ormai allo stremo per l’iper-sfruttamento di ogni sua risorsa e per la sovrappopolazione, che nel tentativo di trovare un pianeta in cui far emigrare buona parte della specie umana si imbatte in una sorta di Terra bis, un mondo parallelo e alternativo al nostro dove però gli Homo Neanderthal hanno avuto la meglio sui Sapiens, utilizzando una filosofia trasformata anche in tecnologia basata su capacità extrasensoriali e restando fedele alla loro natura docile e mai aggressiva.

Essere homo sapiens: Philip K.Dick

Da “Svegliatevi dormienti”:

“Dopotutto, le scoperte archeologiche in Palestina provavano che l’Homo Sapiens e il Neanderthal si erano già mescolati decine di migliaia di anni prima. E la cosa evidentemente non era stata dannosa; la varietà genetica dell’Homo Sapiens aveva assunto il dominio. «Ne riportano uno indietro» disse Bohegian. «L’hanno già fatto salire a bordo dell’aviogetto, a quel che dicono nei bagni in fondo al corridoio. E sono in contatto linguistico con lui. Un dirigente mi ha appena riferito che è docile. Muore di paura.» «Vorrei ben vedere» commentò Cravelli. «Probabilmente si ricordano di averci conosciuti nel loro passato, di averci eliminati.» Proprio come noi abbiamo eliminato loro nel nostro mondo, pensò. Spazzandoli via definitivamente. «E adesso siamo tornati» disse. «Gli sembrerà una sorta di magia nera: fantasmi che riemergono dopo centomila anni, dalla loro Età della Pietra. Gesù, che situazione!»

“Prese Jim per la spalla e lo allontanò di prepotenza dal gruppo, spingendolo sul bordo della strada. «Ascolta» riprese. «Dammi una definizione di essere umano. Dai, definiscimi l’uomo.» Fissandolo, Jim esclamò, «Che cosa?» «Definisci l’uomo! Va bene, lo faccio io. L’uomo è un animale in grado di costruire utensili. Bene, e che cosa sono tutti questi oggetti – per esempio quel carro e quel cappello e il pacco e la tunica? Per non parlare della nave e dell’aliante con il compressore a turbina? Utensili. Tutti, in senso lato. E sai come rendono quella maledetta creatura seduta alla barra del suo carro? Te lo dico io: la rendono umana, ecco cosa… Voglio dire, mio dio, che ha persino costruito delle strade. E…» Sal fremeva di rabbia «… è riuscito pure ad abbattere il nostro satellite Q.B.!» «Senti,» disse Jim stancamente «non è questo il momento…» «Questo è il solo momento. Dobbiamo uscire da qui. Tornare indietro e dimenticare quel che abbiamo visto.» Ma ovviamente, come Sal ben sapeva, non c’era speranza.”

Beati i mansueti?

L’altro libro, “Uomini nudi” di William Golding (Premio Nobel per la letteratura, famoso soprattutto per il suo capolavoro “Il Signore delle mosche” diventato una vera icona, come potrebbe essere 1984 di Orwell ) scritto nel lontano 1955 e poi in italiano rinominato “Il destino degli eredi” racconta una storia avvenuta nel mondo primordiale, quando la guerra non avrebbe avuto motivo di esistere, e nemmeno di essere immaginata, dal momento che c’era ancora spazio, terra, acqua, cibo, territorio più che in abbondanza per tutti. Il titolo originale “The Inheritors”, che significa “Gli eredi” trae origine dal Vangelo, là dove dice «Beati i mansueti, perché erediteranno la Terra». La storia narra l’incontro fatale tra una piccola comunità di neanderthaliani e i più aggressivi sapiens. Gli eredi della Terra, però, non saranno i pacifici Neanderthal, con il loro linguaggio per immagini, a tratti onirico, fatto di metafore, comparazioni, capace di “nominare” il mondo. L’uomo ha appena iniziato il proprio cammino, eppure il Paradiso è già, definitivamente, perduto.

Gruppo di Neanderthal ricreati al computer

Infine c’è il libro di Robert J. Sawyer “La genesi della specie”, titolo originale “Hominids” pubblicato nel 2002. Questo libro molto interessante, fra la paleobiologia e la filosofia tratta proprio dell’argomento che cerchiamo di esprimere in questo articolo. Basta leggere la citazione che Sawyer ha scelto come esergo per il suo libro, da “Il maschio feroce: le scimmie e le origini della violenza umana” di RICHARD WRANGHAM e DALE PETERSON:

“Il messaggio che ci arriva dalla vita nelle foreste australi è che non doveva andare così, che sulla terra c’è posto anche per specie animali con tratti morali innati che, ironicamente, ci piace chiamare ‘umani’: rispetto per i propri simili, equilibrio individuale, ripudio della violenza quale soluzione delle conflittualità. La presenza di queste caratteristiche nei bonobo suggerisce implicitamente come sarebbe potuto essere l’Homo sapiens se la storia dell’evoluzione avesse avuto un corso lievemente diverso.”

Essere Homo sapiens: chi vince le guerre?

Negli ultimi giorni mi è capitato di vedere una mini-serie, su Netflix, “Half-bad” di genere fantasy e verso la fine c’era un breve dialogo che mi è sembrato piuttosto istruttivo:

“Pensavo che alla fine, le guerre le vincessero i buoni” dice uno dei personaggi.

“E invece chi è che le vince?” gli chiede un altro.

“A vincerle sono i mostri”

Immagino che sia assolutamente vero. Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, o al bombardamento su Dresda, città aperta, con centotrentacinquemila civili morti in una notte. Pensiamo all’uranio impoverito lanciato sui Balcani come fossero missili pieni di coriandoli. Se non sono state azioni da mostri queste non so proprio quali possano esserlo.

Avremmo potuto creare un mondo più felice, privo di diseguaglianze, un mondo dove la specie sapiens non pretendesse di essere padrona di tutto ciò che la circonda, a iniziare dagli altri animali e dalla terra su cui poggia i piedi. Ma, come nella favoletta della rana e dello scorpione, la colpa, forse, è solo della nostra  natura e dell’Universo che ce l’ha fornita: noi vogliamo scalare la montagna della conoscenza, la cui cima è irraggiungibile, ma vogliamo anche sopraffare, invadere, imporci con qualsiasi mezzo – che sia arte o distruzione non fa differenza – perchè, alla fine, desideriamo possedere, in ogni modo e senza controllo.

Essere Homo sapiens: progetto Gilgamesh

Epopea di Gilgamesh, Frammento di tavoletta in argilla n.11, storia del Diluvio

L’ultima cosa che l’Homo sapiens desidera possedere più di tutto non è il controllo sul cosmo, come si potrebbe pensare, ma l’immortalità. Sembra ridicolo, ma ci sono diversi studi in atto, proprio in questo istante, dove laboratori, scienziati brillanti e cifre enormi di soldi vengono utilizzati esclusivamente per raggiungere la tanto sospirata immortalità. Forse il più famoso, ma di sicuro non il più avanzato, è il Progetto Gilgamesh. Il nome lo prese dall’antichissima epopea di Gilgamesh, sumera, la cui scrittura iniziale, in alfabeto cuneiforme, risale al III millennio avanti Cristo. Prima della Bibbia e prima di Omero, quindi. Gilgamesh è alla ricerca della vita eterna, e finalmente la trova in una rarissima pianta acquatica; ma una volta trovata si addormenta lasciando la preziosa pianta incustodita. Un serpente la mangia e subito ridiventa giovane, perdendo la pelle. In questo modo abbiamo la spiegazione leggendaria della muta della pelle del serpente e del suo rinnovarsi, cosa che all’uomo non è permessa.

L’epopea di Gilgamesh, quindi, fra le tante cose ci insegna che la vita eterna non può appartenere all’uomo, ma a distanza di almeno cinquemila anni l’Homo Sapiens ancora non si vuole dare per vinto. Ancora è lì, alla ricerca della pianta magica. Quello che i sapiens potrebbero fare, invece, è cercare di non invecchiare troppo il pianeta su cui viviamo, cambiando subito e senza deroghe il modo di vivere di gran parte della popolazione mondiale, perché anche se riuscissero ad allungare ancora di più la vita umana non sarebbe molto piacevole essere quasi immortali in un mondo che – a causa nostra – è in agonia attendendo la morte.

A cosa ci porterà essere Homo sapiens?

Purtroppo non credo che questa sia una storia con una bella fine. Basta guardarsi intorno e vedere l’eccitazione che sale nei nostri fratelli sapiens alla sola idea di farcire di armi l’Ucraina ma di abbandonare alla sua sorte, ad esempio, la Siria, che sta in guerra da 12 anni per colpa dell’occidente. Il tutto senza un filo di senso, senza una sillaba di raziocinio. Addirittura li vedi parlare di armi nucleari, tranquillamente, come si parlasse di noccioline. Per non parlare dei cambiamenti climatici che fino a pochissimi anni fa, venivano considerati sciocchezze dai nostri politici e adesso massacrano la Terra. La cementificazione, l’inquinamento, il fossile, la distruzione dei territori, tutto ci sta tornando indietro come un boomerang fatale ma nessun governo nel mondo è pronto a muovere un dito per provare a migliorare le cose.

Tranne pochi ragazzi come quelli di Ultima generazione in Italia e loro omologhi esteri, non vedo vie di fuga. Purtroppo la fine è nota.

“Ma perché mi hai punto? – dice la rana allo scorpione – adesso moriremo tutti e due, io avvelenata e tu affogando…”

“Non posso farci niente – risponde lo scorpione – è la mia natura”.

Narcisi e Narcisisti

Per parlare di Narcisi e Narcisisti partiamo dal narciso, che è una pianta bulbosa mediterranea, con più di 50 variazioni solo in natura, senza considerare gli ibridi creati dall’uomo, diffusa in tutta l’Europa e oltre. Esiste perfino un narciso cinese importato secoli fa dai preti portoghesi. Di sicuro è una pianta piena di fascino, dai colori prevalentemente gialli e bianchi, e la corolla delicatamente piegata sullo stelo. La sua prerogativa, oltre alla bellezza, è il profumo. Il suo nome viene dal greco νάρκη, narke, che significa torpore, irrigidimento, sonno. Da questo etimo deriva anche “narcotico” e nel caso del narciso molti sostengono che la motivazione del nome dipenda dal profumo così forte da essere considerato inebriante come un narcotico. Ma io credo che – senza nulla togliere al profumo meraviglioso – il vero narcotico risieda in un alcaloide, la narcisina, che rende foglie e bulbi del narciso molto velenosi e in certi casi quel veleno può essere mortale. Di sicuro questa unione fra bellezza e morte, fra Eros e Thanatos, ha reso il narciso degno di uno dei più bei miti greci e classici che ci sono stati tramandati.

Narcisi e Narcisisti: bulbi di narciso giallo
Bulbi di narciso giallo

Il Mito di Narciso raccontato da Ovidio

Nelle Metamorfosi Ovidio ci racconta di Narciso, ragazzo bellissimo, figlio di un fiume, Cefiso e di una ninfa dell’oceano, Liriope. La bellezza di Narciso attirava il desiderio di donne, uomini e ninfe, e, in pratica, di chiunque lo vedesse, come in una sorta di attrazione fatale, ma lui non era interessato all’amore e passava il suo tempo in solitudine, cacciando. Poi la ninfa Eco si innamorò follemente di lui.

Narcisi e Narcisisti: Narciso, di Gyula Benczur
Narciso, di Gyula Benczur, olio su tela, 1881

Eco era stata condannata da Giunone a dover ripetere l’ultima sillaba di ogni parola detta dagli altri, come punizione per aver distratto la dea con lunghi racconti, per dare il tempo a Zeus di amoreggiare con altre ninfe. Narciso respinse il suo amore, ed Eco, disperata, si nascose nei boschi continuando a ripetere il nome dell’amato e smise di nutrirsi fino a perdere il corpo e a diventare solo voce. Allora intervenne Nemesi, dea della giustizia e della vendetta, e per vendicare Eco fece sì che Narciso si innamorasse di se stesso, guardando la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua. Non riuscendo a toccare né a comunicare in nessun modo con la creatura irraggiungibile immersa nell’acqua Narciso si lasciò andare alla disperazione, proprio come Eco, e si lasciò morire di fronte a se stesso.

