John Frusciante e la sua musica curativa

john frusciante

“John Frusciante e la sua musica curativa” non è un semplice articolo su John Frusciante ma si propone di dimostrare le capacità curative, rilassanti, fortemente distensive e terapeutiche della sua musica. Quando parlo della musica di John non mi riferisco ai Red Hot Chili Peppers (che è comunque una grande band che ho sempre amato) ma alle numerosissime canzoni e album che ha pubblicato da solo, come autore di testi e musica, cantante, chitarrista e spesso anche polistrumentista. Se cercate un articolo dove si parli di John, dalle origini fino ad adesso, con tutta la vastissima discografia e le solite storie sul perché abbia abbandonato i RHCP la prima volta, allora l’articolo non è questo, ma sul web ne troverete tanti.

Introducing John Frusciante

Per parlare delle proprietà un po’ magiche della musica di John devo comunque introdurlo: John è diventato famoso come chitarrista (ma anche back vocalist) dei Red Hot Chili Pepper, entrando nella band quando era già abbastanza nota, nel 1988, quasi per caso, lui ancora un ragazzino, in seguito alla morte del precedente chitarrista. Ma se i RHCP gli hanno dato il successo bisogna anche dire che John ha portato al gruppo un’energia inarrestabile, riff e assoli, innovazioni, cuore e anima che hanno reso indimenticabili molte canzoni (l’intero album Californication, ad esempio) e l’amore incondizionato del pubblico che ha iniziato a vederlo come se il frontman fosse lui.

La sua forza è sempre stata la capacità unica di colpirti nell’animo, incantando gli ascoltatori come una sorta di sirena. Oltre a ciò, come chitarrista ha saputo creare un linguaggio tutto suo ed è diventato uno dei chitarristi più rappresentativi degli anni ’90.  Un anti-eroe della chitarra, in aperta opposizione a chitarristi più egocentrici e più classici come Slash, Dave Navarro, Satriani. Da quel momento i RHCP senza Frusciante si sono trasformati in una sorta di “figli di un dio minore” e nelle due volte che John ha abbandonato il gruppo – il ’92 per poi rientrare nel ’98 e il 2009 – i Red Hot non sono mai riusciti a trovare un chitarrista che riuscisse a sostituire John nel cuore del pubblico. A fine 2019, per la gioia dei fan dei RHCP, John ha di nuovo accettato di entrare nella band.

John Frusciante e la sua musica curativa: la lezione di John

Ma il fatto che John abbia abbandonato per ben due volte una band ormai ultra-famosa, e con essa l’adorazione del pubblico e i guadagni vertiginosi per ritirarsi a scrivere musica indie, molto particolare, musica che solo in pochi sono in grado di capire (e amare follemente), la dice lunga su che persona incredibile sia John. Una specie di Zarathustra dei nostri giorni. Uno in grado di abbandonare l’equivalente di una ricca eredità per andare a vivere in una spelonca e lavorare nei campi.

A questo proposito vorrei citare il commento su “youtube” di un fan di John, perché mi sembra molto in tema. (Da questo momento in poi ogni commento youtube che pubblicherò in quest’articolo è da considerarsi tradotto – da me – dall’inglese e, ovviamente, senza poter scrivere il nick di chi ha postato il commento.)

 “Allora, abbiamo un uomo in grado di suonare da dio una chitarra, uscirsene con un assolo pazzesco di fronte a milioni di persone che cantano in coro mentre suona con una delle migliori rock band di tutti i tempi… che sceglie di non andare avanti così ma di suonare una bella canzone nel suo soggiorno. C’è una lezione da imparare qui…”

Le prerogative di John

John Frusciante e la sua musica curativa: John 2019

John Frusciante adesso

E sicuramente la prima lezione da imparare riguarda la personalità unica di John. Le sue prerogative:

Nick Drake, Syd Barret e Kurt Cobain

  1. scrivere, suonare, cantare e registrare decine e decine di canzoni bellissime anche in periodi orribili, quando l’eroina era la sua unica amica.
  2. essere in grado di far parlare e cantare la sua chitarra come nessun altro.
  3. nei testi e anche nella musica di molte canzoni ci racconta, a brandelli e sempre con estrema umiltà, l’insostenibile leggerezza dell’essere, e nel suo caso il modo in cui porta il dolore su di sé come Gesù portava il peso della croce sulla schiena, cosa che rende Frusciante una creatura cristica.
  4. un’apertura mentale unica unita ad una capacità di indagare e viaggiare dentro se stesso senza nascondere nulla, che fa di lui – in certi album – una via di mezzo fra il miglior Syd Barret e Nick Drake, con un pizzico di Kurt Cobain.
  5. la sua grande capacità visionaria, capacità che fece impazzire Syd Barret ma che ha invece tenuto in vita John, rimasto vivo per raccontarci il modo in cui il tempo rallenta, il giorno in cui il tempo uscirà dalla finestra, per spiegarci che per stare qui – vivo, nel mondo – devi prima morire, che c’è un futuro che ci chiama ma non lo vediamo arrivare, che lui, e tanti di noi, verremo sempre massacrati di botte, botte fisiche o peggio, botte inflitte dalla vita, che le note dei teppisti cavalcano nelle ferite delle fate e che la volontà di morte è ciò che mantiene vivi. Proprio come Ismahel in Moby Dick, John è sopravvissuto per raccontarci – con musica e lyrics – che la verità non è conoscibile, ma pochi eletti hanno la missione di raccontarla comunque.

John Frusciante e la sua musica curativa

Una volta chiarito che, quando parliamo di John Frusciante non parliamo semplicemente di un chitarrista, per quanto bravo, o di un autore e cantante, per quanto bravo, ma di un Artista dalla personalità unica e dal talento straripante, quel genere di talento così detonante che è a metà fra un dono e una maledizione, allora possiamo iniziare ad affrontare il tema di quest’articolo: le capacità molto speciali della musica di John.

Che la musica di John solista in generale abbia capacità un po’ magiche, soprattutto in determinate canzoni, l’ho notato inizialmente su di me e su amici a cui l’ho fatto ascoltare “solo per avere un loro parere in generale”. Una canzone in particolare “Wayne”, che John ha scritto per un amico e fan che stava morendo, ha delle capacità incredibili, oltre ad essere di una bellezza sublime (inutile dire che John l’ha auto-pubblicata e regalata al suo pubblico)

.“Wayne”

Ecco le parole che John ha scritto per presentare questo brano:

“Ho registrato questo brano per il mio amico Wayne Forman, l’amico più fico e più adorabile che qualcuno possa avere. Quando suonavo su un palco, spesso mandavo mentalmente la mia musica a lui. Wayne amava gli assoli di chitarra, quelli lunghi, e lui era la persona per cui preferivo suonare fra il pubblico. Come sanno tutti quelli che l’hanno conosciuto, lui era anche il miglior chef del mondo. Quando l’ho visto due giorni fa era sdraiato di fronte a un lettore CD, così quando sono tornato a casa ho deciso di fare qualcosa per lui. Ho registrato questo assolo per farglielo ascoltare, ma l’ho terminato un giorno troppo tardi, quindi adesso è un tributo alla sua memoria. È quello che lui avrebbe voluto che suonassi per lui ed è la mia offerta alla sua famiglia, ai suoi amici e a chiunque altro allo stesso tempo. Wayne vive per sempre nei nostri cuori, il ragazzo più fantastico che chiunque possa mai conoscere. Sono così fortunato per aver avuto la grazia della sua amicizia. Tutto l’amore del mondo per lui.

 – John”

I commenti dei fans di John su “Wayne”

Allora ho iniziato a fare una ricerca su youtube, sui commenti lasciati dai fans di John su “Wayne” (self released, 2013) che hanno confermato quello che pensavo:

–      Anche il mio cane cambia il suo stato di mente rilassandosi e calmandosi ogni volta che suono questa canzone a tutto volume. Lui si sdraia e batte il tempo con la coda mentre ascolta. È fantastico.

–      Dopo questo ascolto mi sento ripulito, onesto, se questo avesse un senso direi che mi sento come se l’acqua nera fosse stata lavata via dalla mia testa fino ai miei piedi. Una stramba descrizione ma è quello che sento ascoltando questa canzone!

–      Sto scrivendo un necrologio per il funerale di mia mamma che sta per morire di Covid. Ho il cuore spezzato. Questa canzone mi aiuta a esprimere i miei pensieri.

–      Uso questa canzone ogni giorno per staccare la spina dallo stress. In qualche parte delle distorsioni io trovo chiarezza e pace. Grazie John

–      Grazie per la musica, John. Mi ha salvato mille volte

John Frusciante e la sua musica curativa: i commenti della sua community

A quel punto ho allargato la mia ricerca sui tanti dischi creati nel corso del tempo da John, e sono rimasta colpita da quante persone provassero le mie stesse sensazioni. Inoltre ho avuto modo di notare l’assoluta gentilezza, tolleranza, solidarietà dei componenti la community dei fans di Frusciante, cosa davvero rara su internet e sui social in genere, dove la gente di solito si sbrana digitalmente. I commenti da citare anche solo parlando di “musica curativa” sono tantissimi, ma ho dovuto operare una selezione fra quelli che mi sembravano più significativi.

Commenti da “Forever away” (The brown bunny OST, 2004)

  • Sono d’accordo, è come un guaritore. Lui sa quello che provi e dice le cose giuste per farti star meglio
  • Questo ragazzo, sul serio, è una delle ragioni per cui sono ancora vivo e funzionante oggi
  • Può sembrare buffo, ma cantare con John in questa canzone ha un effetto davvero salutare su di me

Da “Dying Song” (The brown bunny OST, 2004)

  • Adesso sono maledettamente depresso, in uno dei più brutti momenti della mia vita, e ascoltare almeno una canzone di John rende tutto migliore, almeno per un po’
  • Questa canzone mi ha impedito di suicidarmi… grazie John Frusciante per avermi salvato la vita
  • Questa musica è davvero un antidolorifico per l’anima
  • Non so perché ma ho iniziato a piangere così tanto verso la fine. Nessuna canzone ha mai avuto un impatto così forte su di me prima di questa. Immagino che la musica di John contenga un potere meraviglioso

“Falling” (The brown bunny OST, 2004)

Quando la mia casa ha preso fuoco, ho iniziato ad ascoltare John ogni giorno e ogni notte, ammetto che ero piuttosto ossessivo. Non voglio dire che non ce l’avrei fatta senza la sua musica, tutto quello che posso dire è quanto apprezzo il fatto che la sua musica fosse lì per me in quel momento della mia vita.

“Lever pulled” (Curtains, 2005)

Questa canzone lascia qualcosa di più… è come una droga

“Time tonight” (Curtains, 2005)

  • Io sono un uomo, non piango, non corro da qualcuno a lamentarmi dei miei problemi. Ma quando la vita ti prende a calci io vado sempre dal mio musicista preferito, John Frusciante e posso piangere e mi sento sempre un po’ meglio
  • La voce di John in questa canzone… Non riesco a spiegare come mi fa sentire. Puro piacere, ma piacere triste, un’emozione triste. Non so come spiegarlo, non credo che nessuno ci riesca, è solo qualcosa che devi aver sperimentato per riuscire a capire.

“I will always be beat down” (From the sounds inside, 2002)

  • Ho avuto una mattinata orribile e questa canzone mi risuonava in testa. Stavo male ma poi ascoltare questa canzone mi ha confortato
  • Lui ti da una calma immediata quando ti senti come se volessi sparire
  • John Frusciante è una religione

“Heaven” (The Empyrean, 2009)

  • Mi ricordo quando stavo al liceo, seduto in classe, assolutamente depresso e ascoltare questa canzone era la sola cosa a cui riuscivo ancora a tenermi attaccato
  • Ogni nota è bella in un suo proprio modo. Mi invia ondate di energia attraverso il corpo. Il vero significato della musica è in questa canzone. Questo è il linguaggio dell’universo.
  • Questa non è una canzone, questa è una vita. La sua musica è un significato. John è un trasferente di emozioni.

“Central” (The Empyrean, 2009)

  • Non ho parole per spiegare cosa questa canzone fa alla mia anima
  • La musica non può essere meglio di così. Solo la musica di John mi fa sentire come se stessi viaggiando attraverso dimensioni
  • La comprensione di John della musica è ineguagliabile. Lui ha preso il suo spirito e l’ha versato dentro al suono liquido, in modo che noi possiamo capire e apprezzare la sua essenza.
  • Lui è l’unico essere umano in grado di curare la mia anima

“The days have turned” (The will to death, 2004)

  • John mi ha fatto diventare una persona migliore e molto più sensibile… non ho mai pensato che qualcuno riuscisse a fare questo solo con una canzone…
  • Non ha importanza quale sia il mio umore o quale situazione io stia attraversando, questa musica sarà sempre come luce nelle tenebre per me ❤
  • Questa canzone mi ha aiutato nel periodo più nero di tutta la mia vita. Grazie John

The will to death (The will to death, 2004)

  • Ho avuto un’overdose di benzodiazepine ed alcool circa un mese fa, intenzionalmente… ma mi hanno resuscitato e curato. Ascolto questa canzone ogni giorno, adesso, la volontà di morire è davvero quello che mi mantiene vivo, questa canzone si accorda in modo così forte col mio nuovissimo desiderio di vivere questa vita nonostante quella notte mi sia sentito così bene all’idea di andarmene.
  • Ho avuto grossi problemi di droga per tanto tempo… Al momento, questa canzone è ciò che mi ha tenuto in vita
  • La volontà di morire è ciò che mi tiene in vita
  • Questa canzone mi ha salvato la vita
  • Quattro anni fa ho passato un’orribile depressione, ero immerso nella tenebra e la musica di Frusciante mi ha fatto sentire che non ero solo, il dolore nella sua musica mi ha confortato e adesso, quattro anni dopo, sto molto meglio, ma ascolto spesso la sua musica e sento lo stesso caldo abbraccio nelle sue belle melodie che mi hanno aiutato a uscire da luoghi così orribilmente oscuri.