Narcisi e Narcisisti: Caravaggio, Narciso alla fonte
Caravaggio, Narciso alla fonte, olio su tela, 1597

Il suo corpo fu trasformato nel bellissimo fiore che abita gli ambienti umidi, vicino agli stagni, e che sembra piegare la testa verso il basso, come a specchiarsi, e che prenderà proprio il nome di Narciso.

Da questo mito nasce un termine oggi molto moderno, che spesso diventa patologia, estremamente diffusa ai nostri giorni: il narcisismo, che, di base, consiste nell’impossibilità di accogliere l’altro da sé e nella fissazione sulla propria immagine.

Il termine “narcisismo”

Il termine “narcisismo”, che deriva esplicitamente dal mito di Narciso, indica l’atteggiamento psicologico di chi si interessa esclusivamente a se stesso, al proprio fisico, alle proprie capacità e qualità, e che fa della propria persona oggetto di ammirazione e compiacimento, disinteressandosi del tutto degli altri e delle loro opere. In questo senso il narcisismo è la malattia della nostra società, del terzo millennio dopo Cristo, una vera pandemia molto più grave di quello che potrebbe sembrare. Infatti non esistono vaccini né medicine per questa patologia, che di fatto sta trasformando il mondo in un’orribile arena di combattimento, dove ognuno combatte per se stesso e tutti contro tutti. Senza che ci sia neanche uno che capisca che le condizioni del nostro mondo sotto ogni punto di vista: ambientale, sociale, demografico, per non parlare di diritti civili e della tirannide del denaro (unico amico del narcisista) tirannide che ha ucciso ogni speranza di democrazia, tutto questo non si può cambiare se non siamo realmente uniti.

Narcissus Poeticus
Narcissus Poeticus

Non c’è Covid né malattia che possa competere. Quando arriveremo all’Apocalisse, la Rivelazione* avrà, fra gli altri, sicuramente anche il volto di Narciso.

*Apocalisse deriva dal greco apokálypsis (ἀποκάλυψις), composto da apó (ἀπό, “da”, usato come prefissoide anche in apostrofo, apogeo, apostasia) e kalýptō (καλύπτω, “nascondo”), significa togliere il velo, letteralmente scoperta o disvelamento, quindi Rivelazione.

Narcisi e Narcisisti: vita da narcisista

Il narcisista vive se stesso come fosse il centro dell’Universo e utilizza gli altri solo per soddisfare le esigenze del suo ego smisurato. Questo mega ego potrebbe far pensare che il narcisista sia una persona coraggiosa e convinta delle proprie azioni, mentre in realtà è molto insicuro. La sua insicurezza fa sì che finisca col considerare il parere degli altri su di sé qualcosa di importantissimo, e ovviamente non è capace di accettare e nemmeno affrontare critiche, anche se critiche esposte con gentilezza da persone vicine, persone che più volte gli hanno dimostrato affetto e solidarietà. Ma lui non conosce amore, empatia e nemmeno gratitudine, e per ogni fallimento della sua vita è sempre pronto a cercare qualcuno – amico, parente, collega – a cui accollare la colpa.

Ripete continuamente, come in un mantra, che lui ha sempre ragione, che lui è superlativo in tutto quello che fa, senza accorgersi che questo insensato ripetere lo rende ridicolo o addirittura patetico. Per tornare al mito, l’immagine di Narciso che si piega su se stesso per cercare di raggiungere la figura che vede nel laghetto, fa pensare – senza alcun dubbio – al modo di dire “ripiegarsi su se stessi” o “ripiegarsi sul proprio ombelico” che è molto utilizzato ai nostri giorni per definire persone, o gruppi di persone, a volte perfino partiti politici che non sono interessati ad uscire dalla visione di se stessi e non vengono mai neanche sfiorati da quelli che sono i bisogni, gli interessi, le necessità di buona parte del resto degli esseri umani.

Il narcisismo come patologia

Il narcisismo diviene una condizione patologica quando l’individuo rimane ‘bloccato’ all’interno del mito, senza possibilità di crescere, evolversi in modo sia produttivo che creativo con gli altri. Il processo che investe Narciso è il contrario di un’evoluzione naturale che non può rimanere immobile ma ha invece bisogno di piccoli o grandi cambiamenti, di quello che – mutuato dal linguaggio informatico – definiremmo “patch” per potersi evolvere e crescere.

L’Ego del narcisista, invece, percepisce solo se stesso, è privo di filiazioni e parentele e mira a mantenere solo relazioni fusionali. Cosa sono, dunque, le relazioni fusionali? Le relazioni possono essere definite fusionali quando due persone sono intrecciate l’una all’altra fino a fondersi e a creare una gran confusione nelle specifiche posizioni, che siano relazionali (la madre che diventa grande amica della figlia, ad esempio) o nei loro ruoli (il padre che chiede al figlio di proteggerlo) o nelle rispettive identità (ammirare un’amica fino ad imitarla in modo inquietante).

Narcisi intorno a un lago

Per capire come questo disturbo cresce e diventa patologico bisogna inquadrare il rapporto madre-bambino nella sua evoluzione, dall’iniziale fase fusionale-simbiotica alla relazione adulta, che non può essere altro che una progressiva separazione dal corpo materno. Normalmente, il bambino si rispecchia all’inizio nella madre, cosa che, più tardi, gli permetterà di separarsi da lei e crescere autonomamente. Se invece la madre è assente, o non ha il minimo istinto materno, o – non in pochi casi, purtroppo – è sadica e gode nell’abuso del proprio figlio bambino, la sola compensazione che il bimbo riesce a trovare è sostituire l’immagine della madre con l’immagine riflessa del proprio corpo. Questa sostituzione impedisce il processo di crescita senza il quale nessun frutto arriva alla maturazione e nessun essere umano può raggiungere l’identità adulta. Non sarà mai in grado di avere una percezione di sé che gli permetta di relazionarsi realmente al mondo esterno invece che solo a se stesso.

Narcisi e Narcisisti. Narcisi nel giardino di casa.
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Narcisi e Narcisisti: Narcisismo e Social Media

Una spinta ulteriore e molto forte allo sviluppo del narcisismo in quanto malattia della società l’hanno data i Social Media. Nati come strumento per socializzare anche con chi abita in altre città o nazioni, o per conversare su argomenti specifici con persone che mai ti capiterebbe di conoscere, sono diventati, rapidamente, il mezzo migliore per trasportarci tutti di fronte a quel laghetto e narrare la meraviglia di ciò che vediamo ma non riusciamo ad afferrare. Ci sono vari soggetti affetti da “social-narcisismo” ma voglio citare solo quelli che reputo i peggiori: persone piene di soldi che raccontano i loro viaggi “fantastici” conditi da stupide foto o i loro mesi trascorsi in una delle tante ville che possiedono, senza provare vergogna, senza pensare che fra i tanti “amici” ci sono persone che non hanno i soldi né per i viaggi né per le ville, o peggio, senza pensare che, in quella stessa acqua, a poche miglia da dove fanno il bagno in qualche luogo meraviglioso dell’estremo sud Italia, c’è gente che sta affogando, o sta disperatamente cercando di raggiungere un sogno che, per citare Scott Fitzgerald, è sempre stato alle loro spalle.

Narcisi e Narcisisti: Narciso di Gerard Van Kkuijl  1645
Narciso di Gerard Van Kuijl, olio su tela, 1645

Inoltre, una delle tante cose negative dei cosiddetti “Social” (che forse sarebbe più giusto chiamare Asocial) è che molta gente dopo un po’ diventa irritata o irritabile, si sfoga con rabbia, cattiveria, mostra   la propria ignoranza – anche qui senza vergogna – e aggredisce persone sconosciute o perfino vecchi amici dell’Era Pre-Social come se fosse in missione per conto delle Erinni. Per non parlare di quelli che leccano i piedi ai potenti e maltrattano i deboli. O quelli che ti usano quando gli fa comodo e poi spariscono. O anche quelli che guardano il tuo numero di “amici” o di “followers” e in base a quello giudicano. Il tutto è di una tristezza infinita, senza parole.

Guardarsi nel laghetto senza nemmeno essere innamorati di quello che vedi non fa differenza: ugualmente ci morirai dentro perché quella visione, bella o orribile che ti possa sembrare, è come il canto di una Sirena. Non puoi resistere al canto delle Sirene, e quando ti tuffi, loro ti sbranano. Buona fortuna, amici Narcisisti.

SLEEPWALKING E I MISTERI DI LUCY ASCHERS

sleepwalking lucy
Copertina del libro di Meg Wolitzer

Sleepwalker è un bel romanzo del 1985, scritto da Meg Wolitzer, in realtà meno minimalista – a mio parere – rispetto agli altri libri americani pubblicati nel medesimo periodo da giovani autori che ottennero subito un enorme successo: Less than zero e The rules of attraction di Bret Easton Ellis, Bright lights, Big city e Ransom di Jay Mc Inerney o quelli, ancora più minimal, come The lost language of cranes di David Leavitt, solo per citare i più famosi. In Sleepwalker ci sono diversi personaggi che incontriamo nel corso di vari periodi; le tre “Lady Death” studentesse di lingua inglese all’Università, così chiamate perché ognuna è innamorata di una poetessa che ha visto nella morte la sola via d’uscita da un mondo cui non sentiva di appartenere. Le tre poetesse sono Sylvia Plath, Anne Sexton e una biblio-poetessa fictional, creata da Meg Wolitzer: suicida a soli 24 anni, Lucy Ascher. Lucy dovrebbe essere la protagonista “fantasma” del libro, ma in verità Meg ci parla molto poco di lei. Più che parlarci della breve vita di Lucy decide di parlarci del prima e del dopo; il prima sono i genitori, Helen e Ray, di cui ci racconta molto: da quando si sono conosciuti al fidanzamento, al matrimonio, alla nascita di Lucy, unica figlia, e come sono riusciti, soprattutto alla grande forza di Helen, ad andare avanti dopo la morte di Lucy. Il dopo è Claire, la Lady-Death ammaliata dagli scritti di Lucy, ormai morta da anni. Pur di stare vicino a tutto ciò che le fa pensare e comprendere meglio Lucy, Claire riesce addirittura, con un trucchetto, ad abbandonare l’Università e a farsi assumere dagli Aschers – del tutto ignari – come cameriera. Altri personaggi su cui Wolitzer si sofferma sono Julian, il ragazzo innamoratissimo di Claire, che con estrema fatica cerca di riportarla a casa e agli studi facendole abbandonare casa Aschers. Poi le altre due lady-death, Naomi e Laura, e con eguale importanza, a parer mio, l’autrice ci parla delle spiagge, dei cestini, le panchine, i paesaggi, le villette graziose ma molto simili l’un l’altra, ci racconta di quegli ambienti middle-class, ma sempre un po’ malinconici e solitari delle aree poco distanti da New York. Di Lucy, volutamente, non sappiamo quasi nulla. Iniziamo a conoscerla quando ha già 12 anni e Meg si comporta nei suoi confronti quasi come avesse firmato una clausola su qualche contratto che le impedisca di farci sapere chi era – almeno in parte – Lucy Aschers e perché fosse così attratta dalla morte fin da adolescente.

Meg Wolitzer

Lucy Upgrade

Ho deciso di fare una prova, quindi, una sorta di laboratorio davvero “eretico”. Non so se la mia idea piacerebbe a Meg Wolitzer, ma immagino che non lo leggerà mai e quindi mi sento più sollevata. L’idea è quella di riprendere in mano il diario di Lucy “Sleepwalking”, con poesie, aforismi, perfino disegni che Lucy aveva creato nel corso di tanti anni e che Lucy avrebbe voluto tenere sempre e solo per se stessa. Dopo la sua morte i genitori l’avevano ritrovato e portato per un parere all’editore che aveva già pubblicato alcune poesie di Lucy. Si erano inaspettatamente ritrovati di fronte a una pubblicazione immediata che aveva venduto un gran numero di copie e reso Lucy famosa nella galassia degli artisti dell’epoca. So bene che il mistero in cui Meg avvolge la vita e la mente di Lucy per lei è voluto: ci racconta di una bambina di dodici anni che si rifiuta di parlare e che ritroviamo a 24 anni, suicida in un fiume. Oltre a questo, solo poche parole qua e là. Avevo la necessità di conoscere molto meglio la mente di Lucy, che percepivo parzialmente simile alla mia. Ho provato quindi ad entrare nell’animo di Lucy e possederlo, laddove la mancanza di notizie su Lucy bambina o giovane donna erano come grossi buchi nel terreno che andavano riempiti per la sicurezza di tutti. In ogni caso la mia narrazione non è mai in controtendenza con la vera Lucy creata da Meg ed è un lavoro che ho fatto con cervello, fantasia e amore. Se in qualche modo Meg dovesse riuscire a leggerlo, sperò proprio che mi perdonerà!

DEDICATO A MEG WOLITZER

Il romanzo Sleepwalking è di Meg Wolitzer.

Tutte le poesie sono di Sandra Azzaroni

I versi dell’Eneide, IV libro, sono di Virgilio. Quelli in italiano sono – ahimé – tradotti dalla sottoscritta

Tutte le parti in corsivo sono scritte da autori che vengono sempre indicati

Tutte le parti scritte non in corsivo sono mie.

Sleepwalking film ma non tratto da questo libro

Sleepwalking e i misteri di Lucy Aschers – Quando Lucy perse le parole (da Sleepwalking di Meg Wolitzer)

L’estate in cui Lucy Ascher smise di parlare, l’estate in cui le parole smisero di venir fuori, lei amava il pianto e i sussurri dei bambini nella notte. Ascoltava con attenzione, così come un cantante d’opera ascolterebbe un’aria difficile: sbigottita da quegli strambi suoni della gola che non riusciva ad emettere. Attorno a lei c’era rumore – bambini che soffocavano sullo scheletro di brutti sogni, la ragazza a un muro di distanza che urlava “Cazzo! Cazzo! Cazzo!” per tutta la notte.

Lei aveva perso la sua capacità di parlare; così, semplicemente. Dieci anni più tardi uscì con un uomo, Richard, la cui madre aveva avuto un ictus e ogni volta che il telefono suonava, lei diceva:” Per favore qualcuno può rispondere al campanile?” “Telefono” si era perso da qualche parte nella zona collassata della sua mente – perso per sempre, come un guanto o una scarpa. Perso, ma inesplicabilmente rimpiazzato, e questa era la differenza fra loro. Lucy non riusciva a rimpiazzare le sue parole. “C’era una conchiglia premuta nel mio orecchio, a tempo indefinito e il suono del mare mi terrorizzava. Io avevo dodici anni e un mattino mia madre mi trovò curva nella mia stanza, in ritardo per scuola, tremante. “Lucy – mi disse, mentre si asciugava le mani su uno strofinaccio – stai male, tesoro?” Ma io non potevo risponderle, quel rumore era troppo forte. Provai ad aprire la bocca come un patetico uccello appena uscito dall’uovo – la aprivo e la chiudevo, annaspando in cerca d’aria, annaspando in cerca di parole.”

“The Somnambulist” quadro di John Everett Millais

A 12 anni Lucy finì in una clinica psichiatrica (in parte da Sleepwalking)

Il tizio che si avvicinò al suo letto aveva un’aria molto sfacciata. Questa fu la prima cosa che notò Lucy. Non aveva camici quindi non era né un medico né un infermiere. Poteva avere trentacinque anni, aveva un bell’aspetto. Lucy spalancò gli occhi cercando di capire cosa voleva quell’uomo da lei.

“Io sono Reuben Levin. Tu sei quella che non parla, giusto?” Lui rise gentilmente. “Fa pensare a quegli orribili indovinelli che ti chiedono di capire quale uomo è il bugiardo. ‘A’ dice che non è il bugiardo. ‘B’ dice che A sta mentendo eccetera. Tu devi immaginare quale è l’uomo. Quindi io immagino che tu non mi rispondi o perché semplicemente non vuoi o perché davvero sei quella che non parla. Ho sentito un po’ di infermieri parlare di te, sempre che sia davvero te.”

Nella Terapia Occupazionale I bambini infilavano maccheroncini in lacci da collo, e Lucy iniziò ad apprezzare quel ritmo, il suono di un pezzo sopra un altro. Qualcuno si lamentava sul tavolo, una bambina di nove anni che aveva cercato di impiccarsi con una corda da salto nella sua camera a casa. Adesso era seduta senza aiuto, pasta cruda e pezzi di glitter sparpagliati di fronte a lei e mai toccati. Lucy guardò in alto e vide che Levin, in piedi accanto alla porta, la stava guardando. Anche Beverly, la terapista occupazionale, lo notò. “Salve, Mr. Levin,” disse “Posso fare qualcosa per lei? Vuole un altro laccio?” “No,” disse lui, una punta di sarcasmo nella sua voce “Ho ancora miglia* da fare. Sono venuto per chiacchierare con Lucy Ascher, se è possibile.” Beverly guardò dubbiosa, ma alla fine acconsentì che l’uomo potesse entrare per un pochino.

ancora miglia* da una famosa poesia di Robert FrostE molte miglia” dove dice “ma ho promesse da mantenere

e miglia da percorrere, prima di dormire,

e miglia da percorrere, prima di dormire.

The Sleepwalkers, film del 2016

Levin raccontò a Lucy che era un matematico, e risolvere enigmi matematici per lui era la vita stessa. Anche per Lucy  era così con le poesie e la scrittura in genere. Avrebbe voluto dirglielo ma le parole non le uscivano. Però riuscì a sorridere, con gli occhi sempre spalancati, e quando Levin vide che la bambina sorrideva scoppiò a ridere anche lui. Risero insieme, di cuore, senza un motivo al mondo, per alcuni minuti. Lucy pensò che avrebbe voluto prenderlo per mano e andare via con lui.

“Addio, ragazza senza parole – disse alla fine Levin – domani torno a trovarti.”

Lucy si sentì avvampare e pensò: “Saro’ mica innamorata? No, l’amore no. L’amore ti incastra, ti spalanca le porte dell’inferno. L’amore è peggio di una lama affilata nel fegato. E poi lui è un adulto, non mi lascerebbero mai andare via con lui.

Bisogna resistere alla vita. Bisogna resistere all’amore, ribadì a se stessa Lucy, ovviamente dentro di sé ma più e più volte.

Allora tirò fuori il suo diario dove, quando lo trovarono dopo morta, perfino Helen e Ray scoprirono qualcosa di difficilmente immaginabile: Lucy amava scrivere poesie e sonetti in italiano, lingua che parlava benissimo. La madre di Helen, italiana, era tornata in Italia quando il marito americano era morto, e da allora non si era più allontanata volentieri dall’Italia, ma tutti gli anni, d’estate, Lucy la raggiungeva per uno o due mesi, e invece di nuotare e prender sole, studiava la lingua italiana e i tanti modi di fare poesie in italiano. Quello che soprattutto l’incantava erano i sonetti italiani, così diversi dai sonetti inglesi e molto più complessi. Come uccellini nati in gabbie fatte di metrica e rime, li osservava con ansia in attesa di sentire i primi cinguettii.

Tutto il suo diario era scritto in parte in inglese in parte in italiano. In quel momento, soffocando per il dolore di un probabile amore sicuramente impossibile, prese la penna e scrisse il sonetto che un giorno avrebbe dato il titolo al suo libro, nonostante non fosse intenzionata a farlo mai leggere a nessuno.

Sleepwalking (sonetto italiano, abba, abba, cde, edc)

La notte ingoia tetti e sassi scuri

Onde di vento strozzano la terra

Dentro al silenzio il suono non ti afferra

Fulmini, tuoni, eco di tamburi

C’era una volta un letto fra due muri

Dove sognavo mostri sottoterra

Lingue in cantina e fuoco nella serra

Ragazzi color ambra e sessi duri

Ma il mio fantasma piange insieme al lupo

La luna è morta il cielo è ormai ghiacciato

Ora cammino sempre ad occhi chiusi

E i miei pensieri non son più confusi

Vivo nel sogno che mi ha attraversato

E che mi spinge in fondo a quel dirupo

Le parole escono

Levin sedette su uno degli alti, esili sgabelli. Levin indossava un costume da bagno marrone e Lucy notò quanto lunghe e slanciate fossero le sue gambe. “Non mi sono mai realmente presentato a te – disse lui – o almeno non in modo formale. Ti ho solo detto il mio nome, niente di più. Se fossimo in carcere, ti direi perché mi hanno arrestato, come ho visto fare in un famoso film sulla prigione. Ma qui non è poi così diverso, giusto? Voglio dire, tutti noi siamo qui per qualcosa. Comunque ti dirò che non sto pagando per questo. Si è scoperto che c’era tutto questo denaro da parte nell’università dove insegno – un fondo per aiutare i docenti della facoltà a pagare un’ospedalizzazione. L’ultima persona che ha usato quel denaro è stato tre anni fa. Cancro al colon. Lui ne ha usato solo il necessario per cinque settimane, e puoi praticamente immaginare il resto. Perciò io sto scontando la pena perché sono un disastro, perché chi tiene i conti ha puntato su di me – fece una pausa – immagino che suoni un po’ folle. Tu sei abbastanza giovane per capire di cosa sto parlando – quelle figure in cartone che tengono le mani alzate, e tu impari come sottrarre staccando le loro dita alle giunture, e poi impari come addizionare rimettendole al loro posto. Sono sicuro che le hai viste. Come un gioco accademico c’è un “omino dei conti” nel dipartimento di matematica della facoltà. La gente gli mette buffi cappelli o lo veste come una donna e gli mette un lampadario in testa e ci balla insieme al grande party di Natale e tutti ridono.”

Dead Asleep documentario by Hulu

Nel mio mondo muto anche i sogni erano senza voce – scrisse Lucy nel suo diario – popolati da personaggi che correvano intorno in silenzio e frenetici come i Keystone Kops. Un’infermiera mi ha acceso una luce negli occhi la scorsa notte, sbalzandomi via da uno di quei sogni. “Avevi i brividi” mi ha spiegato, tirandomi su la coperta fino alle spalle.”

Levin le aveva raccontato di questa nuova famiglia del Connecticut con un figlio. “Abbiamo una vita piuttosto buona” disse lui. “O almeno l’avevamo fino a poco fa. Jason ama il kindergarten, e Judith sembra piuttosto felice il più delle volte. Quella notte quando chiamò il mio amico Lew del dipartimento di matematica per farlo venire a parlare con me, penso che lei sapesse cosa stavo passando e che fosse davvero spaventata. Lei e Lew vennero nel mio studio, dove avevo agonizzato per dodici ore sui numeri, e Lew mi disse cosa stavo facendo a me stesso e che mi avrebbe aiutato. Disse che avrebbe coperto la mia lezione delle 9 in punto: al momento stavo insegnando gli “autovalori”, giusto?” Levin cercava di apparire superiore o comunque meno disturbato, e le sue parole vennero fuori più velocemente. “Judith mi chiese se mi serviva qualcosa per dormire, ed io dissi di sì, e lei mi diede qualcosa e poi tirò fuori il materasso dal divano-letto nello studio, perché non voleva che quella notte lasciassi la stanza. Questa è la parte orribile: tutto a un tratto Jason fece capolino attraverso la ringhiera delle scale; immagino che le voci l’abbiano svegliato, e Judith lo chiamò con voce davvero controllata: ‘Torna a letto, tesoro. Verrò subito a cantarti la nostra canzone sui mulini a vento.’ Allora mi resi conto che io non conoscevo quella canzone, e che ero stato un padre e marito negligente, e che mia moglie e mio figlio avevano un cameratismo che mi era ignoto. Fu come un’epifania o qualcosa di simile. Dopo questo monologo Levin si accasciò sul divano, con la testa china. Attraverso il vuoto del suo rumore continuo Lucy all’improvviso provò ciò che, in seguito, avrebbe considerato solo compassione. Lei non stava più ascoltando il distante e astratto piagnucolìo dei bambini; questo era un appello diretto. La sua empatia era a un tempo più forte e più impegnativa del dolore nella sua testa, e lei avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa. La sua lingua bloccò le parole, all’inizio, stoppandole nella gola. Lei provò di nuovo, aprendo la bocca lentamente, come se si potesse appiccicare. “Le cose andranno meglio,” disse, e le parole vennero fuori in modo disomogeneo, rauche, grattando l’una contro l’altra come gli ingranaggi in una bici arrugginita. Levin alzò la testa, sorpreso ma non del tutto sbigottito. “Tu hai davvero parlato, giusto?” le chiese. Sì, rispose lei, sì, sì, mentre la sua voce si schiariva e si rifiniva con ogni nuova parola.

“Immagino che sarebbe accaduto prima o poi” disse lui, e tirò le sue lunghe braccia e gambe accanto al suo corpo, e raccolse le sue lunghe braccia e gambe attaccate al suo corpo, ripiegandosi come una sedia “bridge”.