“Ramparts” e “Murderers” (To record only water for ten days, 2001)

  • Questa canzone è come un viaggio nel posto più meraviglioso in cui potresti mai andare
  • Devo chiudere gli occhi. Incredibile, è come estate, come il sorriso dei bambini, come libertà. Ha un feeling positivo, come la mia prima medicina per curarmi. Ascolta questa canzone e nascondi i problemi. Starà sempre con me per aiutarmi… grazie.
  • La mia bambina di 9 mesi ama questa musica. Smette di piangere appena partono le prime note, e fa anche applausi e risate quando l’ascolta. Che suono potente!
  • Sono le due di notte e me ne sto su un grosso albero, cercando di focalizzarmi sulla mia energia. Questa canzone è vita
  • Questo album mi ha aiutato a tenermi lontano da droghe e alcool nei primi tempi della mia riabilitazione

“Someone’s” (To record only water for ten days, 2001)

“Allora, devo spiegare questa canzone prima di suonarla. Questa canzone, Someone’s è dedicata a una mia grande amica di nome Jean, che è uno spirito. Lei possedeva una persona che era un mio grande amico, mentre lui dormiva. Abbiamo conversato molte volte e lei mi ha raccontato come funziona nelle altre dimensioni e luoghi dove andrai dopo la morte. Tu sei già lì proprio adesso, ci sono posti dove andrai dopo morto ma tu sei già lì, tu stai vivendo quella vita contemporaneamente a questa, perché loro si trovano in un tipo di spazio-tempo dove, beh, possono stare in ogni tempo nello stesso momento mentre noi viviamo solo questo breve periodo di tempo. Le persone spirito possono stare in ogni spazio temporale contemporaneamente perché non hanno un senso del tempo. Quindi non possono scrivere canzoni, non possono farsi droghe, non possono fare sesso. Non possono fare niente delle cose che noi facciamo perché noi abbiamo il tempo. Tu non realizzi cosa è il tempo, non è la tua carne o altro del genere, è tempo. Noi siamo fortunati ad avere il tempo, dovreste apprezzarlo mentre lo avete perché non ne avrete più dopo la morte.” (John in un concerto)

L’idea del tempo, dei mille modi diversi in cui percepirlo è una delle ossessioni di John, come sanno tutti quelli che hanno ascoltato o letto le lyrics delle sue tante canzoni. Per questo mi è sembrato importante aggiungere questo breve discorso su tempo e spiriti che John ha fatto in un suo concerto.

Le lyrics di Someone’s sono tutte parole della ragazza spirito, Jean, in cui probabilmente John vedeva se stesso: “qualcuno aspetta di volare con me/ qualcuno dice arrivederci ogni volta che lei mi dice ciao/ perché entrambi sono connessi con qualcuno/ io fluttuo giù lungo questa corrente d’aria/ io fluttuo ed è ogni sogno che ho mai avuto/ e sono così felice e triste/…ognuno che ha vissuto ha un luogo/ proprio qui c’è ogni mondo/ ogni tempo disegna una linea che porta ad ora/ per tenere e far girare l’infinito/ qualcuno mi porta oltre tutto questo”

John Frusciante e la sua musica curativa: Someone’s commenti

  • Questa canzone deve essere ascoltata da tutti, è una cura musicale.
  • L’1.17 di notte e ho l’urgenza di ascoltare questa canzone
  • La canzone più trascendentale sull’esistenza e I fenomeni percettivi che io abbia mai ascoltato
  • Qualcosa sui nostri ricordi e desideri ma è una vera dichiarazione. Puro amore

“Scratches” (Inside of emptiness 2004)

  • Amo così tanto questa canzone e mi fa rilassare quando sto in ansia o provo panico. Lui è la mia medicina che prendo ogni giorno. Amo John
  • Quando sono molto depressa ascolto questa canzone o quando non sento motivazioni per vivere. In ogni caso, per qualche stramba ragione, questa canzone mi fa rilassare.

Album: Niandra laDes and usually just a t-shirt, 1994

  • Un genio, la parte di piano che inizia a 1.41 ti calma l’anima (My smile is a rifle)
  • Questa musica è così potente. Piena di tristezza; non un qualsiasi tipo di tristezza ma quella tragica. Eppure riesce a toccarti dentro l’anima in un modo che è difficile da trovare e anche parlarne. Probabilmente non solo per me. Il motivo è il suo potere. Grazie JF. Sempre l’unico! (My smile is a rifle)
  • Questa canzone ha i toni più tristi ma, abbastanza follemente, mi fa sentire davvero incredibile (Running away into you)
  • Questa canzone mi fa sentire come se stessi nuotando nella terra (Running away into you)
  • Syd Barrett dal futuro (Running away into you)
  • La musica di Frusciante ti fa sentire cose che non vuoi sentire. Ma in ogni caso va bene. Mi convince che essere folli sia perfettamente giusto. (Running away into you)
  • Questa canzone è spaventosa, terrificante, inquietante e molto snervante. Una specie di soundtrack per il manicomio nella mia testa… L’adoro!!! Lui è un genio. (Running away into you)
  • Ti sembra di stare in un giardino immaginario, completamente fuori di testa e iper-felice (Untitled#6)
  • Questa canzone mi rende felice non so spiegare perché ma ascoltandola mi arriva gioia (Untitled #6)
  • Questa canzone regala alla mia mente sempre un incredibile stato di serenità (Untitled #6)
  • Gronda emozione, è una sorta di sollievo sapere che ho questa musica da ascoltare quando voglio. Sono sempre impaziente di ascoltarla. È veramente terapeutica. (Untitled #8)
  • Decisamente una delle mie canzoni preferite del mio album preferito di tutti I tempi. Non ho mai ascoltato niente di così interessante da essere repulsivo e meraviglioso allo stesso tempo. La gente semplice ascolta musica semplice, la gente complessa ascolta musica complessa (Untitled #8)
  • È bello vedere altre persone che come me amano John. C’è qualcosa in lui e nella sua musica che solo alcune persone riescono a capire. Quelli come noi, che lo amiamo e vediamo che capolavoro è il suo album. (Untitled #9)
  • Dio questa musica mi ha aiutato in ogni cosa che possiate immaginare (Untitled #12)

“Maya”

L’ultimo album pubblicato da John come solista nel 2020 prima di rientrare nei RHCP è Maya, elettronico e strumentale, ma non una novità per chi conosce il desiderio di viaggiare in mille direzioni diverse di John ma riuscendo, chissà come, a far sentire sempre il tocco leggero ma molto potente della sua firma. Nel corso di tutti questi anni John aveva pubblicato già diversi album elettronici, ma con l’alias “Trickfinger”. Maya è il primo album elettronico firmato col suo nome ed è chiamato così in onore della gatta di John, Maya, sua amata e fedele compagna, da poco scomparsa.

Maya, la gatta di John morta da poco

Il brano più famoso è “Brand E” dove le uniche parole che sentirete, all’inizio, sono “Give me a motherfucking break-beat”. Il break-beat descrive dei ritmi di batteria che caratterizzano solo alcuni tipi di musica elettronica, anzi, il break-beat è in totale opposizione al beat sincopato e sempre uguale della musica house o techno. Con queste poche parole John ci indica anche la sua nuova direzione, dove non sarà più autore di lyrics né suonerà la chitarra (cosa che farà comunque con i RHCP in cui è da poco rientrato). La sua musica elettronica è bella ma la sua musica indie mi mancherà tantissimo.

In ogni caso John ha pubblicato così tanti album e canzoni da solista, ma così tanti e quasi tutti a livello magistrale e sempre speciale che, per lenire le nostre anime e curare le ferite della nostra mente avremo musica da ascoltare fino alla fine dei nostri giorni…

John Frusciante bambino

John da bambino con chitarra

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping

Perché quest’articolo è intitolato “Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping”? Per via del recentissimo scoop del New York Times che racconta al mondo come e quanto Apple sia coinvolta nella sorveglianza su larga scala oltre che nella censura imposte dal governo cinese a tutti i cittadini cinesi che hanno acquistato e utilizzano un Iphone o altro device Apple. Ho citato Steve Jobs perché, pur non essendo io mai stata una particolare fan dell’uomo considerato da tanti una sorta di guru, credo – o meglio – voglio credere che Jobs oggi sarebbe disgustato dalle scelte fatte dalla compagnia da lui creata. Scelte che fanno orrore ma che non sorprendono: la maggior parte dei giganti dell’high tech, se devono scegliere fra aumentare il profitto o garantire la libertà dei propri clienti, scelgono sicuramente il profitto.

Students

New York Times versus Apple

Il New York Times ha parlato con numerosi dipendenti Apple, con esperti di sicurezza e ha visionato documenti speciali prima di fare l’articolo, partendo da un concetto basilare: oggi tutti i prodotti della Apple vengono assemblati in Cina e sempre dalla Cina entrano nelle casse della Apple un quinto di tutti gli introiti mondiali.

Il professore universitario Doug Guthrie, assunto da Apple nel 2014 per trattare la questione cinese, ha spiegato al New York Times: «i lavoratori cinesi assemblano quasi ogni singolo iPhone, iPad e Mac. Apple si porta a casa 55 miliardi di dollari all’anno dalla regione, un profitto superiore a quello di qualunque altra azienda americana in Cina». Ed ovviamente, come in ogni business, vale il vecchio “do ut des”; dice ancora Guthrie: “se sei sposato alla Cina, devi darle qualcosa in cambio” ovvero dati personali, foto, chat, informazioni su conti, posizione degli utenti, video e via discorrendo.

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping

Nicholas Bequelin, direttore di Amnesty International per l’Asia ha detto al New York Times: “Apple è diventato un ingranaggio nella macchina della censura che presenta una versione di internet controllata dal governo; se si guarda al comportamento del governo cinese, Apple non oppone alcuna resistenza.”

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping, la censura della Cina
La Cina censura il Web

Oltre a passare al governo cinese dati sensibili dei propri clienti, Apple aiuta la Cina nella censura. In che modo? Apple non fa entrare nel proprio App Store cinese migliaia di applicazioni, come ad esempio aggregatori di notizie di giornali stranieri, incontri gay, organizzazione di proteste democratiche e niente che abbia a che fare col Dalai Lama. Dal 2017 ad oggi sembra siano state cancellate ben 55mila applicazioni, mentre dal giugno 2018 a giugno 2020, Apple ha approvato il 91 per cento delle richieste della Cina, rimuovendo 1.217 app: nello stesso periodo, in tutto il resto del mondo, la rimozione è stata di solo 253 applicazioni.

Le strategie per pagare molte tasse in meno

Un’altra contestazione fatta dal New York Times ad Apple riguarda le strategie grazie a cui l’azienda riesce a pagare meno tasse del dovuto. Strategie che consistono nella creazione di centri Apple molto importanti soprattutto in Stati dove le tasse sono minime rispetto a quelle che andrebbero a pagare negli Stati Uniti. Naturalmente Apple non è l’unico fra i giganti high tech a utilizzare questi sistemi, al contrario. Forse ci vorrebbero delle leggi che, banalmente, rendano certi metodi illegali, sia negli Stati Uniti che in buona parte dell’Europa.

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping. Strategia per pagare molte meno tsse

Apple secondo Pavel Durov

Quello che ha scritto il sempre ben informato Pavel Durov, creatore e proprietario di Telegram, in seguito all’articolo del New York Times: “Apple è molto efficiente nel portare avanti il proprio modello di business, che è basato sul vendere hardware obsoleto e molto costoso a dei clienti bloccati nel loro ecosistema. Ogni volta che devo usare un Iphone per testare le nostre app per Ios mi sento come se mi avessero spedito nel Medio Evo. I display da 60 Hz degli Iphones non possono competere con quelli da 120 Hz dei più recenti smartphone Android. Ma la cosa peggiore di Apple non è nemmeno l’hardware datato e i peggiori device, ma il fatto che, se possiedi un Iphone, diventi uno schiavo digitale della Apple: hai il permesso di usare solo quelle app che la Apple ti lascia installare tramite il loro app store e per il backup dei dati puoi solo usare l’ICloud della Apple. Non c’è da meravigliarsi che l’approccio totalitario della Apple piaccia così tanto al partito comunista cinese, che grazie ad Apple ha adesso il completo controllo dei dati e delle app che appartengono ai cittadini cinesi che si affidano agli Iphones.”

New York Times abbandona Apple news

Come mossa successiva il New York Times ha deciso di rimuovere i propri contenuti da Apple News, che è il servizio in abbonamento di Apple che offre l’accesso a centinaia di quotidiani, riviste e magazine digitali come The Wall Street Journal, The Los Angeles Times e prodotti editoriali dell’editore Condé Nast.

“Apple News non si allinea con la nostra strategia di finanziare il giornalismo di qualità costruendo una relazione diretta con i lettori che pagano” ha detto il New York Times, sottolineando come, secondo loro, i contenuti di qualità “dovrebbero essere giustamente ricompensati. Abbiamo fiducia nel fatto che continueremo ad avere una partnership forte con Apple attraverso altri prodotti”.

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping, il New York Times abbandona Apple news

Il NYT non è l’unico ad aver rinunciato al servizio; nel 2017 già il Guardian, inglese, aveva abbandonato Apple per poi tornare disponibile lo scorso marzo. Il Washington Post, invece, aveva sempre rifiutato di farne parte. Del resto il Times non poteva fare altrimenti, dopo aver definito Apple “Il braccio armato della censura in Cina”.

Apple: da Steve Jobs a Xi Jinping? Come risponde Apple

Il colosso di Cupertino, città californiana nel centro della Silicon Valley, ha risposto in modo molto fiacco alle accuse del New York Times, senza dire una sola parola sulle questioni che riguardano censura e libertà in Cina, né sulla questione tasse ma facendo un generico discorsetto dove si autoincensa in quanto creatore di posti di lavoro nel mondo:

“Negli anni scorsi, siamo riusciti a creare un’incredibile quantità di posti di lavoro. Il centro fondamentale risiede ancora negli USA con oltre 47’000 impiegati a tempo pieno, sparsi in circa 50 stati. Focalizzando l’attenzione solamente sull’innovazione, siamo riusciti a creare, partendo da zero, nuovi prodotti ed industrie portando lavoro ad oltre 500’000 persone in tutti gli Stati Uniti; in tale cifra non sono presenti solamente i nostri dipendenti, ma coloro che creano le componenti per i prodotti sino a quelli che le consegnano direttamente ai clienti. Noi produciamo parti negli USA che poi vengono esportate in tutto il mondo, gli sviluppatori Statunitensi creano delle applicazioni vendute anch’esse in oltre 100 paesi. Per i suddetti motivi, l’azienda è da considerarsi come uno dei principali creatori di posti di lavoro degli ultimi anni.

Parallelamente abbiamo continuamente contribuito a determinate attività di beneficenza e non abbiamo mai ricercato pubblicità. Abbiamo sempre cercato di focalizzarci sulla scelta giusta e non sui meriti che avremmo ottenuto in seguito. Apple dirige il suo business con i più alti standard etici, in rispetto delle leggi e delle regole imposte. Siamo veramente fieri del nostro contributo.”

Apple è veramente fiera del suo contributo. Così come i vari Musk, Zuckerberg, Gates, Bezos, tutti fieri sicuramente dei propri miliardi. Fossi in loro, parole come etica, scelta giusta, rispetto eviterei di usarle. Se non altro per decenza.