Il matematico incontrato da Lucy nel reparto di Psichiatria divenne il suo argomento principale. In fondo le aveva fatto ritrovare le parole come se avesse risolto uno dei suoi enigmi matematici con cui restava sveglio la notte. Lucy parlò non poco, in Sleepwalking, del matematico che incontrò nel reparto psichiatrico quando aveva 12 anni: “Quando lui ebbe il suo esaurimento nervoso, stava in piedi tutta la notte, lavorando su enigmi matematici. Non riusciva a lasciare la sua scrivania, lui doveva solo restare finché non li avesse risolti. Questa scena mi coinvolse e la trovai toccante. Era come se fossimo collegati, in qualche modo; voglio dire, io ho lo stesso genere di concentrazione che mi permette di stare seduta a studiare per un periodo di tempo veramente molto, molto lungo.

”Grazie – disse qualcuno in seguito – “per riprodurre (spawning) Lucy Ascher. Quando Lucy era ormai famosa e morta. Spawning, non era quella la parola di solito associata con pesce – del tipo: mamme pesce depositano centinaia di piccole creature traslucide, solo per mangiarne una parte dopo la nascita? In un momento di filosofia da quattro soldi Helen pensò che forse, tutti noi mangiamo i nostri figli. La gioia di ritrovare le proprie fattezze nel viso o in qualche parte del corpo del bambino. Il tuo naso. La mia bocca. Il bambino nasce con un set di vestiti usati…

Sleepwalking e i misteri di Lucy Aschers: Lucy ha ormai 17 anni e alcune riviste le pubblicano le prime poesie

Una delle prime poesie che le pubblicarono e fece un notevole scalpore, tanto da farle ottenere un’intervista in un canale TV dal target molto giovane, si chiamava “Di luce e gravità” che poi Lucy, per rendere il suo lavoro sempre più complicato, tradusse in italiano sul suo diario ancora segreto. Sulla frase “La luce è maschio perché ama stuprare” ci furono discussioni accese a cui Lucy non partecipò mai.

“Di luce e gravità” (versione in italiano)

“La luce è maschio, la luce è Imperatore

Di un Regno antico in via di distruzione   /di un Regno antico senza più un baluardo

La luce è bianca la luce è ogni colore

Confonde occhi, cervelli e inganna il cuore  /confonde il cielo e inganna ogni tuo sguardo

La luce è maschio perché ama stuprare

Penetra la materia con violenza

Cerca la gloria ed inni sull’altare

Mentre i suoi raggi vanno in dissolvenza

La gravità è femmina e perversa

E mentre cadi incontro alla sua voce

Attrae ogni corpo con la sua potenza

Ti mangia vivo e intanto ti seduce

Non c’è un ricordo che non sia di guerra

Femmina o maschio, luce o gravità

Chi stringe il nodo al collo della Terra?

Io sono sola nell’Oscurità”

Poi si iscrisse alla Barnard dove non rimase a lungo. Forse tre semestri, o meno, perché la didattica le sembrava “limitata”. Nell’anno che rimase lì accaddero comunque tre cose degne di esser citate: Lucy seguitò a studiare latino, che aveva già imparato in parte dalla nonna italiana, e nonostante il suo terrore per l’innamoramento, si mise con un ragazzo.

Riguardo all’Eneide ovviamente Lucy divorò il quarto canto, dove Didone disperata si uccide.

“(Aeneis, IV, v. 659-660)”

Dixit et os impressa toro “Moriemor inultae, sed moriamur – ait – sic sic iuvat ire sub umbras”

“Disse, e premendo le labbra sul letto: “Moriremo invendicate, ma moriamo – esclamò – così desidero discendere tra le ombre”

(IV, v. 700 – 705)

“Poi attraverso il cielo l’arcobaleno incontra piume rugiadose

Traendo mille colori vari dal sole

Discese e sulla sua testa si fermò

“Il mio comando è che questo reco sacro a Dite. Da questo tuo corpo io ti sciolgo.”

Disse così e con la destra staccò il capello; ed ecco che tutto il calore svanì, e la vita dileguò nei venti.”

La terza cosa è che finì all’ospedale con le vene dei polsi tagliate e la ripresero per  miracolo. Qual era il motivo, ammesso che ce ne fosse uno? Il ragazzo di cui si era innamorata e che l’aveva lasciata? Oppure il ragazzo che la amava, ma lei, per paura dei legami d’amore, aveva maltrattato e abbandonato? La madre corse per prima all’ospedale, dove la figlia di 18 anni piangeva rannicchiata nel letto e Helen non aveva idea, proprio non aveva idea di cosa fare o dire, tanto che dopo pochi minuti con una scusa si allontanò da lì, sentendosi malissimo, la madre peggiore del mondo. Eppure, continuando a sentirsi la madre peggiore del mondo, come era uscita dall’ospedale si era sentita meglio. Ma d’altra parte Helen, pur essendo una brava donna, di mente aperta, non aveva mai capito nulla della figlia, e la figlia, che fra le varie patologie aveva anche una sorta di autismo, io credo, non aveva mai avuto nessun interesse nel comprendere la madre.

Sleepwalking e i misteri di Lucy Aschers

Tornata dall’ospedale, Lucy scrisse una poesia sul ragazzo con cui era stata. Comunque fossero andate le cose, erano state abbastanza dolorose da trasformarle in poesia. Tutto il dolore che Lucy provava, fin da bambina, veniva sublimato in poesia, e questa era una cosa meravigliosa, ma più dal punto di vista dell’arte e poi anche di una certa fama, dei premi vinti, di qualche dollaro che guadagnava. Perché il dolore, poesia o non poesia, restava tutto lì, come un grosso blocco di marmo legato alle gambe che non ti permette il minimo movimento e ti fa soffrire sempre di più.

L’AMORE TI FINISCE (in italiano, per il suo diario privato: Lucy non avrebbe mai permesso che qualcuno pubblicasse questa poesia)

Perché l’amore ti strazia e ti finisce

Nel prato verde il tuo sangue svanisce

Come un papavero che al sole marcisce

Come lo riconosci un vero amore?

Può presentarsi in mille e cento modi

Ma ha frecce ed arco e spara sempre al cuore

Il mio ragazzo aveva la dolcezza di pesca, prugna e mandarino

Suonava il piano come un grande artista

Quando mi vide fece un sorriso da bambino

Io ero un’adolescente, il sesso sconosciuto

E un gioco immaginario l’innamoramento

Ma rapida come il vento imparai in un momento

A baciare, leccare e succhiare il suo velluto

All’Università iniziai a pubblicare

“Ma tu sei Lucy, quella delle poesie”

“O no, non le assomiglio affatto

È solo un caso di omonimia”

In tutta la mia storia che ha a che fare con l’amore

Così come la storia che ho avuto con la vita

Pochi attimi di gioia

E poi solo tristezza infinita

A volte torno indietro a quando non parlavo

E penso al matematico, che con lo stesso metodo

Che usava per gli enigmi risolse il mio e mi fece

Il dono del linguaggio

Ora vorrei stare con lui, sdraiati in fondo al mare

Abbracciati per sempre, lontani dai dolori, spezzati e rotolati dalle onde del villaggio.

Morte di Lucy

La Morte di Lucy (italiano, ultima pagina del diario Sleepwalking)

So già come sarà. So esattamente come sarà. Il ponte, silenzioso, scrostato, piccole onde d’acqua dolce e sporca che vanno avanti e poi tornano indietro, una vecchia costruzione di sassi per lo più bagnata, e una decina di metri più in giù l’acqua sarà mossa, scura, fredda, profonda. Prima di salire sul ponte mi riempirò le tasche del giubbotto di sassi: là intorno ce ne sono diversi, grossi, bianchi, grigi, tondi, pesanti. Certo, se avessi un’arma sarebbe la soluzione migliore, ma la morte nell’acqua credo abbia il suo perché. Virginia, il momento del salto, del tuffo, quell’ultimo respiro…

Queste le ultime parole di Lucy, senza un saluto ne una spiegazione. Io la immagino col suo solito giubbotto, i capelli sciolti e lunghi, raccogliere diligentemente i sassi e riempirsi le tasche e poi sedersi sulla ringhiera. Un ultimo respiro e magari quella frase dell’Eneide:

da questo tuo corpo io ti sciolgo”

Il romanzo Sleepwalking è di Meg Wolitzer.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Divoratori di tempo

 “Nel corridoio del tempo ci sono demoni, o forse animali. Vivono nello spazio, al di fuori del tempo, ma cercano sempre una via d’accesso. Sembrano gatti, grossi gatti blu, solo che invece di giocare coi topi giocano col tempo. E lo divorano”

da LEGION season 3

Time Eaters – Legion 3

Jean Paul Galibert, filosofo e scrittore francese ha scritto un saggio intitolato “I cronofagi. I 7 principi del capitalismo” (Stampa Alternativa, 2015). Nel suo saggio ci spiega come l’ipercapitalismo appaia, sempre di più, come un progetto di dominazione dell’insieme del mondo, facendo in modo che la redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non essere. Maestro nell’arte sottile di vendere il niente e il nulla al prezzo del reale, l’ipercapitalismo tenta la conquista dell’esistenza nella sua totalità. Galibert è stato il primo a definire la “cronofagìa” come uno dei princìpi dell’ipercapitalismo contemporaneo, in cui la risorsa scarsa, dopo il capitale, diventa il nostro tempo.

Divoratori di tempo: Cronofagìa di Davide Mazzocco

Partendo da questo breve ma illuminante saggio, il giornalista Davide Mazzocco ha scritto “Cronofagìa” (D Editore, 2019), dove spiega il suo intento fin dalle prime righe:                                              

La storia dell’umanità è contraddistinta da un insopprimibile istinto predatorio. Si tratta di una caratteristica che ci accomuna a un’infinità di specie animali che necessitano di cacciare per il proprio sostentamento. … Queste pagine, però non vogliono descrivere la predazione nella sua forma istintiva, perché questa è materia per psicologi ed etologi. Questo libro vuole, molto più semplicemente, mostrare le dinamiche, le strategie e le sovrastrutture con le quali i poteri politico ed economico depredano le masse del loro tempo.

Divoratori di tempo: Cronofagìa di Davide Mazzocco (d Editore)
Divoratori di tempo: Cronofagìa di Davide Mazzocco

Mazzocco, con una capacità rara di spiegare con parole semplici ciò che semplice non è, torna sul saggio di Galibert: l’ipercapitalismo è riuscito a fare in modo che lo sfruttamento del tempo libero possa apparire come la giusta ricompensa dello sfruttamento del lavoro. Infatti, tutti coloro che sono sfruttati al lavoro vorranno essere sfruttati come consumatori.

In pratica, quello compiuto dai cronofagi è una sorta di miracolo di riprogrammazione delle menti.

Divoratori di tempo: Naomi Klein e Marshall Mc Luhan

Già la giornalista e attivista canadese Naomi Klein, nel suo famosissimo libro “No Logo, pubblicato nel 2000, aveva previsto: i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come “merci” ma come concetti. Di conseguenza, le aziende che venderanno meglio saranno quelle capaci di infondere significato agli oggetti apponendovi semplicemente il proprio nome; la Apple, ad esempio, che è riuscita addirittura a rendere il suo creatore, Steve Jobs, alla stregua d’un guru. E andando ancora più indietro nel tempo, non possiamo evitare di far riferimento a Marshall Mc Luhan, anche lui canadese, sociologo, filosofo e professore, autore, negli anni ’60, della celebre teoria “Medium is the message”, mai rivelatasi tanto attuale quanto in questo periodo. Mc Luhan, da “Gli strumenti del comunicare”:

“Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.”

Chi controlla il presente controlla il passato: George Orwell “1984”

Come ricorda Mazzocco, per la propaganda il tempo è il presente eterno e indistinto dell’urgenza e dello schieramento. E per l’ipercapitalismo cronofago l’unico tempo utile è il tempo presente. La percezione della realtà è diventata praticamente la stessa di quella che il Grande Fratello di George Orwell in “1984” imponeva ai cittadini:

“Il partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston Smith, sapeva che appena quattro anni prima l’Oceania era stata alleata dell’Eurasia. Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla il passato” diceva lo slogan del partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”

Divoratori di tempo: George Orwell "1984"
George Orwell “1984”

Il regime immaginato da Orwell utilizzava il Ministero della Verità per negare il passato, per poi negare ciò che aveva negato e negare il tutto ancora e ancora e ancora, in una sorta di negazione in progress, senza fine. Attività fondamentale, per il potere economico e politico di quasi tutti i tempi, ma più che mai nel tempo attuale, in modo da non doversi mai assumere nessuna responsabilità. E grazie a questa damnatio memoriae: la causalità viene sostituita dalla casualità: ciò che è prevedibile (un ponte che crolla, un territorio che si allaga, un villaggio distrutto da un terremoto, migliaia di abitazioni contaminate dall’amianto) viene trasformato dalla retorica della politica e del mercato in un evento imprevedibile, frutto del caso, autonomi rispetto all’ordine cronologico degli eventi (da Mazzocco, “Cronofagìa”).

Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione

Per comprendere in che modo una esigua minoranza di popolazione riesca a tenere sotto scacco tutti gli altri, dobbiamo ancora ricorrere al capolavoro di Orwell:

“Il vero potere, il potere per il quale dobbiamo lottare notte e giorno, non è il potere sulle cose ma quello sugli uomini”. Si interruppe e per un attimo riprese quell’aria da maestro che interroga uno scolaro promettente: “Winston, come fa un uomo a esercitare il potere su un altro uomo?”

Winston rifletté: “Facendolo soffrire” rispose.

“Bravo, facendolo soffrire. Non è sufficiente che ci obbedisca. Se non soffre, come facciamo a essere certi che non obbedisca alla nostra volontà ma alla sua? Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione. Potere vuol dire ridurre la mente altrui in pezzi che poi rimetteremo insieme nella forma che più ci parrà opportuna. … Un mondo fatto di paura e tradimento, di tormento, un mondo nel quale si calpesta e si viene calpestati, un mondo che, nel perfezionarsi, diventerà sempre più spietato…”

… “Non so come e neanche m’importa, ma non riuscirete nel vostro intento. Qualcosa vi distruggerà. La vita vi sconfiggerà.”

“Noi, Winston, controlliamo la vita a tutti i suoi livelli. Tu immagini che esista qualcosa come la natura umana che si sentirebbe oltraggiata da quello che noi facciamo e che si ribellerà contro di noi. Ma siamo noi, a crearla, questa natura umana. Gli uomini possono essere manipolati in tutti i modi … Se è vero che sei un uomo, Winston, tu sei l’ultimo uomo. La tua specie si è estinta e noi ne siamo gli eredi. Non capisci che sei solo? Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti.”

Queste le parole del torturatore e potente nemico dello sfortunato eroe Winston Smith: la rappresentazione e personificazione del Potere, del Regime, l’uomo che fa torturare Winston non perché pensi che il ragazzo abbia qualcosa da rivelare (sa già tutto di Winston, forse anche più dello stesso Winston) ma solo perché Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.

I’ll stay home forever, where 2 and 2 always makes 5

La domanda che il torturatore continua a porre a Winston è “Quanto fa 2+2?” pretendendo che lui risponda “5”. Quando il povero Winston, stremato dalla tortura, risponde finalmente “5”, il torturatore non è ancora soddisfatto. Perché non basta che risponda che 2+2 fa 5: deve credere che 2+2 faccia 5.

I’ll stay home forever, where two and two always makes fivecantavano, non a caso, i Radiohead nell’album “Hail to the thief”, del 2003, più di diciassette anni fa, e da allora, l’ipercapitalismo ha davvero fatto passi da gigante: ormai non ha più bisogno di torturare, perché ha infine trovato il modo di far credere alla stragrande maggioranza della gente che due più due sia davvero equivalente a cinque.

2+2=5 Radiohead live 2009

Divoratori di tempo: Primo Step

E quindi come sono riusciti, negli ultimi venti anni, i nostri Masters and Commanders a farci fare quello che vogliono senza usare la forza in modo troppo evidente? Immagino siano partiti da un primo step: con buona pace delle battaglie per la riduzione dell’orario, iniziate nel lontano 1800, tutto è radicalmente cambiato con la grande crisi economica del 2008. L’improvvisa carenza di lavoro, i licenziamenti, le famiglie in mezzo a una strada, tutto questo ha fatto sì che, chi ancora detenesse un lavoro o chi fosse riuscito a trovarne uno, pur di tenerselo stretto, avrebbe finito con l’autocensurarsi: se il rischio è quello di accrescere la schiera di chi non è più in grado di pagare le bollette, meglio evitare di fare gli schizzinosi e quindi sì, lavorare il doppio per la stessa paga che prima avresti ricevuto per la metà del tempo.

Correre per restare fermi: Alice di Lewis Carroll nel giardino della Regina Rossa

 Nessun libro può farci capire questo concetto meglio di “Alice through the looking glass”, di Lewis Carroll, capolavoro assoluto e insuperabile:

Alice non riuscì mai a capire, ripensandoci in seguito, come avevano cominciato: ricordava solo che correvano tenendosi per mano, e la Regina andava così veloce che al massimo lei riusciva a tenerne il passo: e la Regina continuava a gridare: “Più svelta! Più svelta!”, ma Alice sentiva di non poter correre più di così, e le mancava perfino il fiato per dirlo.

… La Regina l’appoggiò contro un albero e disse in tono gentile: “Ora puoi riposarti un poco”.

Alice si guardò intorno molto sorpresa. “Ehi, ma secondo me siamo state tutto il tempo sotto quest’albero! È tutto esattamente come era prima!”

“Certo” disse la Regina “Perché, come dovrebbe essere?”

“Be’, al paese nostro” disse Alice, sempre con un po’ di fiatone “in genere si arriva in un altro posto… se si corre per tanto tempo come abbiamo fatto noi”.

“Che paese lento!” disse la Regina “Qui, invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio”.

Quindi, primo step: farci correre più che possiamo solo per restare fermi.

Divoratori di tempo: Alice corre per restare ferma con la Regina Rossa
Alice corre per restare ferma insieme alla Regina Rossa

Divoratori di tempo: Secondo Step

Secondo step: ricavare denaro anche – e soprattutto – dal nostro riposo, e rendere sempre meno libero il nostro tempo libero. Ma inconsapevolmente, si capisce: 2+2 deve sempre essere uguale a 5. I modi in cui l’ipercapitalismo divora il nostro tempo sono vari: la burocrazia, che, al contrario di ciò che ci viene raccontato, aumenta esponenzialmente con la crescita della tecnologia; gli ipermercati, costruiti scientemente come veri e propri labirinti dove nemmeno Arianna potrebbe aiutarti a trovare la strada, in modo che, girando e girando alla ricerca dello scaffale dei tostapane, le persone vedano altre cose non necessarie ma appetibili e finiscano per acquistarle. Una delle cose più tristi degli ultimi dieci anni: quelle famiglie, sempre più numerose, che la domenica, invece di andare in campagna o al mare vanno a passare la giornata da Ikea.

Ma quello che ha spostato il confine da capitalismo a ipercapitalismo cronofago è stata la creazione della nuova internet, quella dei social media e degli smartphone, ma anche la televisione dei realities e delle serie TV. Il Ceo di Netflix, nel 2017, ha detto:

“Quando guardi uno spettacolo di Netflix e ne diventi dipendente rimani sveglio fino a tarda notte. Alla fine siamo in competizione con il sonno ed è una grande quantità di tempo.”

Lavoriamo tutti per Mark Zuckerberg

Come dice Davide Mazzocco: “Lavoriamo per Mark Zuckerberg con la stessa passione che riserviamo ai nostri hobby, ma con una continuità assolutamente inedita nella storia dell’umanità. Siamo i nodi di un reticolo di due miliardi e 270 milioni di persone, mittenti e destinatari di messaggi pubblici e privati che alimentano un gigantesco Leviatano che si nutre di dati. In soli cinque anni i minuti spesi sugli account social è aumentato del 50%.”

Il capitalismo digitale si è rivelato infinitamente più aggressivo e infestante di quello analogico, e se può permettersi di esserlo non dipende tanto dal fatto che i CEO delle varie piattaforme vestano in felpa e sneakers comportandosi come rockstar, ma principalmente perché i servizi che offrono risultano gratuiti. Anche se in realtà non lo sono. Si nutrono del nostro tempo, e il vecchio detto capitalista “il tempo è denaro” non è mai stato tanto vero quanto adesso.

Divoratori di tempo: Harlan Ellison e “L’Uomo del Tic-Tac”

Divoratori di tempo: Harlan Ellison e l'Uomo del Tic-Tac
Divoratori di tempo: Harlan Ellison e l’Uomo del Tic-Tac

Come spesso capita, la fantascienza migliore raramente ci aiuta a comprendere il cosmo, ma spesso ci aiuta a capire il nostro mondo. Harlan Ellison, grande scrittore sci-fi, ha scritto nel 1965 un racconto gioiello che parla di un futuro in cui il tempo diviene il fattore principale attorno a cui ruota ogni vita, tanto che il Sistema mette a propria salvaguardia l’Uomo del Tic-Tac, per controllare che i cittadini rispettino i tempi previsti dal regime, fino al centesimo di secondo, per ogni attività, senza ritardare o sforare nemmeno di pochi attimi. Un po’ come il torturatore di 1984, l’Uomo del Tic-Tac ha il potere di terminare, ovvero di mandare a morte, chi si sia macchiato del reato di tempo ritardato o tempo sprecato o tempo mal dosato.

Da “Pentiti, Arlecchino, disse l’Uomo del Tic-Tac”:

Persino negli ambienti della Gerarchia, dove la paura veniva generata, di rado subita, veniva chiamato l’Uomo del Tic-Tac. Ma nessuno lo chiamava così al cospetto della sua maschera.

Non si chiama un uomo con un nome odiato, quando quell’uomo, dietro la sua maschera, è capace di revocare i minuti, le ore, i giorni e le notti, gli anni della vostra vita. Era chiamato Maestro Cronometrista, in sua presenza. Era meno pericoloso.

“Questo è ciò che è — disse l’Uomo del Tic-Tac con autentica dolcezza. — Ma non chi è. La scheda oraria che tengo nella mano sinistra reca impresso un nome, ma è il nome di ciò che è, non chi è. Questa cardiolastra che tengo nella mano destra reca pure impresso un nome, ma di ciò che è nominato, non di chi. Prima di poter operare una regolare revoca, debbo sapere chi è.”

Ai suoi collaboratori, tutti i furetti, tutti i confidenti, tutti gli spioni, tutti gli informatori, persino i commessi, disse: — Chi è questo Arlecchino?

Non faceva le fusa. Dal punto di vista del tempo, strideva.

Per fortuna nel futuro immaginato da Harlan c’è un ribelle assoluto, un personaggio anarchico e romantico, l’incarnazione della vera disobbedienza al regime; non a caso il racconto inizia con una lunga citazione da “Disobbedienza civile” di Thoreau. L’eretico, che si fa chiamare Arlecchino, è solo il primo tassello instabile che potrebbe mandare il sistema in cascata trofica:

“Il Sistema era stato turbato per sette minuti. Era una cosa da poco, appena degna di nota, ma in una società in cui l’unica forza motrice erano l’ordine e l’unità e la prontezza e la precisione cronometrica e la devozione all’orologio, la venerazione per gli dei del tempo che passava, era un disastro di tremenda importanza.”

Divoratori di tempo: In Time di Andrew Niccol

Da questo bellissimo racconto ha preso ispirazione il film del regista e sceneggiatore Andrew Niccol, “In Time” del 2011. Harlan Ellison, che nel 2011 era ancora vivo, deve aver pensato che Niccol sia andato ben oltre alla semplice ispirazione, tanto da portarlo in causa per plagio. Ma, comunque sia, il film racconta un futuro in cui gli esseri umani sono programmati per vivere solo fino a 25 anni. Un vero e proprio timer installato nel braccio fa partire, a quel punto, un conto alla rovescia che porterà automaticamente alla morte di lì a un anno. A meno che non ci si riesca a procurare, in qualche modo, tempo ulteriore: i timer diventano come conti bancari elettronici, in cui si versa o da cui si preleva valuta, solo che la valuta di “In Time” è il tempo. Per cui ci sono i ricchi che hanno anche milioni di anni da vivere (lo sviluppo fisico si arresta a 25 anni e non si invecchia) e i poveri – neanche a dirlo, la stragrande maggioranza – sono costretti a lavorare come schiavi per non doversi vendere anche quei pochi mesi che li separano dalla morte.

Divoratori di tempo: “In Time” di Andrew Niccol

Dal dialogo fra un uomo ricco ma stanco di vivere e il protagonista, povero e inconsapevole prende avvio la storia:

Henry Hamilton: Arriva un giorno in cui ne hai abbastanza. La mente può essere esaurita anche se il corpo non lo è, e vogliamo morire, dobbiamo farlo.

Will Salas: È questo il tuo problema? Hai vissuto troppo a lungo? Hai mai conosciuto qualcuno che è morto?

Henry Hamilton: Per pochi immortali la maggioranza deve morire.

Will Salas: Questo che significa?

Henry Hamilton: Tu proprio non lo sai, vero? Non possono vivere tutti in eterno, dove li metteremmo? Perché esistono le zone orarie? Perché credi che le tasse e i prezzi aumentino nello stesso giorno nel ghetto? Il costo della vita aumenta per far sì che la gente continui a morire o non esisterebbero uomini con milioni di anni e altri che vivono alla giornata. Ma la verità è che ce ne sarebbe per tutti, nessuno deve morire prima del tempo. Se tu avessi tanto tempo quanto ne ho io su quell’orologio, che cosa faresti?

L’ultima frontiera, quella del sonno

Già, che cosa faremmo di noi stessi e del nostro tempo se fossimo immortali come Zuckerberg, come Bezos, come Bill Gates e come gli altri ultramiliardari di tutto il mondo, gente per cui potere e denaro sono diventati peggio, molto peggio di una forte dipendenza da oppiacei? Impossibile rispondere, mentre al contrario, quello che fanno loro è molto evidente: far correre gli altri il doppio, il triplo, il quadruplo, solo perché lo status quo possa rimanere fermo. E l’ultima frontiera che gli resta da azzerare è solo quella del sonno.

Davide Mazzocco ci parla del passero dalla corona bianca: uccello migratore che in autunno vola dall’Alaska sino al Messico, per poi compiere il tragitto inverso in primavera, e durante la migrazione può rimanere in stato di veglia per una settimana. Il Dipartimento statunitense della Difesa ha studiato a lungo i meccanismi che permettono a questi uccelli di rimanere svegli e attivi così a lungo.

Divoratori di tempo: passero dalla corona bianca
Passero dalla corona bianca

Ovviamente il loro obiettivo è la creazione di soldati liberi dall’esigenza del sonno. E una volta creati i soldati, poi sarebbe facile forgiare, su quel modello, un nuovo genere di lavoratori e consumatori senza sonno.

Perché, per il capitalismo cronofago il tempo del sonno è una nicchia di resistenza non ancora mercificata, e quindi va ridotta al massimo se non eliminata del tutto.

Divoratori di tempo: ipercapitalismo e pandemie

A forza di attentare al sonno, il ritmo circadiano collassa, fra noi poveri umani cresce l’ansia e l’insonnia e la capacità di dormire diventa una merce. Acquistabile come tutte le altre. Vuoi dormire? Comprati benzodiazepine, sonniferi di vario genere, oppiacei, alcool e credimi: dormirai…

Ma, a noi miseri mortali, con pochi mesi nell’orologio-timer e pochi soldi nell’orologio-banca, che già da tempo lavoriamo gratis per Zuckerberg e per Google, sempre più maltrattati, sfruttati, umiliati e confusi, quale opzione rimane nel disperato tentativo di salvare i nostri figli, se non noi stessi, da questo mondo fatto di paura e tradimento, di tormento, un mondo nel quale si calpesta e si viene calpestati, un mondo che, nel perfezionarsi, diventerà sempre più spietato?

Potremmo attendere pazientemente l’avverarsi della profezia di Marx, secondo cui il capitalismo dovrebbe finire per collassare su se stesso. Ma l’attuale ipercapitalismo sembra capace di mutare come un retrovirus, e, come un coronavirus, portare al mondo una pandemia che sembra creata ad arte per rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri e disperati sempre più poveri e disperati.

Rallentare, rallentare, rallentare

Io temo che la sola possibilità che ci rimanga contro un Sistema che vuole farci correre, consumare ogni attimo del nostro tempo e infine buttarci in qualche discarica come fossimo batterie o pile non più ricaricabili, sia, al momento, quella di rallentare, rallentare e ancora rallentare i nostri ritmi in una sorta di resistenza passiva.

Milan Kundera

Da Milan Kundera, “La Lentezza”:

“Aspetta un momento.”

Voglio contemplare ancora il mio cavaliere che si dirige lentamente verso la carrozza. Voglio assaporare il ritmo dei suoi passi: più egli avanza, più questi rallentano. In questa lentezza mi sembra di riconoscere un segno di felicità.

… Senza domani.

Senza pubblico.

Ti prego, amico mio, sii felice. Ho la vaga impressione che dalla tua capacità di essere felice dipenda la nostra unica speranza.

ASPETTA UN MOMENTO.

La vasta moltitudine dei morti

Per ogni epoca, per ogni periodo e a maggior ragione per ogni tragedia o guerra, nelle nostre menti rimane un’immagine a rappresentare e testimoniare quello che è successo. Ad esempio, la fotografia della bambina ustionata dal napalm che corre nuda, urlando e piangendo, sarà per sempre il devastante simbolo della guerra americana in Viet-Nam. Per quanto riguarda l’attuale pandemia, invece, almeno per noi italiani l’immagine che rimarrà impressa a fuoco nella memoria comune è quella della lunga fila di camion militari con le bare dei morti di Covid a Bergamo, fuori dal cimitero in attesa del proprio turno per la cremazione. Quest’ultima foto ci colpisce particolarmente perché va a toccare uno dei nostri nervi scoperti: l’umana ossessione per la vasta moltitudine dei morti, che tendiamo a considerare come una specie aliena, quasi un esercito nemico da tenere a distanza e non una schiera a cui già apparteniamo, dal momento che, presto o tardi, entreremo a farne parte.

Carri militari a Bergamo, che portano le bare dei morti di Covid, in fila fuori del cimitero
Carri militari che trasportano bare in fila a Bergamo, fuori del cimitero

La vasta moltitudine dei morti: nel fantasy e nell’horror

Walter de la Mare, scrittore inglese vissuto a cavallo fra 1800 e 1900 disse:

“Dopotutto, che cos’è un uomo, se non un’orda di fantasmi? Querce che erano ghiande che erano querce.”

Eppure, anche in letteratura, de la Mare è un caso abbastanza limite: si tende sempre a creare una linea di confine precisa, un muro infinitamente lungo per separare i morti dai vivi perché la morte, si sa, può facilmente contagiarti o ipnotizzarti.

La vasta moltitudine dei morti: Aragorn e l'esercito dei morti
Aragorn e l’esercito dei morti, nel film tratto dal “Signore degli anelli” di Tolkien

Dove la linea di demarcazione è più facilmente visibile è nel fantasy: a volte la moltitudine dei morti sta dalla parte dei buoni, come nel “Signore degli anelli” di Tolkien, dove l’esercito dei morti aiuta Aragorn  a sconfiggere le truppe di Sauron; altre volte, come nel Game of Thrones di George Martin l’esercito dei morti sembra essere il male assoluto, ma che, pur essendo assoluto, non è poi un male così difficile da eliminare: alla fine vediamo che basta una ragazzotta ben allenata  all’omicidio, un drago vivente contro un drago morto, un acciaio speciale (i morti che ritornano hanno sempre un tallone d’Achille: la luce del sole per i vampiri, ad esempio) e il terribile esercito viene facilmente spazzato via. In altri casi, come nella fortunata serie originale horror “The Walking Dead”, risulta ben presto evidente che la vasta moltitudine dei morti – in questo caso zombie – pur dando il nome alla serie è del tutto ininfluente, mentre quelli che fanno il bello e il cattivo tempo massacrandosi fra di loro sono sempre, come è ovvio, i vivi.  

Game of Thrones: Il Re della schiera dei morti
Game of Thrones, il Re della Notte, nella serie tratta dalla saga di G.Martin

La vasta moltitudine dei morti: Dylan Thomas

Io credo si tratti di una visione fortemente narcisistica da parte di noi esseri ancora viventi: parliamo dell’aldilà, proponiamo ipotesi, confidiamo in questa o quella religione, subiamo il fascino della non esistenza ma pretendiamo di considerarci un soggetto a sé stante e, in quanto vivo, vincente. Ci vuole una forte visionarietà unita ad un talento poetico raro per unire e contemporaneamente dividere vivi e morti, ma Dylan Thomas ci riesce perfettamente:

A process in the weather of the world
Turns ghost to ghost; each mothered child
Sits in their double shade.
A process blows the moon into the sun,
Pulls down the shabby curtains of the skin;
And the heart gives up its dead

Un mutamento nella stagione del mondo
Sostituisce spettro a spettro; ogni figlio partorito
Siede nella sua duplice ombra.
Un mutamento spinge la luna dentro al sole,
Strappa i logori veli della pelle;
E il cuore abbandona i suoi morti

Da “A process in the weather of the heartdi Dylan Thomas (18 poems*)

Comprendere Dylan Thomas non è mai semplice, soprattutto nelle poesie giovanili, ma credo che il punto da sottolineare sia la “double shade”, quell’ombra che, per ogni umano appena nato è unica ma già doppia, perché rappresenta la vita attuale e la morte che segue, ombra duplice che si estende nel tempo che è poi il solo vero mutamento nella stagione del mondo.

La vasta moltitudine dei morti: Milan Kundera

Milan Kundera
Milan Kundera

Sulla moltitudine dei morti mi viene in mente un bellissimo racconto di Milan Kundera “Che i vecchi morti cedano il posto ai giovani morti.” In questo racconto giovanile c’è principalmente una forte satira nei confronti di quella Cecoslovacchia, patria di Kundera, che era da poco diventata proprietà sovietica, ma non solo. Sia i morti recenti che quelli di lunga data, nel racconto, non hanno più alcun tipo di scintilla: sono solo mucchi di ossa che vengono spostate di tomba in tomba:

“Ci aveva messo un po’ di tempo per capire: lì dove prima c’era la lapide di arenaria grigia col nome del marito a lettere d’oro, proprio in quello stesso posto (aveva riconosciuto con certezza le due tombe accanto) c’era adesso una lapide di marmo nero con sopra, a lettere d’oro, un nome del tutto diverso.

Turbata, era andata negli uffici della direzione. Lì le avevano detto che, alla scadenza della concessione, le tombe venivano liquidate automaticamente. Lei li aveva rimproverati per non averla informata per tempo che doveva rinnovare la concessione, e loro per tutta risposta le avevano detto che in quel cimitero c’era poco spazio e che i vecchi morti devono cedere il posto ai giovani morti…”

Nel racconto di Kundera il mondo, nella sua inutile seriosità va in pezzi, e nel nostro mondo reale la consapevolezza che non possano esistere veri cambiamenti, se non l’unico vero mutamento dovuto al passare del tempo, manderebbe in pezzi la maggioranza di noi.

James Joyce: The dead

La vasta moltitudine dei morti: James Joyce

In controtendenza con la forte volontà umana di tenere il mondo dei vivi ben separato da quello dei morti arriva James Joyce, con un capolavoro assoluto, “The Dead”, ultimo e principale racconto di “Dubliners”, pubblicato nel 1914. Ci sono romanzi, o racconti, dove l’intera narrazione non è altro che un lungo preliminare per l’incanto del finale; dove ogni cosa, anche la più banale, anche ciò che ci appariva insignificante, all’improvviso acquista un senso, e perfino lo stile cambia: se prima l’autore indugiava in dettagli, dilatando il tempo fino a distenderne ogni piega, adesso, negli ultimi paragrafi, il tempo si restringe e ogni parola scritta è necessaria e illuminante.

The Dead è lungo una cinquantina di pagine, interamente ambientato in un cenone con ballo, a casa di anziane signorine benestanti, mentre fuori nevica e nella grande casa dove il fuoco scoppietta in ogni camera si mangiano prelibatezze, si suona il piano e si danza il walzer. Nelle ultime due pagine tutto cambia. Siamo in una camera d’albergo senza nemmeno una candela, e passando dalle luci sfavillanti al buio assoluto, dal calore all’aria gelida, tutto improvvisamente diventa chiaro.

The dead, dove morti e vivi diventano uno

“Sì, presto forse si sarebbe trovato seduto in quello stesso salotto, vestito di nero, la tuba sulle ginocchia: le imposte sarebbero state accostate e zia Kate seduta accanto a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato com’era morta. Si sarebbe torturato il cervello allora per trovare qualche parola che potesse consolarla e ne avrebbe trovate solo di goffe e inutili. Sì sì, non sarebbe passato molto tempo.