Una storia su Chet Baker

Una storia su Chet Baker: Chet by Bruce Weber

Il titolo “Una storia su Chet Baker” viene da una frase di Bruce Weber, famoso fotografo e regista: “Tutti avevano una storia su Chet, ho voluto fare quel film per avere anch’io la mia storia su di lui…”

In questo articolo c’è la mia storia su Chet Baker, ottenuta grazie ai ricordi di un musicista che ha avuto il privilegio di essergli amico e di suonarci insieme negli anni ’80, quando Chet viveva principalmente in Italia e faceva tour in Europa.

Perché raccontare un’altra storia su Chet Baker è così importante? Perché Chet non è stato solo il più grande trombettista jazz, insieme a Miles Davis, ma un personaggio che sembrava nato per aderire perfettamente alla leggenda, all’epica, un vero e proprio anti-eroe venuto al mondo per creare musica divina e per pagare, con un forte istinto autodistruttivo, quel talento così speciale e raro che viene donato solo agli artisti eccezionali. Pagare questo dono l’ha portato a scegliere una compagna impegnativa come l’eroina, unica compagna che lui non ha mai abbandonato e da cui non è mai stato abbandonato, per la quale si è cacciato nei guai più volte e, in alcuni casi, molto, molto seriamente, compresa la sua morte.

Chet

Se non avessimo un milione di prove del fatto che Chet sia vissuto realmente, tenderemmo a pensare che sia stato creato da qualche grande scrittore o sceneggiatore americano e magari portato sullo schermo da un attore meraviglioso come Edward Norton o Willem Dafoe. Fin dalle sue prime apparizioni, le storie e le voci su Chet e i suoi miracoli alla tromba hanno iniziato a girare con veemenza: il fotografo Bill Claxton raccontava che Bird, dopo aver ascoltato Chet suonare per la prima volta, chiamò Miles Davis e Dizzie Gillespie per dirgli: “C’è un jazzista bianco qui fuori che vi darà un bel po’ di filo da torcere”. La prima moglie di Chet raccontava che a lui piaceva suonare la tromba sotto alla doccia perché era convinto che il suono ne guadagnasse. Sembra che per calmarsi, almeno una volta Chet si sia fatto Parigi-Roma a piedi. Sam Shepard raccontava di quella volta, a casa di Charlie Mingus, dove aveva incontrato questo strano tipo vestito con pantaloni da cavallerizzo e frustino, senza camicia né altro, e si trattava ovviamente di Chet. All’inizio degli anni ’50 qualcuno gli presentò James Dean, e Chet si limitò a dirgli “Salve” per poi andarsene per la sua strada.

Una storia su Chet Baker: let’s get lost

Bruce Weber ha girato l’unico film documentario su Chet “Let’s get lost” (nomination all’Oscar fra i documentari e Gran Premio della Critica alla Mostra del cinema di Venezia del 1989) proprio negli ultimi mesi di vita del musicista – con tutte le complicazioni derivate dal riuscire a star dietro a un personaggio che aveva la capacità assoluta di sparire spesso e volentieri. “In qualsiasi momento poteva succedere che si alzasse e se ne andasse, che se la prendesse con qualcuno o che ti desse un pugno, o che invece si sedesse tranquillo e fosse gentile da morire” spiegano i produttori del documentario. La rivista “Entertainment Weekly” scrisse che Weber aveva creato “l’unico documentario che funziona come un romanzo, che ti porta a leggere tra le righe della personalità di Baker, fino a farti toccare la tristezza segreta nel cuore della sua bellezza”.

Una storia su Chet Baker: Let's get lost film by Bruce Weber

Quando vita e arte diventano una cosa sola

Io credo che, come per ogni personaggio mitico o leggendario – poco importa che sia reale come Chet o immaginario come Orfeo – vita e opere si mischiano in qualcosa di indissolubile. Un vero entanglement, se vogliamo usare un termine caro alla fisica. Impossibile parlare della musica di Chet senza parlare della sua vita e viceversa. Ma del resto questo vale per ogni vero artista che abbia abitato il nostro infelice pianeta. Parlando di Poeti, i primi che mi vengono in mente (a cui ne seguono molti altri) sono Sylvia Plath, Emily Dickinson, John Berryman, Dylan Thomas, John Keats, Cesare Pavese, Alda Merini, Majakovskij,  mentre, se penso ai Musicisti, non posso non citare, oltre a Chet, Bird, Billie, Jimi, Jim, Janis, Kurt, Layne, Syd Barrett, Amy, Chester, Scott e tanti, tanti altri che hanno dovuto pagare il loro tributo di sofferenza e sangue alla terribile Euterpe, Musa della poesia lirica e della musica, che mai e poi mai elargirà gratis il suo preziosissimo dono.

La vita nomade di Chet

In questo articolo racconto momenti della vita di Chet Baker in Italia, dalla metà degli anni 70 fino al 1988, quando è morto ad Amsterdam, città che peraltro lui amava moltissimo. La sua è stata una morte violenta ma anche misteriosa e cinematografica proprio come tutta la sua vita, da quando, giovane bellissimo e dotato di talento unico, incantava le platee e seduceva ogni donna con la sua tromba e la sua voce dolce e “leggera come vento” fino al massacro in California quando, spacciatori o strozzini gli hanno spezzato i denti dell’arcata superiore, rendendogli quindi impossibile suonare la tromba. Per tre anni Chet ha lavorato sedici ore al giorno da un benzinaio, per sopravvivere, con grande difficoltà, con indicibile dolore fisico finché è riuscito a farsi “rifare i denti”, col denaro che non aveva (forse regalatogli da un suo fan) ma soprattutto dimostrando di avere una forza di volontà epica nel riuscire di nuovo a suonare la tromba con denti posticci, probabilmente il primo al mondo nel riuscire in quest’impresa.

Una storia su Chet Baker: Chet, 1954, by  Bobby Willough

Per poi ripartire alla grande, con la sua tromba unica, con la sua vita tossica e nomade. Dice ancora Bruce Weber: “Vedi Chet a 24 anni, un giovane musicista che suonava con Charlie Parker, e poi a 58 anni era come se dentro ne avesse ancora 24. Se avessi riunito un mucchio di vecchi musicisti per suonare con lui, se ne sarebbe andato via subito. Non vedeva se stesso come un cinquantottenne rugoso. Si vedeva come uno di quei ragazzi.” Perché lo era, giovane. Il suo spirito era quello di un ragazzo, così come esistono molti ragazzi che hanno uno spirito da anziani. Il nostro spirito invecchia o non invecchia in modo del tutto scollato dalla nostra età anagrafica e spesso le due età non coincidono affatto. Chet era un classico caso di spirito “forever young”.

Una storia su Chet Baker

La persona che molto gentilmente e amichevolmente ha condiviso con me alcuni fra i suoi ricordi preziosi ma anche, parzialmente, dolorosi è stato amico di Chet e ha suonato con lui negli anni 70 e 80. Non vuole essere nominato, visto che si parlerà di musica ma anche, come è ovvio, di eroina. È un musicista e lo chiameremo Marvin.

“Era fine giugno 1977 e Chet Baker aveva preso in gestione per uno o due mesi un locale che io conoscevo, a Roma, si chiamava Music Inn, dove lui aveva già suonato in passato. Una mattina vedo una vecchia macchina lì davanti al Music Inn, lui scende e io lo riconosco – anche perché avevo comprato i suoi dischi recenti dove la sua faccia non era più quella da giovane ragazzino belloccio – e gli chiedo: “Sei Chet Baker?” “Sì sì” fa lui. Allora lo aiuto a portare dentro questo grosso impianto musicale. Poi sono andato tutte le sere ad ascoltarlo: lui suonava in trio con un pianista americano e un contrabbassista di Roma, e lì ci siamo conosciuti. Io dopo una settimana sono partito militare e per un po’ non ho più visto nessuno. Poi l’ho rincontrato negli anni 80 che veniva a suonare a Roma e qualche volta mi ha invitato a suonare con lui, in questo modo: durante i concerti lui mi vedeva mentre stavo fra il pubblico e mi chiedeva se volevo salire a suonare e ovviamente salivo sul palco e suonavo al contrabbasso un paio di brani con lui.

Gli anni ’80, jazz ed eroina

Poi l’ho frequentato anche per altre cose. Nell’83, 84, 85 ci siamo incontrati un sacco di volte. Ci siamo incontrati a Trastevere e io gli ho dato qualche numero di telefono perché lui aveva bisogno di rifornirsi di eroina. Lui andava in giro per le piazze dove finti spacciatori gli prendevano i soldi e sparivano, o comunque gli affibbiavano roba di qualità infima e tagliata in modo pericoloso. Una volta l’ho proprio presentato e accompagnato da uno spacciatore “serio” e quindi, probabilmente, la grande simpatia che è nata fra di noi è dipesa anche dal fatto che io l’ho aiutato in un momento in cui aveva bisogno d’aiuto e mi ha riconosciuto come una sorta di anima affine. Poi abbiamo inciso un disco con un cantante brasiliano, Ricky Pantoja Lete e Chet ha partecipato; io ho suonato, fra gli altri, in un brano di Pantoja Lete, “Arborway” che è poi diventato uno dei suoi cavalli di battaglia; di questo disco è uscita una versione cantata, in Italia e una versione strumentale in Brasile, ma è uscito anche nel mondo: in Giappone si chiamava “Chet Baker meets Ricky Pantoja” e io ho fatto la base col basso elettrico e stavo in studio quando lui sovraincideva la tromba, così abbiamo passato qualche giorno in studio insieme.

Chet by Bruce Weber

In quel periodo io suonavo in un locale a Trastevere, tutte le sere e Chet spesso veniva a trovarmi e si metteva a improvvisare con la voce. Poi ho suonato con lui per intero in un unico concerto, il 20 marzo 1988, a Bologna, 6 mesi prima della sua morte assurda ad Amsterdam. Avrei certamente potuto suonare molto di più con lui, ma da un certo momento ho voluto stare fuori da quell’ambiente, perché, suonando e andando in giro con Chet, eri per forza coinvolto nell’eroina. Dopo il concerto di Bologna uno che suonava con lui mi disse “Domani andiamo a Verona e compriamo una bella quantità di roba”: in quegli anni Verona era uno dei punti più famosi per lo spaccio d’eroina in Italia, e quindi, se solo ti sapevi muovere, trovavi ottima qualità e ottimi prezzi. Io, invece, decisi di tornare a Roma. Gli anni 80, qui in Europa e particolarmente in Italia, erano così. Visto che io, dopo un primo periodo, ho fatto in modo di non toccare più eroina, non volevo restare coinvolto in cose che invece cercavo di evitare. Nel mondo del jazz, all’epoca, si facevano proprio in tanti d’eroina; gli americani venivano a lavorare in Europa perché qui erano meno perseguitati che negli Stati Uniti e facevano la spola fra Parigi, Amsterdam, Berlino, Italia; ci sono un sacco di nomi famosi, fra i jazzisti che all’epoca erano eroinomani ma voglio solo nominare un italiano, Massimo Urbani, grande sassofonista, persona bellissima con cui ho suonato molto e che è morto d’overdose.

Aneddoti

Fra gli aneddoti curiosi dell’epoca c’era questa cosa di chiamarsi “man”. Quando dicevi lui è man, significava uno del giro, uno che ha a che fare con la roba. Ed era proprio un appellativo legato esclusivamente ai musicisti jazz che facevano uso d’eroina.

Chet era come se avesse un gemello o un doppleganger: lo vedevi la sera a Trastevere che sembrava un cane randagio, poi il giorno dopo partiva e andava a suonare in un festival importantissimo con un aspetto meraviglioso. Una volta, che dovevamo suonare insieme a Nostra Signora dei Turchi, in Puglia, noi arrivammo e lui sparì. Non venne proprio, ed era famoso per sparire, non presentarsi anche ad appuntamenti importanti perché era sempre condizionato dall’approvvigionamento di eroina.

Di donne ufficiali ne ha cambiate molte: i primi anni stava con una newyorkese figlia di persone ricche e anche lei cantava e si chiamava Ruth Young; poi si lasciarono e si mise con una sassofonista che però lo teneva sotto controllo. Una volta andai in albergo a salutarlo e lei arrivò sospettosa, dicendo “No stuff, smoking ok”. In pratica: niente roba, ma se vogliamo farci una canna va bene.

Una storia su Chet Baker: my foolish shit

Molti l’hanno odiato, anche se adesso non hanno il coraggio di dire niente contro di lui. Ormai è leggenda e nessuno ha il coraggio di andare contro una leggenda. Bisogna anche considerare che molti di quelli della sua età erano bacchettoni, lo vedevano come una specie d’alieno, non riuscivano a rapportarcisi, e anche il fatto che invece fosse così bravo e dotato magari li infastidiva. Lui era uno che ne aveva fatte di cotte e di crude, non potevi paragonarlo a un musicista che lavorava all’orchestra della Rai e poi la sera andava a suonare jazz tanto per fare qualcosa di diverso. Chet era un personaggio enorme, il più grande trombettista jazz mai esistito, insieme a Miles Davis. E poi aveva una musicalità pazzesca, che ti trasmetteva ascoltandolo ma suonandoci insieme anche di più, perché era come se la musica lo attraversasse, letteralmente. Era nato in Oklahoma, ma in parte era di origini native americane, e forse da lì veniva la sua magia. Piccolo, magrolino ma forte, sapeva arrampicarsi come una scimmia e amava farlo, e poi era nomade nell’anima, un vero viaggiatore. Negli ultimi tempi si era comprato un’Alfa Romeo Spider di cui era molto fiero e ci viaggiava in giro per l’Europa.

Con me è sempre stato gentile, simpatico, non mi ha mai fatto nulla di negativo, c’è sempre stato, fra di noi, un rapporto fra persone che si capiscono. Io ho sempre provato una grande attrazione verso di lui, era come una calamita. Non mi ha mai deluso. Avrà sicuramente deluso altri, ma con me è stato sempre corretto. Era molto serio nella musica. So per certo che mi stimava. Quando suonammo a Bologna, dopo un assolo di contrabbasso lui si girò e mi fece un sorriso, che era per lui una cosa molto rara, anche perché quando i suoi musicisti suonavano male lui invece si incazzava e li maltrattava. In un’occasione, a un musicista che, secondo Chet, aveva fatto una brutta performance durante “My foolish heart” disse, dopo il concerto “Questo non era my foolish heart, questo era my foolish shit”.

Chet Baker era introverso, per niente chiacchierone, e quando stava sul palco, poteva essere fatto oppure no, ma aveva sempre il controllo di tutta la musica che suonava lui e, la maggior parte delle volte, anche della musica suonata dagli altri del gruppo. Sul palco era un po’ come un lupo alpha, un leader assoluto, perfettamente in grado di condurre il branco alla mèta”

Portava la tromba alle labbra come una bottiglia di brandy

In un articolo a firma Stefano Marzorati ho letto una frase bellissima:

“Baker aveva negli occhi un non-so-che da cowboy, uno sguardo sempre un po’ fuori fuoco, portava la tromba alle labbra come una bottiglia di brandy, non suonava ma la sorseggiava.”

Di sicuro Chet Baker era uno su un miliardo. Il tipo che ti spezza il cuore. Era un combattente, forte come pochi. La tristezza segreta nel cuore della sua bellezza è sempre stata il motore della sua esistenza. Ciò che l’ha reso leggenda, insieme alla sua tromba sorseggiata. Il motivo per cui tutti noi lo ameremo per sempre.

Chet Baker 1986 by John Claridge

Questa foto è un ritratto fatto da John Claridge nel 1986. John Claridge: “Mentre fotografavo Chet gli dissi – ehi, mi ricordo un tuo EP che comprai, si chiamava Winter Wonderland e c’era Russ Freeman al piano. Chet disse Sì, nel 1953. Poi smise di parlare e rimase così, forse a fissare il tempo passato. In quel preciso momento io scattai questa foto”. Ecco un’altra storia su Chet Baker…

Con enorme gratitudine ringrazio “Marvin”, persona bella e rara, ottimo musicista, per i ricordi che ha voluto condividere con me

Mondo reale e mondo distopico a confronto

“Non amo molto la vita. A meno che lottare continuamente contro i mulini a vento non significhi amare la vita.”

Yukio Mishima

Da dove parte “Mondo reale e mondo distopico a confronto”? Rileggendo Brave New World dopo anni e anni, ho scoperto che, in realtà, il mondo terrificante ipotizzato da Huxley è un’isola felice se lo compariamo al nostro mondo di oggi, Anno Domini 2021. Rileggere da adulti libri che avevi letto da ragazza/o è appassionante: a volte scopri che quello che ti sembrava un capolavoro si è trasformato in un libretto, a volte scopri il contrario, oppure, come in questo caso, ti rendi conto che i tasselli del mosaico sono aumentati e la tua visione è più chiara, quindi diversa. Non è mai, comunque, il tempo che passa ad aver cambiato la tua visione perché il tempo non passa. Siamo noi a passare. O forse, come scrisse Phlip K.Dick in uno dei suoi discorsi geniali nel 1978 “Il tempo fugge. Verso dove? Forse duemila anni fa ci è stato rivelato. O forse non era così tanto tempo fa: forse è solo un’illusione che sia passato tanto. Forse è stato una settimana fa, o addirittura oggi stesso, poco fa. Forse il tempo non sta solo fuggendo: sta finendo.”

Mondo reale e mondo distopico a confronto: Philip K.Dick
Philip K.Dick

Brave new world versus mondo reale

In che modo, dunque, il nostro mondo attuale si rivela peggiore del mondo creato da Aldous Huxley? Per chi non avesse letto Brave new world, cercherò di riassumere: nel nuovo mondo di Huxley non esiste famiglia né innamoramento e c’è un sistema di caste molto rigido, sistema di caste che è sostanzialmente uguale a quello del mondo reale in cui viviamo. Le caste di Huxley, però, non tramandano, come nella realtà, soldi, privilegi o povertà di padre in figlio, ma i bambini vengono scelti, casualmente, fin da quando sono embrioni e subito condizionati a diventare un tutt’uno con la casta a cui dovranno appartenere.

Aldous Huxley

“Noi, inoltre, li predestiniamo e li condizioniamo. Travasiamo i nostri bambini sotto forma d’esseri viventi socializzati, come tipi Alfa o Epsilon, come futuri vuotatori di fogne o futuri…” Stava per dire: futuri Governatori Mondiali, ma correggendosi disse invece: “futuri Direttori di Incubatori”… Il tutto, però, con una notevole attenzione alla serenità, se non alla felicità, delle creature umane che andavano a costruire: la frescura era indissolubilmente unita al disagio, sotto forma di Raggi X non attenuati. Quando giungeva il momento del travasamento, gli embrioni avevano un vero orrore per il freddo. Erano predestinati ad emigrare ai tropici, ad essere minatori e filatori di seta all’acetato e operai metallurgici. Più tardi si farebbe in modo che la loro mente confermasse il giudizio del loro corpo. “Noi li mettiamo nella condizione di star bene al caldo” concluse Foster “i nostri colleghi di sopra insegneranno loro ad amarlo.” “E questo” aggiunse il Direttore sentenziosamente “questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare. Ogni condizionamento mira a ciò: fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale.

Ma il condizionamento senza parole è rude e grossolano; non può mettere in rilievo le distinzioni più sottili; ma può inculcare i modi di comportamento più complessi. Per questo sono necessarie le parole, ma parole senza ragionamento. Vale a dire, l’ipnopedia: la massima forza moralizzatrice e socializzatrice che sia mai esistita.”

L’ipnopedia non è altro che una sorta di condizionamento che avviene durante il sonno dei bambini: le stesse frasi vengono ripetute costantemente, come un mantra, e notte dopo notte entrano nei circuiti del corpo umano e prendono spazio nelle menti dei bambini. Questo condizionamento fa sì che non ci siano caste che invidiano i privilegi altrui o che cerchino di ribaltare il sistema. I bisogni materiali di tutti sono soddisfatti e tutti sono indispensabili alla società. I libri e la cultura sono stati aboliti, così come la storia o la filosofia. La religione, invece, ha sempre una sua funzione: a Dio hanno dato un altro nome, Ford, ma per il resto viene citato in modo non troppo dissimile ma dandogli decisamente meno importanza. Al contrario del mondo di Orwell, dove il sesso è proibito, nel nuovo mondo di Huxley invece il sesso è fortemente praticato, anche se mai in forma romantica: non ci sono coppie, né innamorati e il sesso è una specie di sport molto divertente, dove tutti si sentono liberi e libere di farlo con chiunque trovino attraente.

Mondo reale e mondo distopico a confronto: vecchiaia e malattie

Mondo reale e mondo distopico a confronto

In cosa invece il mondo di Huxley è uguale al nostro? Nel consumismo sfrenato che lo caratterizza. Una delle tipiche frasi che vengono ripetute ai bambini nell’ipnopedia è “Meglio buttare che aggiustare. Più sono i rammendi e minore è il benessere; più sono i rammendi e minore è il benessere” che significa che tutti, uomini e donne, saranno costretti a consumare almeno un tot per anno, nell’interesse dell’industria.

L’altra grande differenza fra il mondo di Huxley e quello reale è l’eliminazione di malattie e vecchiaia: tutti restano giovani come se avessero vent’anni, ma, allo stesso tempo, tutti devono morire allo scadere del sessantesimo anno, o poco di più nei casi di personaggi importanti. Lo stato fornisce una morte indolore e meravigliosa, permettendo alla gente di scivolare nel sonno eterno senza dolore né ansia.

«Lavoro, gioco: a sessant’anni le nostre forze e i nostri gusti sono com’erano a diciassette. I vecchi, nei brutti tempi antichi, usavano rinunciare, ritirarsi, darsi alla religione, passare il loro tempo a leggere, a meditare… meditare!»

«Ora – questo è il progresso – i vecchi lavorano, i vecchi hanno rapporti sessuali, i vecchi non hanno un momento, un attimo da sottrarre al piacere, non un momento per sedere e pensare…”

Due dei protagonisti provano sgomento quando incontrano per la prima volta una persona vecchia:

«Che cos’ha?» chiese Lenina. I suoi occhi erano spalancati per l’orrore e lo stupore. «È vecchio, quest’è quanto» rispose Bernardo con tutta l’indifferenza di cui era capace. Anche lui era turbato; ma fece uno sforzo per non apparire colpito. «Vecchio?» ripeté lei. «Ma anche il Direttore è vecchio, tante altre persone son vecchie; ma non sono così.» «Perché non permettiamo loro di diventare così. Li preserviamo dalle malattie. Manteniamo bilanciate artificialmente le loro secrezioni interne, nell’equilibrio della giovinezza. Non permettiamo che la loro dose di magnesio e di calcio discenda al di sotto di ciò che era a trent’anni. Li sottoponiamo a trasfusioni di sangue giovane. Manteniamo il loro metabolismo frequentemente stimolato. Così, naturalmente, non hanno quest’aspetto. In parte» aggiunse «perché la maggioranza d’essi muoiono molto tempo prima d’aver raggiunta l’età di questo vecchio. La gioventù quasi intatta fino a sessant’anni, e poi, crack, la fine.”

In questo il Brave new world è l’esatto contrario del mondo reale, dove l’età media è sempre più alta ma, allo stesso tempo, aumentano le malattie e i tormenti della vecchiaia e la morte, spesso, avviene in seguito a qualche malattia terribile, dopo mesi o anni di sofferenza.

Mondo reale e mondo distopico a confronto: la droga perfetta

Mondo reale e mondo distopico a confronto
Mondo reale e mondo distopico a confronto

Ma quello che rende insuperabile il mondo di Huxley è la creazione della “droga perfetta” detta soma, termine mutuato dalla bevanda degli dei nel RgVeda, usata anche per praticare sacrifici: “Noi abbiamo bevuto il Soma e siamo divenuti immortali. Noi abbiamo raggiunto la luce, abbiamo incontrato gli Dei. Che cosa può fare a noi la malvagità dell’uomo mortale o la sua malevolenza, o Immortale?” (RgVeda, VIII-48,3)

Perché il soma, nel Brave new world è considerata “la droga perfetta”? Ecco come la descrivono, nel libro:

«Euforica, narcotica, gradevolmente allucinante.» «Tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcool; nessuno dei difetti.» «Potete offrirvi un’evasione fuori della realtà quando volete e ritornate senza neanche un mal di capo o una mitologia.»

O, più nello specifico: “nessuno ha un momento, un attimo da sottrarre al piacere, non un momento per sedere e pensare; o se per qualche disgraziata evenienza un crepaccio s’apre nella solida sostanza delle loro distrazioni, c’è sempre il “soma”, il delizioso “soma”, mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per una oscura eternità nella luna.”

Alla fine, anche il mondo di Huxley sicuramente molto  organizzato e più piacevole rispetto al nostro, solido, stabile, milioni di volte meno ansiogeno, senza guerre né rivoluzioni, dove ognuno è stato condizionato per amare quello che fa e quello che è, dove non esistono malattie né pandemie, dove la specie umana non aumenta esponenzialmente e non esiste l’inquinamento, alla fine, anche questo mondo, per restare in piedi ha bisogno di qualcosa in grado di calmare le menti e di permetterci di fuggire in una dimensione immaginaria: una droga, insomma. E la cosa più interessante è che tutti, nel mondo di Huxley, hanno bisogno di soma, dagli Epsilon definiti “quasi aborti” agli evoluti Alpha plus. Un po’ come riconoscere che noi umani siamo tutti molto diversi l’uno dall’altro, tranne che per un piccolo particolare: l’incapacità di controllare la nostra parte emotiva e l’estrema difficoltà nel maneggiare la nostra mente, che sia una mente stupida o una mente brillante.

Mondo reale e mondo distopico a confronto: perché scegliere il mondo distopico

Fin qui se dovessi scegliere fra il nostro mondo attuale e il Brave new world di Huxley sceglierei di corsa il secondo. Prima di tutto Huxley ci libera dalla famiglia e dalla “coppia”, entrambe alla base della maggior parte delle nostre infelicità, delle nostre frustrazioni, dei disastri della società. Poi elimina la monogamia, grande ipocrisia della nostra società: il sesso diventa finalmente un piacere, da fare con chi vogliamo e per quanto tempo vogliamo, senza false promesse di fedeltà e di amore eterno. Poi ci regala una vita in cui restiamo giovani fino all’ultimo, senza malattie e senza vecchiaia, ma con un unico piccolo prezzo da pagare: a sessanta anni moriremo, senza soffrire, come un appuntamento che conosciamo da tempo ma che non temiamo. Le suddivisioni in ricchi, poveri, lavoratori di fatica e gente che praticamente non fa un cazzo esisterà ancora – impossibile eliminarla in un regime capitalista – ma non dipenderà dall’appartenenza a famiglie potenti o, al contrario, a famiglie di poveracci, bensì solo al caso, e il condizionamento farà sì che tutti siano fieri di appartenere alla casta cui appartengono senza sentirsi né sfruttati né privilegiati.

Il Soma

Mondo reale e mondo distopico a confronto: il soma, la droga perfetta di Huxley

Infine, come una gigantesca ciliegina sulla torta, Huxley ci regala il soma. Una droga legale, addirittura distribuita dallo Stato, ma che soprattutto non crea effetti collaterali: niente vomito, mal di testa, overdose, viaggi all’inferno. Ogni serata, o pomeriggio, o nottata trascorso col soma sarà come un sonno di bellezza: torneremo a “casa” riposati, rinfrancati, sereni e col fisico in gran forma. Certo, come possiamo vedere dal personaggio di Lenina, la giovane e bellissima ragazza Alpha, a forza di usare il soma ne vogliamo di più e poi di più e ad ogni minimo intoppo o piccolo incidente che la vita ci presenta ricorriamo subito al soma; ma del resto, per quanto possa essere una droga perfetta, il soma è pur sempre una droga, e quindi si comporta come una droga. Non si può chiedere l’impossibile.

Ma, per quanto mi riguarda, il soma da solo già basterebbe per scegliere il Brave new world rispetto al nostro mondo attuale. In fondo il Brave new world di Huxley è una via di mezzo fra Matrix ed una Spa da Vip, dove, insieme a massaggi e bagni in piscina ci sono, a disposizione, tutti i nuovi ritrovati della chimica per sentirsi alla grande. Il nostro mondo reale, invece, è sempre più disperato, senza vie d’uscita che non siano solo momentanee, costose, illegali e molto tossiche per l’organismo umano.

Mondo reale e mondo distopico a confronto: perché non scegliere il mondo distopico

E quindi, cosa c’è nel mondo di Huxley che non va bene? O meglio, che cosa manca al mondo di Huxley? Al mondo di Huxley, molto banalmente, manca la cultura. Manca la cultura e manca l’arte, per scelta dei leader del nuovo mondo. È esplicativo il dialogo fra il leader massimo, il Governatore Mustafà Mond e il ragazzo detto “il Selvaggio” perché vissuto, fin da piccolissimo, nell’ultima riserva abitata da indios che non si sono voluti uniformare al nuovo modo di vivere. In questa riserva la gente vive in coppia, i bambini vengono cresciuti dai genitori e, di tanto in tanto, è ancora possibile trovare libri antichi che sono sfuggiti alla distruzione. Il Selvaggio, ad esempio, è riuscito a trovare un volume con tutte le opere di Shakespeare, e la vita, ormai, ha per lui un senso solo in un’ottica shakespeariana.