L’aria fredda della stanza gli gelava le ossa. S’allungò adagio sotto alle coperte accanto alla moglie. Uno ad uno tutti si sarebbero tramutati in ombre. Meglio, del resto andarsene senza paura nell’altra vita, nel pieno di qualche passione, che svanire e appassire a poco a poco con l’età. Pensò a lei che gli stava sdraiata accanto, a come fosse riuscita a tener sigillata nel cuore per tutti quegli anni l’immagine degli occhi del suo innamorato mentre le diceva che non voleva vivere.

Lacrime generose gli gonfiarono gli occhi. Non aveva mai provato nulla di simile per nessuna donna e sentiva che quello doveva essere veramente amore. Più fitte le lacrime gli velarono gli occhi e nella semioscurità immaginò la figura di un giovane in piedi sotto un albero gocciolante di pioggia. Altre figure gli erano accanto. La sua anima si stava avvicinando alle regioni abitate dalla vasta moltitudine dei morti. E pur essendo cosciente di quella loro illusoria e vacillante esistenza non riusciva ad afferrarla. La sua stessa identità svaniva in un mondo grigio e impalpabile e la terra in cui pure quei morti avevano dimorato e procreato, perdeva sostanza.”

La vasta moltitudine dei morti

La poesia di questo racconto – e d’altra parte si parla di Joyce – è l’insieme dei sentimenti che fanno avvicinare Gabriel, il protagonista, alla vasta moltitudine dei morti, fino alla completa sovrapposizione dei due mondi: prima di tutto accettazione dell’ ineluttabilità della morte; come conseguenza dell’accettazione ne deriva la consapevolezza che tutti noi, vecchi o giovani, un giorno, più o meno vicino, apparterremo a quella schiera impalpabile; infine empatia per i morti e per i vivi, che dimorano gli uni dentro gli altri, appartenendo tutti alla medesima, vacillante e illusoria sostanza.

Proprio come le ghiande dimorano nelle querce, e le querce dimorano nelle ghiande.

Nothin’ di Townes Van Zandt, 1971, dedicata a Marina, Alessandro, Fabio: amici, mi mancate sempre

*Dylan Thomas è tradotto da Emiliano Sciuba, che è anche l’unico traduttore in italiano delle opere giovanili da noi inedite di Dylan Thomas

Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino

Syd Barret: Il Pifferaio diventa Cecchino

Cosa significa Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino? Partiamo da“The Piper at the gates of dawn”, Il Pifferaio ai cancelli dell’alba, primo album in studio dei Pink Floyd, 1967; album capolavoro del rock psichedelico mondiale, ideato, scritto, interpretato e diretto – dalla musica alle lyrics fino alla copertina – da Syd Barrett, artista eclettico, in grado di spaziare fra musica, testi, arte grafica e pittura.

Il rock psichedelico, nato contemporaneamente negli Stati Uniti e in Inghilterra negli anni ’60, trovò, in America, nella scena texana, i suoi adepti più sperimentali. L’esempio più calzante è quello dei 13th Floor Elevators, che furono anche i primi a usare, musicalmente parlando, il termine “psichedelico”, nell’album “The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators” del 1966.

Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino. 13th Floor Elevators, primi a utilizzare il termine "psichedelico" in musica
“THE PSYCHEDELIC SOUNDS OF THE 13th FLOOR ELEVATORS” Album Cover

Psichedelico

Il vocabolo viene dal greco ψυχή, “anima” e δηλῶ, “rivelo”, e in qualche modo collegava strettamente quella musica neonata all’uso di sostanze psicotrope, sia naturali che chimiche (da peyote e mescalina all’acido lisergico) utilizzate per viaggiare con la mente e difatti chiamate anche trip. Ovviamente, per concepire, scrivere, suonare e cantare un album come The Piper at the gate of dawn non bastava di certo essersi fatti un acido, altrimenti avremmo avuto milioni di musicisti geniali. Come dice Caparezza in “Mica Van Gogh:

Allucinazioni che alterano la vista Tu ti fai di funghi ad Amsterdam Ma ciò non fa di te un artista”

Syd Barrett il Pifferaio

Syd Barrett aveva una mente eccezionalmente aperta, curiosa e dotata di grande talento. Syd aveva gli occhi spalancati, contemporaneamente rivolti al mondo microscopico (dentro alla sua testa) e a quello macroscopico (il cosmo e oltre); credo sia stato questo, alla fine, ad averlo portato alla “pazzia”. Chiunque abbia sperimentato sostanze psicotrope, sa che il viaggio, in sé, non appartiene né al bene né al male. È solo un’esplorazione fine a se stessa, e come tale, può andare male o bene, può risultare spaventosa o spassosa, pericolosa o liscia come l’olio, illuminante o del tutto dimenticabile. Nelle due canzoni principali, “Astronomy domine” e la strumentale “Interstellar overdrive”, Syd, supportato dai compagni, viaggia nel multiverso, raccontandoci, a suo modo, stelle, pianeti, mondi impossibili da immaginare, alieni, spiriti, divinità, fate, folletti. Viene quasi da pensare a Roy Batty, il replicante di Blade Runner e al suo famoso monologo:

Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare, navi da combattimento in fiamme al largo di Orione, i raggi Beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.

Syd Barrett il Visionario

Rock neo-psichedelico: il Piffeario diventa Cecchino. Da Syd Barrett ai giorni odierni
SYD BARRETT

E come lacrime nella pioggia un giorno, fin troppo vicino al 1967, si perderanno le visioni di Barrett, ma per il momento è ancora in grado di trasformarle in creazioni meravigliose. In Astronomy domine, mentre il resto della band lo sostiene musicalmente, Barrett è libero di mettersi in viaggio, da solo con la sua chitarra. La sua voce ripete come un mantra la medesima strofa:

Lime and limpid green, a second scene a fight between the blue you once knew. Floating down, the sound resounds around the icy waters underground. Jupiter and Saturn, Oberon, Miranda and Titania, Neptune, Titan, Stars can frighten.

Verde limpido e color lime, una seconda scena una lotta con l’azzurro a cui eri abituato. Fluttuando giù, il suono risuona attorno all’acqua ghiacciata sottoterra. Giove e Saturno, Oberon, Miranda e Titania, Nettuno, Titano, le Stelle possono far paura”.

Il Pifferaio ai cancelli dell’Alba

Le Stelle possono far paura, ma non a lui. E non solo perché Syd Barrett è troppo curioso e troppo giovane per aver paura. La verità è che ogni testo, ogni poesia, ogni canzone, romanzo, racconto riflette il periodo in cui viene scritto, e gli anni ’60 furono gli anni della rivolta hippy, della rivoluzione sessuale, del movimento studentesco sessantottino, di Woodstock, delle comuni, delle grandi manifestazioni per la pace. Ovviamente in quella decade ci furono anche ombre e lutti, ma quello che conta – in questo caso – è che furono anni di movimento e di ideali, anni di rivolta, e ciò che più conta, non furono anni di crisi economica. Ecco perché il titolo che Barrett diede all’album, “Il Pifferaio ai cancelli dell’alba”, lo prese in prestito dal capitolo numero 7 di un famoso libro per bambini: Il vento nei salici scritto da Kenneth Grahame nel 1908.

Nel vento nei salici alcuni animali vivono le loro piccole e grandi avventure. Nel capitolo del Pifferaio appare il dio Pan, che suonando una meravigliosa musica col suo flauto magico, aiuta Ratto e Talpa a ritrovare un cucciolo smarrito, per poi svanire nel nulla senza lasciare alcun ricordo nelle loro memorie. E del resto il Flauto magico – in musica – appartiene a fiabe gioiose fin dai tempi di Mozart.

Oh, Talpa! Come è bello! Il cicalare giocondo, il tenue, netto, felice richiamo del flauto lontano! Io non ho sognato mai simile musica, e il richiamo in essa è anche più forte di quanto sia dolce la musica! Rema, Talpa, Rema! Che la musica e il richiamo devono essere per noi

Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino

La musica psichedelica, dopo i primissimi anni ’70, divenne meno popolare. Gli stessi Pink Floyd, ormai orfani di Barrett già da tempo, crearono veri capolavori, come “Wish you were here” o “The wall”, che però non avevano più nulla a che fare con la psichedelia. Ma negli anni ’90 – i famosi corsi e ricorsi della storia – la musica psichedelica riprese vita, e venne chiamata “neo-psichedelia”. In questo termine, però, furono collocati decine e decine di generi: alcune band garage rock, alcuni tipi di punk-house, pop melodico immerso in atmosfere sognanti e qualsiasi musicista che abbia mai dichiarato di essersi ispirato ai Velvet Underground. Ma qualcuno meritevole di portare nuovamente e seriamente quella bandiera esiste, e, ancora una volta, appartiene alla scena texana.

Rock neo-psichedelico: The Black Angels

Fra le band realmente neo-psichedeliche voglio citare solo gli strepitosi The Black Angels, in attività da metà anni zero e organizzatori del Festival psichedelico di Austin, TX, loro città d’origine. Il loro primo album, “Passover”, del 2006, è una bomba nucleare. Non c’è altro modo per definirlo. Loro sono molto lontani dall’essere un semplice ritorno a musiche di altri tempi. I Black Angels suonano un vero rock psichedelico molto heavy, dal ritmo incessante e primitivo, incredibilmente bello, trainante e potente. Ricorda, a tratti, il suono di qualche band anni ’60, ma non più di quanto il volto di un nipote possa ricordare quello del nonno. Inoltre, se la psichedelia anni ’60 raccontava viaggi personali, voli interstellari, flauti magici, al contrario, i Black Angels ci raccontano l’apocalisse. Nell’album c’è una citazione di Edvard Munch:

“La malattia, la pazzia e la morte sono gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla e mi accompagneranno per tutta la vita”

THE BLACK ANGELS, PHOTO BY ALEXANDRA VALENTI

Rock neo-psichedelico: l’Oscurità

Il mondo, ormai è in pieno Kali Yuga, l’oscurità è ovunque, non c’è più salvezza per nessuno e i testi dei Black Angels ce lo ricordano. Se I Pink Floyd avevano creato “The Piper at the gates of dawn”, i Black Angels intitolano una canzone “The Sniper at the gates of Heaven”. Il Pifferaio ai cancelli dell’alba si è trasformato in un cecchino appostato addirittura all’entrata del Paradiso.              

“Where do you go when heaven calls you? What do you do? Who do you turn to? How old will you be when they finally catch you? Don’t stop moving, they’re right behind ya. When there’s no one left on this earth you know who can save you kid, so just wake up wake up wake up

What is it like when hell surrounds you? How hot does it get? I think I’ve already felt it. Is there any way out? You better find one”

Dove andrai quando il Cielo ti chiamerà? Cosa farai? A chi ti rivolgerai? Quanti anni avrai quando alla fine ti prenderanno? Non ti fermare, loro ti stanno alle costole. Quando non ci sarà più nessuno che conosci, su questa terra, chi potrà salvarti ragazzo, perciò svegliati svegliati svegliati

Come ci si sente quando l’Inferno ti circonda? Quanto diventa rovente? Io credo di averlo provato. C’è qualche via d’uscita? Faresti meglio a trovarne una.

Sniper at the Gates of Heaven

Rock neo-psichedelico: il Pifferaio diventa Cecchino

I Black Angels ci dicono, in breve, che – nel terzo millennio dalla nascita di Cristo – non ci sono dolci animaletti né possibilità di fluttuare in mondi paralleli ma solo questa terra devastata a cui apparteniamo e la gravità che ci schiaccia al suolo. Inferno e Paradiso sono la stessa cosa: il primo ti circonda, il secondo manda un cecchino a finirti.

Dal 2006 ad adesso i Black Angels hanno pubblicato diversi album, tutti di rock neo-psichedelico, ansiogeni e catartici allo stesso tempo, ma soprattutto molto, molto belli (l’ultimo, “Death song”, è del 2017). Inoltre, le loro profezie apocalittiche si sono dimostrate corrette. Il mondo di adesso, 2020, è veramente intriso di Malattia, Pazzia e Morte, e pur rimanendo ben svegli, trovare vie d’uscita sembra sempre più difficile.