 «Perché il nostro mondo non è il mondo di “Otello”. Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole, e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve. E se per caso qualche cosa non va, c’è il “soma”… che voi gettate via, fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio.

“Libertà”!» si mise a ridere. «V’aspettate che i Delta sappiano che cos’è la libertà! Ed ora vi aspettate che capiscano “Otello”! Povero ragazzone!»

Il Selvaggio restò un momento in silenzio. «Nonostante tutto» insistette ostinato «”Otello” è una bella cosa, “Otello” vale più dei film odorosi».

«Certo,» ammise il Governatore «ma questo è il prezzo con cui dobbiamo pagare la stabilità. Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte.

Ora abbiamo i film odorosi e l’organo profumato.»

«Ma non significano nulla.»

«Hanno un senso loro proprio. Rappresentano una quantità di sensazioni gradevoli per il pubblico.»

«Ma sono… sono raccontati da un idiota.»

Il Governatore rise.

«Ha ragione lui» disse Helmholtz, triste. «Infatti è idiota. Scrivere quando non si ha nulla da dire…»

«Precisamente. Ma ciò richiede la massima abilità. Si fabbricano le macchine col minimo assoluto di acciaio, e le opere d’arte praticamente con nient’altro che la sensazione pura.»

Quanto sono pericolose arte e cultura?

Yukio Mishima, Tokyo, 1970

Questo, a mio parere, è il punto focale del libro e della questione. La vera arte, la grande arte, la cultura sono quanto di più pericoloso possa esistere nei confronti dello status quo. L’unico vero nemico, il più minaccioso. E questo lo vediamo bene anche nel nostro mondo reale, dove la cultura, piano piano, è stata sostituita, in ogni campo, da una sottocultura insopportabilmente becera. Perché l’arte, come dice il Governatore, uccide la stabilità, ma è anche nemica della felicità. O almeno, considerando la felicità come un punto impossibile da raggiungere in mezzo a qualche Galassia lontana, in un mondo privo di cultura possiamo autoconvincerci di avere quel punto in tasca, sebbene sia così distante; in un mondo infestato dalla cultura, invece, non possiamo che arrivare alla consapevolezza che quel punto felice resterà sempre laggiù, dove non saremo mai in grado di raggiungerlo.

La cultura dunque serve a creare conoscenza, ma la conoscenza ci rende infelici. Mishima dice, in un articolo del 1970: “In questi venticinque anni la conoscenza non mi ha procurato che infelicità. Tutte le mie gioie sono scaturite da un’altra sorgente – ed aggiunge – in questi venticinque anni ho perso ad una ad una tutte le mie speranze, ed ora che mi sembra di scorgere la fine del mio viaggio, sono stupito dall’immenso sperpero di energie che ho dedicato a speranze del tutto vuote e volgari.”

Io concordo con ogni parola di Mishima, non solo perché lo amo come scrittore e come uomo, ma forse perché sono nichilista quasi quanto lo è stato lui. Nonostante ciò, o forse, proprio per questo, continuo a scegliere il nostro vero mondo orribile, dove regna la diseguaglianza, la guerra, la miseria, il massacro, la malattia, la vecchiaia, al mondo distopico di Huxley, dove tutti questi orrori sono inesistenti. Perché un mondo senza cultura, senza arte, senza conoscenza, non mi interessa viverlo. Per quanta infelicità tutto questo mi possa portare.

Una sola poesia di Sylvia Plath, una sola opera di Eliot, un solo romanzo di Mishima, un solo quadro di Caravaggio, un singolo assolo di di John Frusciante porteranno nella mia vita bellezza, verità, fuoco, energia, significato. Se assieme a tutto questo arriverà anche l’infelicità, e so bene che sarà così, sono pronta a farmene carico.

Social Media e the Magic of Maybe

“Il Forse dà dipendenza più di ogni altra cosa.” Dr Robert Sapolsky, Stanford University, CA

Questo articolo su Social Media e the Magic of Maybe parte da una teoria e conferenza di uno scienziato, il Dr Robert Sapolsky, biologo, primatologo e professore all’Università di Stanford, CA. Sapolsky, di base espone già da una sola potente frase la sua teoria lucida e geniale:

“La dopamina non riguarda il piacere. Riguarda l’anticipazione del piacere. Riguarda la ricerca della felicità più che la felicità stessa.”

Social Media e the Magic of Maybe: il biologo Robert Sapolsky, Stanford University
Robert Sapolsky, biologo e primatologo, Stanford University

Dopamina e “soddisfazione istantanea”

Per iniziare: cosa è la dopamina e cosa la “soddisfazione istantanea”?

La dopamina è un neurotrasmettitore endogeno che troviamo in varie parti del nostro cervello ed è fondamentale per ogni funzione cerebrale, incluso il pensiero, il movimento, il sonno, l’umore, l’attenzione, la motivazione, la ricerca e la gratificazione. Aumenta il tuo livello generale di eccitazione e il comportamento finalizzato al raggiungimento di obiettivi a lungo termine.

Social Media e Magic of Maybe: Dopamina e Serotonina

Ma, dal momento che la dopamina può indurre il desiderio di ricerca e ricompensa, ecco come e dove si inserisce il concetto di “soddisfazione istantanea”.

La “soddisfazione istantanea” è l’immediato raggiungimento di gratificazione e felicità. È un modo di sperimentare il piacere e l’appagamento senza ritardi, senza bisogno di pazientare, fornendoci un picco di dopamina senza sforzo né autodisciplina. Esattamente come una qualsiasi droga, con la differenza che questa droga non è solo legale, ma addirittura spinta da tutti i governi del pianeta. È vero che si nasce dipendenti, da cibo e acqua, per iniziare, e si continua con la dipendenza da tutto ciò che ci richiedono in modo continuo e molesto corpo e mente (intesa come neurochimica del cervello), ma ci sono dipendenze più dannose di altre, e questa credo lo sia molto.

Con Internet e i Social, la soddisfazione istantanea del tuo desiderio di ricerca è disponibile già con un click. Puoi parlare con qualcuno solo mandandogli un messaggio e forse ti risponderà in pochi secondi. Tutte le informazioni che puoi volere sono disponibili subito cercandole su Google.

Social Media e Magic of Maybe: tutto questo come influenza la società?

Gli utenti provano un falso senso di appagamento. La gente ama la vibrazione dei loro cellulari che annuncia una nuova notifica, proprio perché non è prevedibile; nessuno sa esattamente quando e da chi arriverà una notifica.

Ecco perché Sapolsky parla di “Magic of Maybe”, la magia del forse: quando guardi il tuo cellulare forse c’è un messaggio o forse no. Quando vai su Facebook forse c’è una notifica, un commento, anche solo uno stupido like, oppure no. Quando notifica, feedback o like appaiono tu avrai un notevole picco di dopamina.

Ma quella sensazione di piacere scompare con la stessa rapidità con cui è arrivata. Purtroppo è facile ritrovarsi in un loop indotto di dopamina. La dopamina inizia con la tua ricerca, il tuo commento, il tuo interagire, che poi verranno premiati da risposte e like e, di conseguenza, sarai indotto a cercare e interagire ancora. Diventerà sempre più difficile smettere di mandare messaggi o di guardare il cellulare per vedere se hai nuove notifiche.

Tutto questo ha rappresentato l’apice per il successo di Facebook e degli altri Social. È anche grazie a questo che i Social Media hanno miliardi di utenti. Nel 2015 c’era un numero stimato di 2 miliardi di utenti nel mondo. In sei anni il numero è cresciuto vertiginosamente, ma soprattutto sono cresciute le ore che la gente passa sui Social Media, per non parlare della pandemia che, con le nuove regole del distanziamento e coprifuoco ha reso i Social l’unica forma di “socialità” al di fuori della famiglia per la stragrande maggioranza della gente. Se non sembrasse fantascienza (ma io amo la fantascienza) ci sarebbe da pensare che i proprietari di Internet, che oggi sono anche proprietari del mondo insieme a Big Pharma e alle lobbies delle armi e del cemento, siano stati proprio coloro che hanno spinto l’avvento del Brave New World pandemico.

Social Media e Magic of Maybe: I topi di Kent Berridge

Social Media e the Magic of Maybe: topi in laboratorio
Social Media e the Magic of Maybe: topi in laboratorio

Ci sono quindi molte persone totalmente dipendenti da questo loop indotto di dopamina ma non lo sanno.

L’effetto è semplice: uccide i desideri nelle persone, la motivazione e i comportamenti indirizzati al raggiungimento di obiettivi. I ricercatori citano, a questo proposito, un esperimento fatto sui topi da uno scienziato, Kent Berridge. Cosa è successo quando nei topi sono stati distrutti i neuroni della dopamina? I topi potevano ancora camminare, mordere, ingoiare. Ma avevano perso la loro aspettativa di desiderare cibo, e quindi sono tutti morti di fame. Non mangiavano niente anche se il cibo era lì, sotto ai loro nasi.

Per quanto riguarda noi umani, perché mai dovremmo essere motivati per raggiungere un obiettivo a lungo termine quando possiamo ottenere lo stesso senso di appagamento da un qualsiasi device, in pochi attimi, senza alzarci dalla sedia?

Il Magic of Maybe non è così magico, o forse sì?

Ovviamente, come in tutte le dipendenze, la possibilità di cambiare sta in noi. Possiamo cambiare il rapporto col nostro ICT (acronimo per Information and Communication Technologies), ovvero tutte le tecnologie che riguardano sistemi integrati di telecomunicazione, computer, smartphone, audio-video, software relativi, e tutto ciò che permette agli utenti di creare, scaricare e condividere informazioni. Possiamo pensarci due volte prima di correre su Facebook o Whatsapp. La scelta sta a noi: potremmo ritagliarci nuove abitudini, cambiare la nostra vita o continuare ad essere topi domestici nella gabbia dell’élite.

Non tutto è a distanza di un click o un tap. Immagino che la soddisfazione finale ottenuta grazie a duro lavoro, pazienza e stabilità sia qualcosa di molto più potente e duraturo di qualsiasi piccola stupida gioia ci possa regalare uno schermo. Ma lo immagino soltanto e, al momento – in modo del tutto alieno inteso come poco umano – sono immune al fascino del rewarding, che sia a lungo termine o immediato.

Ma certo, se vivere ha a che fare col concetto di viaggio, che divertimento ci darebbe mai un viaggio vissuto tramite lo schermo di un device? Eppure qualcosa mi dice che il “Magic of Maybe” è qualcosa a cui solo pochi siano pronti a rinunciare, e se lo facessero si trasformerebbero probabilmente in topi zombie.

Bene, se le cose, come credo, stanno così, alla prossima disinfestazione ricordatevi almeno dei topi, nostri compagni e fratelli in gabbia (e non per loro scelta). Un giorno i nostri padroni potrebbero disinfestare anche tutti noi, o forse lo stanno già facendo.

Sapolsky su Dopamina, Piacere e Social: dura forse 7 minuti, dovreste ascoltarlo

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto dovreste conoscere il 536

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto dovreste conoscere il 536 è la parafrasi del titolo di un articolo-discorso di Philip K.Dick risalente al 1977: “Se vi pare che questo mondo sia brutto dovreste vederne qualche altro.”

Nel corso di quella che chiamiamo storia gli anni che si ricordano per aver lasciato particolari devastazioni sono tanti: il 1348, anno dell’esplosione della Peste Nera in Europa; il 1918, anno in cui l’influenza spagnola, grazie anche alla guerra, ha ucciso fra i 50 e i 100 milioni di persone; il periodo della Shoah, fra il 1941 e il 1945. Ma, a quanto pare, l’anno più disastroso da quando esiste la storia sembra sia stato il 536 dopo Cristo, anno che ha segnato l’inizio di una cascata trofica che è durata quasi un secolo e ha quasi sterminato la specie umana. In principio sembra ci sia stata l’eruzione di un vulcano indonesiano; secondo uno storico giavanese del diciannovesimo secolo, Ranggawarsita “il mondo intero fu scosso fin dalle fondamenta, e si scatenarono violenti boati di tuono accompagnati da forti piogge e tremende tempeste… e infine il Kapi esplose con un ruggito terribile, andò in pezzi e sprofondò nelle viscere della terra.”

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto: Ragganwarsita. storico giavanese
Ragganwarsita, storico giavanese

Effetti dell’esplosione raccontati dalle fonti

L’esplosione fu così violenta da azzerare completamente la vita dei giavanesi, interrompendo addirittura la storiografia locale per almeno 20 anni, storiografia che aveva una tradizione più che ricca. Gli effetti dell’esplosione si sentirono principalmente nei due grandi imperi dell’epoca: l’Impero Cinese e l’Impero Romano. Per raccontare un evento storico, la cosa migliore è affidarsi alle fonti del periodo stesso, o alle fonti appartenenti a pochi secoli dopo, con tutti i documenti dell’epoca ancora integri fra le mani.

Giovanni Lido (‘Ιωάννης ὁ Λυδός), filosofo e studioso presso la corte bizantina, nato intorno al 490 d. C. racconta che nel 536 d.C. il sole divenne scuro per quasi tutto l’anno, tanto da impedire ogni tipo di raccolto.

Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator

Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator

Cassiodoro (Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator) nato intorno al 485 e morto il 580 circa, politico, letterato e storico romano, vissuto sotto il regno romano-barbarico degli Ostrogoti e successivamente sotto l’Impero Romano d’Oriente, ci descrive il crollo del mondo dopo l’esplosione: “Il sole sembra aver perduto la sua luminosità, ed appare di un colore bluastro. Ci meravigliamo nel non vedere l’ombra dei nostri corpi, di sentire la forza del calore del sole trasformata in debolezza, e i fenomeni che accompagnano normalmente un’eclisse prolungati per quasi un intero anno. Abbiamo avuto un’estate senza caldo… i raccolti gelati dai venti del nord … la pioggia sembra si rifiuti di cadere.”

E ancora, Michele il Siriano (ܡܺܝܟ݂ܳܐܝܶܠ ܣܽܘܪܝܳܝܳܐ) vescovo orientale cristiano ma anche scrittore, vissuto fra il 1126 e il 1199 in Siria, scrive: “Il sole si oscurò e l’oscurità durò 18 mesi. Ogni giorno splendeva per circa 4 ore, e ancora questa luce era solo una vaga ombra. Tutti dicevano che il sole non avrebbe più recuperato la sua piena luce. I frutti non maturarono e il vino aveva il sapore dell’uva acerba.”

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto dovreste conoscere il 536: Cosa accadde scientificamente

Da un punto di vista strettamente scientifico ecco, brevemente, cosa è accaduto: l’esplosione ha lanciato nell’atmosfera fra 10 e 80 chilometri cubi di materiale, creando una nube spessa fra i 20 e i 150 metri a sovrastare tutto il mondo. Il volume enorme di vapore acqueo nell’atmosfera ha parzialmente distrutto lo strato di ozono. Come conseguenza deve esserci stato un iniziale raffreddamento globale di almeno 10 gradi per 20 anni, seguito da un riscaldamento globale causato dal vapore acqueo residuo e dal calo dell’ozono. Le conseguenze climatiche dell’eruzione del 536 d.C. in ambito mondiale sono state confermate anche dalle ultime ricerche paleoclimatologiche, grazie alle analisi dei tronchi d’albero e delle carote di ghiaccio di tutto il mondo.

Ma se pensate che dopo quei venti anni di patimenti tutto sia tornato com’era prima vi sbagliate di grosso. La cascata trofica è un crollo ecologico, qualunque sia la causa scatenante, che si attacca alla catena alimentare e la porta giù con sé, fino in fondo al baratro.

536 d.C.: raffreddamento globale e Pandemia

Procopio di Cesarea (Προκόπιος ὁ Καισαρεύς), storico bizantino, vissuto tra il 460 e il 560 d.C. scrive, in “Storia delle guerre, III, 29”: nel 540 d.C. nel delta del Nilo, per la prima volta a memoria d’uomo, le semine vengono impedite a causa del lento ritrarsi delle acque del fiume, giunto ad un livello di piena di ben 18 cubiti. L’Egitto era la principale fonte di approvvigionamento di grano per Costantinopoli e quindi non poter seminare i terreni del Nilo era drammatico.

Ma questo è solo l’inizio. Sembra provato che fu proprio il raffreddamento climatico a provocare la peste detta “giustinianea” che decimò la popolazione europea fra il 540 e il 542. Il bacillo della peste muore sopra ai 30°C, e un notevole abbassamento delle temperature nella zona dei Grandi Laghi Africani, dove il bacillo era endemico ne ha probabilmente scatenato una diffusione di tipo epidemico prima e pandemico poi. A conferma di questa ipotesi sappiamo, sempre da Procopio, tramite la Storia delle guerre, II 22-23 , che la peste iniziò a diffondersi partendo dall’Egitto.

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto: Peste giustinianea nel Trionfo della Morte, Palermo
La peste giustinianea nel Trionfo della Morte, Palermo Palazzo Abellis, di Autore Ignoto

Paolo Diacono (Paulus Diaconus) monaco vissuto fra il 720 e il 799 d.C., in Historia Longobardorum, dice che nell’anno 590, il 23 ottobre, sui territori della Venezia, della Liguria e di altre regioni d’Italia si scatenò un diluvio di cui non si ritiene esserci stato l’eguale dai tempi di Noè. Il Tevere arrivò a scorrere sopra le mura di Roma, allagandone moltissimi rioni. Nell’anno successivo, invece, si registrò una terribile siccità: non piovve da gennaio a settembre, il Trentino fu invaso dalle locuste.

Se vi pare che il 2020 sia stato brutto dovreste conoscere il 536: riscaldamento globale

Ancora secondo Procopio da Cesarea in Storia delle guerre, IV,15 – senza indicare un anno preciso, in Asia Minore – l’autore sostiene che il prolungato spirare di venti da Sud causò un autunno così caldo che tutti gli alberi rifiorirono improvvisamente per poi coprirsi di frutti. L’uva, anche, ricomparve sulle viti. Evidentemente si era passati dall’era del ghiaccio al riscaldamento globale.

Procopio di Cesarea
Procopio da Cesarea

Riscaldamento globale che toccò il suo apice fra il 575 ed il 596 quando la temperatura europea crebbe fino a livelli simili a quelli attuali, se non addirittura ben al di sopra, come nel 595, probabilmente l’anno più caldo di tutta l’era volgare. La cascata trofica durò circa un secolo. Risalgono infatti al 645 d.C. circa le tracce da inquinamento da piombo, trovate nel ghiaccio, che mostrano come si fosse iniziato ad estrarre e separare l’argento dal piombo, per coniare monete, cosa che, come è ovvio, significava che l’economia fosse in ripresa.

Il 536 d.C. dei giorni nostri

Bringing it all back home” come direbbe Bob Dylan, ricollegando tutte queste informazioni al presente, sappiamo per certo che il lockdown ha frenato solo momentaneamente le emissioni inquinanti mentre il mondo sta per vivere i 5 anni più caldi mai registrati e non si avvicinerà nemmeno agli obiettivi concordati a Parigi per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto ai 2 ° C rispetto ai livelli preindustriali. Secondo le stime dell’Organizzazione meteorologica mondiale, le concentrazioni atmosferiche di CO2 hanno continuato ad aumentare fino a nuovi record. Le riduzioni delle emissioni di CO2 nel 2020 avranno solo un lieve impatto sul tasso di aumento delle concentrazioni atmosferiche, che, come è ovvio, sono conseguenza delle emissioni passate.

La temperatura media globale per il 2016-2020 è stata la più calda mai registrata, circa 1,1 ° C sopra quella del periodo 1850-1900 e 0,24 ° C più calda della temperatura media globale per il 2011- 2015.

Ma nel quinquennio 2020-2024, la possibilità che almeno un anno superi 1,5 ° C sopra i livelli preindustriali è del 24%. È molto probabile che uno o più mesi durante i prossimi cinque anni saranno almeno 1,5 ° C più caldi rispetto ai livelli preindustriali.

In breve, come dice Green-me: “In ogni anno tra il 2016 e il 2020, l’estensione del ghiaccio marino artico è stata inferiore alla media. Il periodo 2016-2019 ha registrato una perdita di massa dei ghiacci maggiore rispetto a tutti gli altri periodi di 5 anni dal 1950. Il tasso di innalzamento medio globale del livello del mare è aumentato tra il 2011-2015 e il 2016-2020.

I principali impatti sono stati causati da eventi meteorologici e climatici estremi, in molti dei quali è stata identificata la chiara impronta del cambiamento climatico indotto dall’uomo. Quest’ultimo sta influenzando i sistemi di sostentamento vitale, dalla cima delle montagne alle profondità degli oceani, portando ad un’accelerazione dell’innalzamento del livello del mare, con effetti a cascata per gli ecosistemi e la sicurezza umana.”

Quindi, se davvero vi pare che il 2020 sia stato un brutto anno, pensate al 536 d.C. e cercate di immaginare come saranno i prossimi anni. Non ci vuole troppa immaginazione, in realtà, ma sembra evidente che il nostro Titanic in rotta verso l’iceberg non abbia nessuna intenzione di cambiare direzione o di rallentare la marcia. L’iper-capitalismo e l’incredibile stupidità umana non lo permettono. Perciò, nel tempo che ci rimane, forse dovremmo ballare e cantare come fecero i passeggeri del Titanic, perché sappiamo tutti che la fine è nota.

Le più belle Sick Ballads del rock

Le più belle Sick Ballads del rock: Korn

Le più belle Sick Ballads sono state scritte e suonate in periodi diversi, dagli anni 70 fino agli anni zero. Una Sick Ballad è una canzone che racconta una storia che non ha nulla a che fare con una “inesistente normalità”: una storia disturbante, malata, autolesionista, perversa. Si potrebbe pensare che in ambito rock le Sick Ballads siano molte, ma non è così. Non basta che le parole siano disperate, ci vuole una concomitanza di musica, lyrics, voce per rendere la ballata disturbante e sublime così come le 9 canzoni che ho scelto.

Numero 9 “Something I can never have” dei Nine Inch Nails

Dal loro primo indimenticabile album “Pretty hate machine” del 1989

Il pianoforte di Trent Reznor – che sapeva già suonare a 5 anni ed ha poi completato molto presto gli studi al conservatorio – ripete lo stesso ipnotico riff per tutta la canzone e le lyrics girano a loop in una sorta di Wasted Land dove non c’è più posto per la salvezza. La voce e il pianoforte di Trent sono di una bellezza disperante e disturbante e, contemporaneamente, haunting e ansiogena. Alla fine della ballata le parole ci svelano che Trent non sta parlando di un amore perduto ma di se stesso: “Everywhere I look you’re all I see Just a fading fucking reminder of who I used to be”. Quindi, quel “Qualcosa che non potrò mai avere” è il ragazzo pieno di sogni e speranza che lui era una volta e che ormai non esiste più.

Numero 8 “Meds” dei Placebo

Dall’album “Meds” del 2006. I Placebo hanno sempre scelto di rappresentare, con la loro musica, una categoria di persone emarginate, categoria in cui si sono sempre riconosciuti pur essendo diventati famose rockstar.

Questa canzone bellissima parla di malattia mentale, di vita borderline, sempre al limite del crollo. “Ero solo a fissare giù dal cornicione facendo il mio meglio per non dimenticare ogni tipo di gioia ogni tipo di euforia e la nostra promessa eroica.” Oltre all’argomento, la scelta del ritornello dove una voce femminile continua a ripetere “Tesoro, hai dimenticato di prendere le tue medicine?” insieme alle ritmiche incalzanti e alla voce sempre meravigliosa di Brian Molko rendono la canzone una vera, bellissima Sick Ballad.

Le più belle Sick Ballads: Numero 7 “You cut her hair” di Tom Mc Rae

Dall’album “Tom Mc Rae” del 2000, del cantautore indie rock inglese Tom Mc Rae.

È strano come, ascoltando You cut her hair, la prima cosa a cui pensi è che stia parlando di un serial killer, ed è proprio l’ambiguità del testo, insieme a musica, voce e strumentazione a rendere la canzone haunting e meravigliosamente disturbante. In realtà lo stesso Tom ha spiegato che in questa ballata racconta la storia di una ragazzina rinchiusa nei campi di concentramento nazisti. “Il tempo ha colorato il bianco e nero” significa che molto tempo è trascorso da quello di cui si parla. “Brucia la bandiera e seppellisci i pezzi” fa pensare ai nazisti che sono riusciti a scappare prendendo un’altra identità, fingendo di appartenere a un altro paese, cambiando nome. Infine quel “Le tagli i capelli” che è il dettaglio che rende la ballata potente e ansiogena, era quello che i nazisti facevano a tutti nei campi di sterminio e di sicuro alla ragazzina di cui parla Mc Rae.

Numero 6 “Falling away from me” dei Korn

Dall’album “Issues” dei Korn, 1999. Per i Korn ho sempre avuto un amore speciale e potrei ascoltare questa canzone divina a loop, dalla mattina alla sera, senza mai stancarmi.

“La vita si sta allontanando da me. Picchiandomi forte Picchiandomi, picchiandomi forte buttandomi a terra urlando qualche suono picchiandomi forte buttandomi a terra -si sta allontanando da me- girando intorno -si sta allontanando da me- è perduta e non la posso ritrovare -si sta allontanando da me-”

Non solo le parole parlano di depressione, senso di impotenza, sofferenza estrema, ineluttabilità di ciò che ci accade, impossibilità di tenere in mano la nostra stessa vita, ma il rock dei Korn, la voce di Jonathan Davis, le chitarre meravigliosamente distorte la rendono una delle ballate rock più sick e haunting mai ascoltate.

Numero 5 “Smack my bitch up” di The Prodigy

Dall’album “The fat of the land” dei Prodigy, del 1997. Ho scelto una versione live perché i live dei Prodigy erano una specie di incontro fra Paradiso e Inferno, ma la versione studio è molto più bella e l’ho messa in questo link

“Prendo a schiaffi la mia troia” sono le uniche parole della canzone, ma la musica dei Prodigy inserisce brandelli di parole come fossero suoni e il loro significato è inesistente. Perché è una Sick Ballad? Per la musica elettronica che ti trascina in un vortice e per quel beat violento e profondo accompagnato dal sound Rave tipico dei Prodigy, che ogni tanto permette un attimo di sosta grazie alla voce femminile e sublime di Shahin Badaril che, creando il massimo contrasto possibile, vola in un canto tradizionale indiano che sembra provenire da un mondo parallelo. Un insieme meraviglioso e disturbante, una Sick Ballad di 23 anni fa che è più moderna del 90% della musica che viene pubblicata adesso.

Numero 4 “Dirt” degli Alice in Chains

Dall’album “Dirt” del 1992. Le ballad disperate scritte da Layne Staley sono tante, ma nessuna è così intensa, di una bellezza disperante e disturbante come Dirt, con quell’incipit vocale che è un vero e proprio urlo di dolore.

Layne Staley è stato forse il miglior cantante che il rock abbia avuto in tutta la musica del dopoguerra, e aveva capacità uniche anche come autore, musicista (tutte le canzoni degli Alice in Chains le ha scritte lui) perfino disegnatore e grafico. Praticamente il talento in persona. Eppure, o forse proprio per questo, odiava se stesso in un modo così violento che “I hate myself and I want to die” di Kurt Cobain, al confronto, suonava come un allegro ritornello. In Dirt, Layne non solo si odia e vuole morire, ma si disprezza, si fa schifo “Voglio assaggiare la sporcizia, una pistola urticante in bocca, voglio che tu mi raschi via dai muri e che diventi pazzo così come hai fatto diventare me. Uno a cui non importa è uno che non dovrebbe essere.” Dirt è una canzone allo stesso tempo dolorosa e meravigliosa da ascoltare. Più disturbante di così non credo sia possibile.

Le più belle Sick Ballads: Numero 3 “She’s lost control” dei Joy Division

Dall’album “Unknown Pleasures” del 1979.

Tutte le canzoni dei Joy Division sono haunting e meravigliosamente malate, ma quel riff diabolicamente giocoso e ripetuto per tutta “She’s lost control” insieme alla voce di Ian Curtis che ripete quasi con disperazione “she said I’ve lost control again” riescono a creare un ritratto femminile unico, forte, quasi cinematografico, proprio come se quella donna la potessi vedere e toccare e, allo stesso tempo, avere paura di essere lei. Quando dice “E ha camminato sulla cima senza via di fuga e ha riso: ho perso il controllo! Ha perso il controllo ancora” scatta il meccanismo di immedesimazione – almeno in me – e fa di questa canzone qualcosa di unico, di forte e penetrante.

Numero 2 “In every dream home a heartache” dei Roxy Music

Da “For your pleasure” album del 1973. Ho scelto questo live dove possiamo vedere in primo piano il viso di Brian Ferry, mentre suda copiosamente e tiene gli occhi chiusi, ma quando li apre lo sguardo è allucinato e la voce sempre concentratissima: un insieme che rende questa canzone ancora più perversa e meravigliosamente malata.