Contempliamo abissi bianchi

“…Moby Dick mi suscitava un altro pensiero, o piuttosto un orrore vago e senza nome, così intenso a volte da soverchiare tutto il resto; e tuttavia così misterioso e quasi ineffabile che a momenti dispero di poterlo esprimere in una forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che soprattutto mi atterriva.”

Melville, Moby Dick

Contempliamo abissi bianchi: Fontana sulle rive del lago di Como
Fontana accanto al Lago di Como

CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI è un breve viaggio che faccio partire da alcune osservazioni personali:

In televisione vedo la pubblicità di una penna sbiancante per denti, con questa modella dall’aria inquietante: capelli biondo platino; pelle del genere “whiter shade of pale”; un sorriso pieno di denti scintillanti resi ancora più bianchi dal contrasto con numerosi strati di rossetto vermiglio.

Ancora pubblicità. L’ennesimo spot su qualche detersivo da lavatrice, con l’ennesima donna quasi in orgasmo mentre stende lenzuola iperdotate, a quanto pare, del fondamentale pregio di apparire così bianche da mandare in estasi femmine di tutte le età. Praticamente un porno.

A quel punto mi sono domandata: da dove viene questa umana mania, questo delirio archetipico, questa attrazione fatale per il bianco? Mi è venuto in mente quel capitolo di Moby Dick, intitolato “La bianchezza della balena”:

“…In certo modo, vari popoli hanno riconosciuto in questo colore una qualche preminenza regale…e altri uomini hanno preferito e scelto quel colore per farne l’emblema di molte cose nobili e commoventi, come l’innocenza delle spose e la benignità della vecchiaia… nei miti Greci il grande Giove in persona s’incarna nel toro candido…tutti i sacerdoti cristiani ricavano direttamente dalla parola latina che significa bianco il nome di una parte del loro abito sacro…E’ vero che nella Visione di San Giovanni i redenti portano vesti bianche, e i 24 anziani stanno vestiti di bianco davanti al gran trono candido, e il Santo che vi siede è bianco come la lana. Eppure, nonostante questa montagna di associazioni con tutto ciò che è soave e venerabile e sublime, sempre nell’idea più profonda di questo colore si acquatta un che di ambiguo, che incute più panico all’anima di quel rosso che ci atterrisce nel sangue.

È questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza, quando è separata da associazioni più benigne e accoppiata con un oggetto qualunque che sia terribile in se stesso, capace di accrescere quel terrore fino all’estremo…”

Melville continua con esempi di creature in cui il bianco provoca all’uomo sensazioni di panico. L’orso polare e lo squalo bianco, ad esempio: “…cos’altro se non la loro bianchezza candida e fioccosa li rende quegli orrori ultraterreni che sono? È quella bianchezza spettrale che impartisce una bonarietà così orrenda…Tanto che nemmeno la tigre con le sue zanne feroci, avvolta nel suo mantello araldico, può scalzare a un uomo il suo coraggio meglio dell’orso e del pescecane dal bianco sudario”.

Ma anche esempi di visione magica, se non mistica, come l’albatros: “…là, gettato sul boccaporto di maestra, vidi un che di regale, di piumato, di bianchezza immacolata, e con un sublime, arcuato, rostro romano. A tratti inarcava le grandi ali d’arcangelo come per abbracciare qualche sacro tabernacolo… Attraverso i suoi occhi strani, inesprimibili, mi pareva d’intravedere segreti che avvolgevano lo stesso Dio. Mi chinai come Abramo davanti agli angeli; quella cosa bianca era tanto bianca, le sue ali tanto vaste, e in quelle acque solitarie in eterno io avevo perduto le memorie meschine e deformanti delle città e delle tradizioni…”

Contempliamo abissi bianchi: un bianco albatros, figura cristica nel poema di Coleridge "Rime of an ancient mariner"

Il bianco albatros, in letteratura, viene raccontato varie volte, a iniziare da Rime of an Ancient Mariner, poema di Coleridge. Qui troviamo un albatros che segue la nave su cui è imbarcato il marinaio che dà il titolo al poema; l’albatros è considerato presagio di buona fortuna per via del suo colore bianco ed è salutato e quasi venerato da tutto l’equipaggio, finché il marinaio non impugna la balestra e lo uccide con una freccia. Il marinaio non sa il perché del suo gesto e nessuno lo saprà mai: Coleridge non ce lo spiega. Credo che il peccato del marinaio, in quanto indotto inconsapevolmente dal Fato, sia il classico peccato di hýbris, dal greco antico.

Lo hýbris è un accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e le proprie forze: chi osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei”. Per quanto incolpevole giuridicamente, il marinaio non lo è religiosamente, perché il peccato di hýbris, dal punto di vista della divinità, è il peggior tipo di peccato e va punito severamente. In seguito all’assassinio dell’albatros la nave verrà perseguitata dalla sfortuna e tutti i compagni del marinaio moriranno, tutti tranne lui che dovrà convivere col senso di colpa e la maledizione del sopravvissuto.

 La storia dell’albatros e del marinaio ricorda quella di Parsifal e del cigno. Parsifal, il “puro folle”, uccide un cigno selvatico con una freccia del suo arco nel lago dei cavalieri del Graal. Nemmeno Parsifal, proprio come il marinaio di Coleridge, sa realmente spiegare il perché di quell’assassinio, e i cavalieri del Graal considerano il suo gesto sacrilego, motivo per cui lo cacciano via dalla loro terra, così come in Coleridge l’equipaggio della nave tratta con rabbia sempre maggiore il marinaio per aver ucciso l’albatros, dopo avergli appeso al collo il cadavere del povero uccello, come fosse un crocifisso, perché sia chiaro a tutti l’orrore innaturale della sua colpa. Eppure è proprio in seguito alle morti dei due uccelli bianchi che il marinaio e Parsifal riusciranno a raggiungere obiettivi spiritualmente alti.

CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI: Parsifal, di Rogelio De Egusquiza y Barrena, Museo del Prado

In entrambi i casi il bianco è simbolo di trasmutazione, di creatura che sacrifica se stessa per un bene superiore, quindi simbolo cristico.  Ma ciò nonostante, anche in questi due poemi la purezza del bianco ha la sua piccola parte ambigua: dopo la morte dell’albatros e dell’equipaggio della nave, il bianco dell’uccello si trasferisce nell’occhio del marinaio, che Coleridge definisce “glittering eye”, ovvero occhio abbagliante, dotato di poteri magici. “Glittering”, un po’ come lo “Shining” di Stephen King.

Ovviamente anche Parsifal eredita dal cigno la magia del bianco, visto che riceve una sorta di rivelazione e, di conseguenza, riesce facilmente a ridurre in cenere i suoi nemici nel giardino delle fanciulle fiore.  

Tornando a Melville, per lui l’ambiguità del bianco è proprio una medaglia con due facce opposte e complementari:

“Ma ci sono altri casi in cui la bianchezza perde completamente quella strana aggiunta di sublimità che l’informa nel cavallo bianco e nell’albatro. In un uomo albino, cosa c’è che ripugna in modo così particolare e spesso offende l’occhio, tanto che a volte egli è aborrito da amici e familiari? È la bianchezza che lo fascia e che si esprime nel nome che porta. L’albino non è meno ben fatto degli altri, non ha alcuna sostanziale deformità, eppure basta quella bianchezza che lo copre tutto a renderlo, chi sa perché, più orribile del più orrendo aborto. Come spiegarlo?”

Moby Dick è un romanzo del 1851, ma ancora oggi, a quasi 170 anni di distanza, in buona parte dell’Africa australe e soprattutto in Tanzania – dove gli albini sono particolarmente numerosi, a causa di un’anomalia genetica – tutti li considerano esseri maligni. Ma, allo stesso tempo, i loro arti, i loro organi sono considerati degli incredibili portafortuna; infatti, così come ci sono i cacciatori di frodo di elefanti, che uccidono per estirpargli le zanne di bianco avorio, esistono anche i cacciatori di albini, che vengono massacrati affinché  parti del loro bianco corpo siano fatte a pezzi e mescolate in un calderone dagli stregoni, per poi essere trasformate in amuleti da rivendere alla popolazione locale a carissimo prezzo.

Cos’è, quindi, che trasforma il colore bianco in una calamita col suo campo magnetico, che attrae l’uomo, in un modo o nell’altro, come se fosse fatto di ferro? E soprattutto, mi domando come riesca ad essere sia simbolo di purezza e misticismo quanto di un genere di magia che non sempre vorremmo conoscere, e che se a volte è benigna e ha il volto di una fatina delicata, molto più spesso evoca quello spettro mostruoso che ci portiamo sempre dietro, narcotizzato, ma pronto a svegliarsi e mostrarsi a noi.

Ecco come Melville affronta la questione: “Forse, con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della Via Lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato?”

Lovecraft, col suo "the colour from out of space" è una tappa importante del biblio-trip "Contempliamo abissi bianchi"

E se si parla di assenza di colore, di colore inesistente, non si può non citare il meraviglioso “The colour out of space”, racconto capolavoro di Lovecraft fra l’horror e la fantascienza, dove il colore rappresenta il nemico, il mostro, l’entità senza corpo né forma che ci assale nella nostra parte più vulnerabile, che è poi la natura, a cui siamo attaccati tramite cordone ombelicale, poiché, come feti, per vivere dipendiamo da lei. È il racconto di un crollo, di una cascata trofica che non ha nulla di scientifico e quindi inizialmente imprevedibile, ma che ben presto metterà in evidenza, passo dopo passo, la nostra essenza inerme, fragile e facilmente penetrabile e che porterà, irreversibilmente, ad una fine nota:

“…Sugli alberi di tutti i frutteti apparvero boccioli dai colori strani…I colori, era quella la vera follia. Tranne nell’erba e nel fogliame, i colori di una natura sana erano deviati da variazioni prismatiche, impossibili, su tutte un unico, malato tono dominante completamente estraneo a qualsiasi altra tinta conosciuta sulla terra… A luglio, la donna aveva cessato di esprimersi a parole, muovendosi a carponi. Prima della fine del mese, Nahum divenne ossessionato da una nozione delirante: che, nella tenebra, sua moglie emettesse una sorta di vaga luminescenza. La medesima luminescenza che ora poteva notare nella vegetazione tutta attorno.”      

È chiaro che nel racconto di Lovecraft il colore che viene dallo spazio è solo il messaggio, o se vogliamo il biglietto da visita di qualcosa di molto più profondo e agghiacciante che non riusciamo a conoscere anche se sappiamo che è proprio intorno e dentro di noi. Infatti non solo il bianco, ma ogni tinta della natura, dalla pittura di un quadro meraviglioso alle sfumature di un tramonto, dai colori più vivaci di fiori e farfalle fino ai colori tenui e pastello di nuvole, laghi e fiumi, ogni singolo colore non appartiene alla sostanza su cui ci sembra di vederlo.

Grazie a Newton sappiamo che il colore non è inerente agli oggetti, mentre è la superficie degli oggetti a riflettere alcuni colori e ad assorbire tutti gli altri. Noi percepiamo esclusivamente i colori riflessi. Se guardiamo una fragola, il rosso non è “nella” fragola, ma la superficie della fragola riflette le lunghezze d’onda che vediamo come rosso e assorbe tutto il resto. Un oggetto appare bianco, invece, quando riflette tutte le lunghezze d’onda. E questo Melville lo sa bene:

Sicché tutta questa Natura deificata non fa che dipingersi proprio come una puttana che copra di vezzi il carnaio che ha dentro. E andando ancora oltre, ricordiamo che il cosmetico misterioso che produce tutte le tinte del mondo, il gran principio della luce, rimane sempre in se stesso bianco e incolore…Quando riflettiamo su tutto questo, l’universo paralizzato ci sta davanti come un lebbroso…”

Moby Dick e la bianchezza della balena sono il filo conduttore di questo biblio-trip "Contempliamo abissi bianchi" in Ostinata e Contraria

Ed ecco, forse, perché il fascino del bianco ci nutre e allo stesso tempo ci consuma. Ecco cosa si acquatta di ambiguo nell’idea più profonda di questo colore. Ecco perché simboleggia gioia, innocenza e nobiltà così come terrore e disgusto. Il bianco è la sola fotocopia del nulla, quel nulla da cui veniamo e a cui un giorno torneremo. Perché, che piaccia oppure no, il grande vuoto, il grande nulla, è l’unico vero genitore che, dopo averci messi al mondo, sarà sempre lì ad aspettare il nostro ritorno.

CONTEMPLIAMO ABISSI BIANCHI: PHOTO BY JASON POHLMAN
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