I Roxy Music non hanno mai fatto Sick Ballads, ma questa, non si sa come, gli è uscita fuori disturbante al cubo. L’amore perverso dell’infelice uomo per la bambola gonfiabile, come unica possibile compagna che condivida il suo desiderio di home sweet home, desiderio impossibile – soprattutto negli anni 70 – come si evince dallo stesso titolo. Nel suo essere disturbante, non solo nelle parole ma nella musica, che si ripete, ipnotica, sembra una canzone new wave degli anni 80 o anche una canzone alternative scritta adesso. La cosa migliore dei Roxy Music, secondo me.

“In ogni sogno domestico c’è un colpo al cuore ed ogni mio passo mi allontana dal paradiso. Ma c’è un paradiso? Mi piacerebbe crederlo” dice l’uomo interpretato da Brian, che dopo aver creduto nell’amore della bambola, per cui è pronto a fare qualsiasi cosa “Bambola gonfiabile, io sono il tuo servitore” finisce per ucciderla (forse perché, come diceva Oscar Wilde “Ogni uomo uccide la cosa che ama)

“Bambola gonfiabile, amante ingrata, ho distrutto il tuo corpo ma tu hai distrutto la mia mente”

PRIMO POSTO, numero 1 “Change” dei Deftones

Dall’album “White Poney” del 2000. Questa ballata, forse la canzone più famosa dei Deftones racconta un horror, che come tutti i veri horror d’autore, ha un significato molto profondo, profondo come l’abisso che nasconde.

Ci sono forum dove il pubblico dei Deftones ha scambiato per anni opinioni sul possibile significato della canzone, con le ipotesi più disparate, che vanno dall’abuso fisico, sessuale, al capovolgimento del punto di vista, come se il narratore stesse parlando di se stesso. Qualcuno ha perfino fatto una sorta di esegesi, parola per parola, della ballata. Potete ascoltare la canzone e decidere la vostra personale interpretazione, ma comunque la si voglia percepire “Change” resta la più incredibile, malata, disturbante, meravigliosa Sick Ballad mai scritta e suonata. Le parole ovviamente sono fondamentali, ma la bellezza viene dalla musica distorta e dalla voce incredibile di Chino Moreno. I Deftones hanno fatto la storia del rock, hanno scritto canzoni bellissime, ma questa è stata creata in vero stato di grazia. Ovviamente, quando parlo di grazia, mi riferisco a una grazia demoniaca.

In questo articolo tutto il mio amore e la mia dedizione vanno alla memoria di Ian Curtis, Layne Staley, Keith Flint, Artisti unici e indimenticabili.

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Perché le sinossi sono nemiche della letteratura?

Perché le sinossi sono nemiche della letteratura? Perché gli editori mentono quando dicono che la sinossi del vostro romanzo è necessaria “per poter fare una prima scrematura fra i manoscritti che ci inviano”? Credo sia evidente a tutti che molti capolavori della letteratura mondiale, come Ulisse di Joyce, tutta la produzione di Faulkner o L’isola di Arturo della Morante – per citare i primi che mi vengono in mente inserendo anche un degno autore italiano – non avrebbero mai superato la “scrematura della sinossi” proprio perché sono romanzi dove la narrazione è tutto, e nella narrazione è incluso – e non viceversa – il significato, il senso, l’anima della storia.

“Esercizi di stile” di Raymond Queneau

Perché le sinossi sono nemiche della letteratura: Raymond Queneau
Perché le sinossi sono nemiche della letteratura: Raymond Queneau

Potrei parlare per ore, ma credo ci sia un sistema più diretto ed evidente, oltre che più divertente, per dimostrare la mia teoria. Partirò, con umiltà e con il mio proprio modo di vedere e raccontare, da un capolavoro assoluto “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, un libro che è tanto geniale quanto illuminante e che sicuramente non avrebbe passato il vaglio della sinossi. Se non avete ancora letto questo libro, FATELO! Se non sapete come è strutturato, ho messo il link e andate a vedere: in questo modo capirete facilmente che cosa mi accingo a fare.

Queneau parte da un episodio banale, di routine quotidiana, per creare da esso ben 98 altre narrazioni, che raccontano tutte lo stesso episodio ma in modi completamente diversi.

Perché le sinossi sono nemiche della letteratura? Pretty Polly

Imitando Queneau ho preso come modello le lyrics di un’antica canzone folk americana, Pretty Polly, di autore ignoto, per poi creare 7 altre narrazioni – tutte diverse – della stessa storia.

“Oh Willie, Little Willie, I’m afraid to of your ways, Willie, Little Willie, I’m afraid of your ways

The way you’ve been rambling you’ll lead me astray

Oh Polly, Pretty Polly, your guess is about right Polly, Pretty Polly, your guess is about right

I dug on your grave the biggest part of last night

Oh she knelt down before him a pleading for her life She knelt down before him a pleading for her life

Let me be a single girl if I can’t be your wife

Oh Polly, Pretty Polly that never can be Polly, Pretty Polly that never can be

Your past recitation’s been trouble to me

Oh went down to the jailhouse and what did he say He went down to the jailhouse and what did he say

I’ve killed Pretty Polly and trying to get away”

Testuale

La graziosa Polly si rivolge a Willie, il fidanzato, cercando di fargli capire che ne ha una paura matta. Willie, ben lungi dal cercare di rassicurarla, le risponde che sì, in effetti ha appena passato la notte a scavarle la fossa. A quel punto Polly lo prega di non ucciderla, gli chiede di lasciarla libera, ma Willie non è affatto d’accordo: tutte le lagne di Polly gli hanno causato guai e vuole proprio eliminarla fisicamente. Come è ovvio, Willie finisce in carcere dove spiega che ha dovuto ammazzare la graziosa Polly che cercava di scappare via.

Verbale d’Interrogatorio

In data xy il detenuto William Omissis, detto Willie, ristretto nel carcere di Omissis, nella contea di Omissis, è stato interrogato dal Detective Omissis, per sospetto omicidio di primo grado. Il detenuto ha una lunga lista di precedenti penali che vanno dalla violenza domestica all’ubriachezza molesta per finire con rissa da bar e rapina a mano armata. Inizialmente si è rifiutato di rispondere. Quando il Detective l’ha incalzato mostrandogli la lunga lista di accuse mosse nei suoi confronti nel corso di mesi dalla vittima Pretty Polly Omissis, il detenuto Omissis ha detto: “Era una scassacazzi” Il Detective: “Di chi sta parlando, signor Omissis?” Il sospettato: “Pretty Polly era la mia ragazza e l’ho amata come gli uomini di solito amano solo le loro auto e le loro armi, ma Dio mi è testimone: stava sempre a lamentarsi. Insomma, una grande scassacazzi, agente”. Il Detective Omissis ha fatto notare che lui non è agente ma Detective e ha incalzato il detenuto: “Non è forse vero che quella notte ha passato ore a scavare, nella sua proprietà, una fossa lunga come la vittima e profonda 6 piedi?” Il detenuto ha annuito con la testa e poi ha detto “Sì. Dovevo sopprimere il cane. Mi aveva morso e non potevo più fidarmi, quindi ho deciso di sparargli”. Il Detective: “E allora come mai dentro alla fossa abbiamo trovato la vittima, Pretty Polly Omissis con un colpo di fucile che l’ha centrata in piena nuca?” Il detenuto William Omissis ha aperto le braccia: “A un certo punto Pretty Polly se n’è andata, ma non me n’ero accorto. Lì fuori era buio, Detective, non c’era luna, non c’erano stelle, ho visto qualcosa correre e ho pensato a un coyote o al cane che cercava di fuggire, e per sicurezza ho sparato. Qui da noi si fa così: prima si spara e poi, in caso, ci si scusa… Mai avrei pensato che potesse essere la mia amata Polly!” Il detenuto si è messo a piangere e il Detective ha interrotto l’interrogatorio.

Perché le sinossi sono nemiche della letteratura: Willie scava la fossa
Perché le sinossi sono nemiche della letteratura: Willie scava la fossa

Crime & Drug Story

È quasi mezzanotte e Pretty Polly si è appena messa un vestito corto nero, scarpe con tacchi a spillo e si è pettinata i lunghi capelli biondi con ciocche azzurre. I suoi tatuaggi sono tutti bellissimi e in vista e lei si prepara per andare al pub a spacciare. A quel punto sente un rumore subito fuori della porta di casa. Rimane un attimo in silenzio, poi prende la sua vecchia ma fidata Glock e ci infila il caricatore. Mentre sta per uscire, arma in mano, qualcuno le sfascia il suo vaso di vetro sulla testa e Pretty Polly sviene. La suoneria del cellulare che suona la risveglia, e scopre di avere le mani legate, il sangue che le cola dalla ferita, un gran mal di testa e quello schizzato di Willie sta proprio lì, davanti a lei.

“Ma che suoneria di merda, Polly! Musica elettronica, la odio – dice Willie – vuoi sapere che suoneria ho io?”

Polly non apre bocca ma, per esperienza, sa che parlare con Willie è inutile. L’uomo spinge un paio di tasti sul cellulare e la musica di “Proud Mary” dei CCR suona con vigore.

“Questa è musica, Gesù!” esclama soddisfatto.

“Willie, che cazzo vuoi?” domanda lei, mentre il sangue continua a scenderle dalla testa proprio nell’occhio destro.

“Che voglio, Polly? Tutto: i soldi, il Vicodin, la meth.”

“Niente meth, l’ho venduta da giorni e ancora non ho ricaricato – dice lei – i soldi stanno in borsa. Di Vicodin ce ne sono forse un paio di pillole in bagno, prendi quello che c’è e vattene affanculo.”

“No, no, no, Pretty Polly. Non mi devi mentire, così non si arriva a niente. Vieni con me fuori”

Impugnando la Glock di Polly, Willie la costringe a uscire in giardino, dove ha appena scavato una specie di fossa.

“E questa che cazzo è?” dice lei.

“Mentre aspettavo che ti svegliassi ho dato una rapida occhiata in casa e non ho trovato niente di appetibile. Allora, per passare il tempo, ho scavato questa, così puoi decidere se finirci dentro o se darmi quello che voglio. Nel secondo caso potrai usarla per farci un orto…”

Pretty Polly sa bene che anche se desse a Willie soldi e droga, sempre morta nella fossa finirebbe. Perciò deve pensare, deve pensare in fretta.

“Cazzo, Willie, mi gira la testa” sussurra accasciandosi e finge di svenire. Come lui si avvicina e cerca di ritirarla su, lei gli infila con tutta la forza che ha il tacco a spillo nel piede e lui urla forte. La pistola cade nella fossa e Polly, ancora legata, si toglie le scarpe e inizia a scappare, correndo a piedi nudi. Willie salta dentro la fossa, recupera la Glock e da lontano vede le ciocche azzurre e fluorescenti che Polly si è appena fatta. Mira e spara.

Le scarpe di Pretty Polly

De André style

Questa di Pretty Polly è la storia vera, che s’innamorò di Willie a primavera

E lui, quando la vide così bella, la fece diventare “la sua stella”

C’era la luna e Willie era infuriato le fratturò sei ossa di filato

C’era la luna e Polly era assai scossa lui le scavò in giardino una gran fossa

Ma, come tutte le più belle storie, lei morta e lui in galera, senza glorie.

Olfattivo

Pretty Polly aveva quell’odore di genziana mista a biancospino, mentre Willie, beh, Willie, sapeva di muschio, muschio bianco ma con una punta d’aceto balsamico, come se lo avesse bevuto al posto del caffè. Poi, all’improvviso, quell’odore di sangue, quell’odore di sangue che è così dolce solo quando il sangue che esce è tanto e caldo ed è un odore forte ma di breve durata e che qualsiasi squalo bianco, dall’odore di pesce marcio misto a un profumo salmastro ti saprebbe descrivere bene. E poi un odore fortissimo di terra, di terra bagnata, assieme a quel sentore di muffa che c’è sempre, nelle giornate umide, e di ciuffi d’erba che vengono estirpati insieme alla terra, e anche un leggerissimo profumo di margherite piccole e selvatiche. D’un tratto, odore di polvere da sparo, come un manto che copre ogni cosa e non fa passare altri odori e poi, sottoterra, odore di decomposizione umana, un odore nemico dell’olfatto della nostra specie, ma una festa per insetti e vermi che lo seguono come bambini al suono del pifferaio magico, che profuma di krapfen e zucchero.

Perché le sinossi sono nemiche della letteratura: l'odore del sangue caldo
Perché le sinossi sono nemiche della letteratura? Il dolce odore del sangue caldo

Cioè, quindi

Pretty Polly, cioè la fidanzata di Willie, quindi sua moglie, cioè la sua donna, si lamentava perché Willie, cioè, le dava un sacco di botte quindi il corpo, cioè, le faceva quindi male e cioè ogni centimetro di pelle, quindi ossa, lividi, e cioè chi più ne ha più ne metta. Willie quindi, che cioè, non era proprio, cioè, una gran brava persona, quindi era stufo, cioè, di Pretty Polly e cioè aveva deciso, quindi, di liberarsene. Pretty Polly cercò, cioè, di salvarsi la vita, cioè lo pregò di non ucciderla, cioè e quindi questo lo fece, cioè, ancora più incavolare, quindi uscire, cioè, di senno. Allora Willie, cioè, scavò cioè una fossa per buttarci, quindi, Pretty Polly e mentre Polly, cioè, cercava quindi di scappare, Willie, cioè, sparò alla ragazza che finì, quindi, cioè, dentro la fossa, quindi e cioè, morta. Willie, cioè, andò quindi in galera e continuò a pensare quindi, cioè, alla sua Pretty Polly.

Te dico fermete!

No perché a ‘na certa, aho, anch’io te dico “Fermete!” quanno sto stronzo nun la smette de pjamme a pizze ‘n faccia manco fossi quer cazzo de pungibo daa palestra sua, allora j’ho detto “A Uilli, mo’ m’hai proprio rotto er cazzo, sì continui a sto modo te manno affanculo e poi pe’ me sei morto. Come ‘na cazzo de tomba, m’hai capito amo’?” E lui, pe’ tutta risposta, me dà ‘na sveja che me stenne, guarda, te ggiuro, so’ ita lunga e piagnevo dar dolore ma ‘sto pezzo demmerda daje, nun era contento. M’ha tirata pei capelli fino ar giardinetto dietro ar cortile e m’ha detto “E mo’ scava, Polli”. M’ha tirato ‘na vanga e ho dovuto scava’, guarda, scavavo e frignavo, sarà passato ‘n cazzo de secolo, daje a scavà, sta buca de li mortacci sua nun j’annava mai bene e quella cazzo de tera era puro dura! Alla fine Uilli guarda sta fossa come si finarmente je va bene, poi pja la vanga e me tira na vangata in testa e so’ svenuta. Poi me deve ave’ ricoperta de tera, ma tanta, perché ho provato a levalla co e mano ma gnente, nun ce riesco. Ma poi m’accorgo che sto gran cojone m’ha lasciato er cellulare ‘n tasca e ‘n ce se crede, oh, c’è campo puro qui sottoteraaa! Però sbrighete, che mica se respira bene, quassotto…”

Il significato dei miei indegni “esercizi di stile” è stato di far capire come, ad un’unica sinossi, possano corrispondere centinaia di narrazioni diverse, del tutto differenti l’una dall’altra. Una storia cambia completamente a seconda di come viene raccontata e la letteratura è questo: la personalissima narrazione, anche della stessa storia, che ogni autore mette in campo a seconda del suo gusto, talento, immaginazione, competenza e conoscenza. Nessuna ridicola sinossi potrà mai farti capire qualcosa del romanzo o racconto di cui parla, di conseguenza la “scusa delle sinossi” è un classico stratagemma che molti editori utilizzano perché non sono abbastanza potenti da poter dire “Non inviateci manoscritti, non li leggeremo mai” come invece già fanno con l’arroganza del Potere, ma almeno in sincerità, in molti, a iniziare da Feltrinelli. L’editoria mondiale che tratta libri è moribonda, anche perché i nuovi libri che vengono pubblicati sono noiosi e insensati, ma quella italiana si divide in due: 1- gli editori minori che ormai pubblicano qualsiasi cosa a pagamento; 2- gli appartenenti ai grossi gruppi che pubblicano principalmente autori stranieri e, riguardo agli autori italiani, hanno una politica molto semplice: pubblicano autori che sono famosi già da decenni, oppure giornalisti, comici o amici di qualche potente. Questa è proprio una vergogna nazionale, una delle tante vergogne nazionali ma particolarmente disgustosa.

Signori Editori italiani: vergognatevi!

Le nuove pubblicità create per disgustare

Le nuove pubblicità create per disgustare non sono molte. All’epoca della seconda ondata di Covid, la pubblicità nel nostro paese per lo più rimane fedele a se stessa. Continuiamo a vedere advertisement tutti uguali, che ci mostrano auto che corrono veloci e libere come la luce in un mondo totalmente privo di altre automobili e di altri esseri umani: un mondo che spazia da città a foreste, da fiordi norvegesi a praterie dove improbabili cavalli bradi galoppano al fianco dell’ auto, un mondo così inverosimile da risultare inquietante, un po’ come uno scenario da “the day after”, non fosse per l’insensata felicità provata da chi guida quell’unica e forse ultima auto sulla faccia del pianeta.

Nelle pubblicità continuiamo a vedere famiglie felici, bambini sovreccitati, papà sorridenti che fanno colazione con biscotti (forse impastati col peyote) o pranzano con schifezze precotte; e poi donne che lavano, stirano, eliminano fino all’ultimo granello di polvere dalla casa, il tutto gioiosamente e con un senso di assoluta soddisfazione e sazietà che di solito le donne non provano neanche dopo aver fatto sesso. Continuiamo a vedere capelli al vento, belle ragazze seminude e testimonial fastidiosamente deficienti.

Le nuove pubblicità

Eppure, ci sono pubblicità nuove che fanno capolino in mezzo a tutta questa normalità ostentata e si rivolgono a quella parte dell’essere umano che cerchiamo di tenere nascosta, quella parte dell’animo di cui nessuno va fiero, che fa sì che si venga attratti da ciò che è disgustoso, scioccante o molto volgare. Siamo sempre nel campo della finzione, ovviamente, e di sicuro i nuovi commercial disgustosi non rappresentano un upgrade e nemmeno una trasformazione, a meno che una necrosi sopraggiunta dopo una ferita non si possa considerare una sorta di bel cambiamento. Proprio come dice Zero Calcare “Qua nessuno cambia. Tutt’al più marcisce.”

Zero Calcare “Scheletri”

Tena: la gioia dell’incontinenza

Fra queste pubblicità la prima che vado a citare è il nuovo advertising dell’azienda Tena, leader nella vendita di assorbenti e speciali mutande per incontinenti urinari. Per “raccontare” il loro prodotto da un punto di vista diverso, i pubblicitari hanno creato una campagna nobilitante dal nome #Senzaetà e hanno addirittura ingaggiato Yorgos Lanthimos, iper-estetico regista venerato da cinefili di tutto il mondo, famoso per film come “The Lobster” o “Il sacrificio del cervo sacro” oltre che per la capacità – appena un tantino presuntuosa – di dilatare il tempo fino a spalancare le porte dell’inferno (l’inferno della noia: guardate il suo “La Favorita” e poi ditemi che non avreste preferito una seduta dal dentista…)

Le nuove pubblicità create per disgustare: Tena 2020
Le nuove pubblicità create per disgustare: Tena 2020

In questo advertising Lanthimos ci mostra, all’interno di una scenografia da bordello di lusso e con una fotografia fra il patinato e il perverso, un piccolo gruppo di donne anziane mezze nude ma con addosso, però, mutande e/o assorbenti Tena. Le signore ballano, si spogliano e sdraiate a letto si carezzano, mentre la camera, con la precisione di una colonscopia, fruga nei loro corpi individuando flaccidità muscolare e rugosità della pelle nelle donne bianche e tutto il grasso possibile nella donna nera. Allo stesso tempo le donne Tena ci “raccontano” che nei loro corpi si sentono benissimo, che fanno molto più sesso adesso di quando erano giovani e che sì, certo, sono incontinenti ma la cosa non crea loro nessun problema. Una dice, ridacchiando allegramente “Io le chiamo le mie gocce della risata.” E un’altra “Io le mie gocce dello starnuto!”

Le nuove pubblicità create per disgustare: Tena 2020 girata da Lanthimos

Ovviamente quello che Tena racconta è insopportabilmente falso. Nessuno è #senzaetà, purtroppo; nessuno si piscia sotto pensando con gioia “Che bello! Le mie gocce del solletico” e vedere il proprio corpo che diventa flaccido e rugoso non credo possa essere mai piacevole. Infine, questo voler mettere insieme l’incontinenza con il sesso è davvero la parte più ripugnante di tutta la grande menzogna e, in questo caso, è la parte che fa scattare il senso del disgusto in chi guarda, e grazie al disgusto ne ottiene l’attenzione.

Nuvenia: cantare inni gioiosi alla vagina

Dopo gli assorbenti per incontinenti ecco arrivare anche gli assorbenti per mestruazioni di marca Nuvenia, con un nuovo spot tutto centrato sull’organo sessuale femminile e, anche qui, affiancato da una campagna nobilitante intitolata “Viva la Vulva” che si propone di “cantare inni gioiosi” alla vagina. Prima considerazione: il termine “vulva” è terribile, ridicolo, foneticamente fastidioso – con tutte quelle v – e se proprio volevano osare allora era meglio il classico “viva la fica” da scritta sui muri. Seconda cosa: le mestruazioni, almeno dalla maggioranza delle donne sono vissute come un incubo, e quando provi dolori lancinanti o mal di testa feroci tutto vorresti fare tranne cantare inni alla vagina. Ma il commercial, in parallelo alla gioiosa campagna, rappresenta la vagina come fosse la simpatica protagonista di un cartoon; ce la mostrano travestita da pesca, da conchiglia, da pupazzo di lana e mentre fa capolino da un assorbente con ali attaccato ad una mutanda. In questo spot l’organo sessuale femminile, pur essendo giovane, viene del tutto separato anche solo dall’idea di sesso, e la novità dello spot non è quindi giocata sulla morbosità, ma sul rendere pubblico e visibile ciò che – solitamente – è privato e nascosto e quindi si basa sullo “shock”. La visione della vagina, sia pure in versione quasi comic è risultata però troppo scioccante alle tante persone che si sono infuriate sui Social e su internet in genere – il nostro è un popolo bacchettone, i “creativi” non lo sapevano? – dove lo spot è stato così tanto osteggiato che credo abbia avuto vita breve.

Le nuove pubblicità: Nuvenia e la vagina-conchiglia

Le nuove pubblicità create per disgustare: l’Arte del sedere

Dopo il “disgusto” e l’effetto “shock” passiamo al cattivo gusto, con il nuovo advertising Poltronesofà, dove continua l’interminabile pantomima degli artigiani, che dopo averci tormentato per anni con quel marchio tanto “italiano e di qualità” si convertono, tout court, alla volgarità. “L’Arte del Sedere” è il titolo ammiccante del nuovo commercial, che inizia con lo sguardo rapace di uomini al bar che osservano sederi femminili. Il doppio senso – tanto più cafone perché di bassa lega – fra sedere come verbo e sedere come sostantivo dovrebbe catturare l’attenzione delle persone, sedute sul divano davanti alla Tv fra un lockdown e l’altro e invogliarle ad acquistare un altro divano. Le donne si sono offese sui Social e Poltronesofà ha dovuto chiedere scusa. Forse adesso ripartiranno dalla Ferilli, sempre che non venga anche lei cooptata da Tena…

Cinismo e sarcasmo

Per finire, ecco la pubblicità di Exequia, marchio che appartiene a un’azienda big delle pompe funebri: proprio mentre ai normali morti si aggiungono quelli da Covid, Exequia decide di sfondare il muro dell’ipocrisia puntando su una pubblicità cinica, diretta e sarcastica, che viene distribuita principalmente tramite cartelloni pubblicitari e internet. Lo slogan principale è: “C’è chi bara e chi non bara” accompagnato dalla foto di una bara, a volte infiocchettata di rosso tipo confezione regalo, e poi: “Nel momento del lutto, attenti agli avvoltoi” con la fornitura completa di Mercedes, 4 valletti e “bara in omaggio” per soli 1250 euro. Ci sono anche delle varianti negli slogan, come “Regaliamo monolocale. Seminterrato” o “Garantiamo sonni profondi” e ancora “Fuoritutto! Ma tu resti dentro.” A me, non lo posso negare, questa pubblicità non dispiace. Gli slogan sono divertenti e tutto l’insieme è tanto sarcastico quanto economicamente competitivo, in un ambito volutamente cinico. Non a caso, fra le varie pubblicità citate, questa, pur parlando di morte, è l’unica che non si affida alla finzione. È l’unica che non si è fatta affiancare da campagne nobilitanti quanto ipocrite né ha dovuto chiedere scusa al pubblico infuriato.

Qualche volta, perfino nella pubblicità, intelligenza e non-ipocrisia si rivelano vincenti. Perché non applicare questo concetto anche a giornalismo, cultura e politica?

Colori aposematici e tenebra nei cuori

Quello che balza subito al mio occhio, tanto nelle elezioni presidenziali dei Disunited States of America quanto nel DPCM appena firmato (con o senza dedica?) da Conte, è l’uso un po’ insensato dei colori. Intanto mi domando perché mai il colore rosso sia ancora il colore dei repubblicani in America, quando il rosso è principalmente simbolo dell’esatto contrario, come, ad esempio, la classica bandiera rossa comunista, il colore della Cina e, fino al 1989, dell’Unione Sovietica. Non erano gli americani ad avercela a morte, già dal secondo dopoguerra, con i Reds, che era il modo in cui chiamavano e chiamano i comunisti (o chiunque non sia un fondamentalista ultra-conservatore?)

Senza parlare del fatto che, in una visualizzazione a due o anche tre dimensioni, il rosso è un colore dominante, mentre il blu, pur essendo simbolo di spiritualità o forse proprio per quello, è recessivo. In poche parole: il rosso spicca, ti entra nell’occhio, mentre il blu sparisce. Passiamo alla cartina italiana appena uscita dal nuovo DPCM, che suddivide le regioni per colori (che – attenzione – possono mutare di giorno in giorno); ancora il rosso, qui inteso aposematicamente come forte pericolo, insieme ad arancione e giallo. Prima c’era anche il verde, ma hanno deciso di accantonarlo: in ogni caso quello attuale è un bellissimo trio di colori da pappagallo, da uccello tropicale o da rana delle frecce ricoperta di curaro.

Colori aposematici e tenebra nei cuori: i colori italici dopo DPCM 4 njovembre 2020
Una delle varie cartine delle regioni italiane per colore, dopo il DPCM del 4/11/2020

Il colore nero

A me viene da reagire come i Rolling Stones: “Paint it black”, visto che il nero, inteso come colore delle tenebre, è quello che rappresenta meglio l’attuale mondo in cui qualche spirito demoniaco ha fatto sì che noi si debba vivere. Vedo tenebra nella mente di chi ci governa specificando, però, che gli oppositori fascio-populisti una mente nemmeno la possiedono.

Antico e bellissimo live degli Stones, con Brian Jones indimenticabile

Tenebra nelle nostre vite, costretti a un incomprensibile coprifuoco alle 22 (tutti su Facebook dopo Carosello), impossibilitati perfino ad entrare in banca dove abbiamo gli ultimi spicci perché si deve prendere appuntamento ma, ehi, tu provi a telefonare e nessuno ti risponde!!! Tipico loop italiano, paese molto poco working e per niente smart. E poi le stravaganze: perfino nelle regioni pericolosamente rosse i parrucchieri vanno bene ma i ristoranti no. Perché? Non si sa: just for the fuck of it.

Colori aposematici e tenebra nei cuori: impossibilitati a…

Siamo impossibilitati a utilizzare il nostro “meraviglioso sistema di salute pubblica” perché tutto ciò che non è Covid te lo rimandano alle calende greche: mammografia per sospetto tumore? Aspetta un anno oppure vai da un privato. Ma se i soldi per il privato mi mancano e nel frattempo il tumore crea metastasi? Allora muori, ma fallo in silenzio per favore, se no disturbi gli eroici medici che, fra un’intervista TV e l’altra curano il Covid.

I ragazzi sono impossibilitati a condurre una vita che abbia almeno un barlume di normalità, nonostante abbiano il diritto inalienabile di incontrare altri ragazzi (se non vogliamo crescere una generazione di sociopatici), di studiare in presenza, perché con la Dad diventeranno tutti ignoranti come sono ignoranti i giovani americani ma senza il vantaggio di essere americani. Ormai i ragazzi italiani sono i figli di un dio minore in un paese di vecchi egoisti e potenti, che per continuare la loro bella vita sono disposti a cancellare due generazioni di giovani, un po’ come fanno quei leoni maschi che uccidono i leoncini appena nati per eliminare possibili rivali.

Luoghi come Asl, circoscrizioni, commissariati, per non parlare delle varie aziende che gestiscono elettricità, gas, acqua e fibra: sono tutti diventati off limits, ormai veri blindspot. Era impossibile comunicarci già prima della pandemia, ma da quando c’è lo “smart working” riuscire a proferire verbo con i loro impiegati/operatori – quando sono in grado di parlare l’italiano – ha a che fare col mistero dei miracoli. Magari Bergoglio può illuminarci su come fare.

Per non parlare dell’impossibilità di incontrare amici se non su internet, oppure di notte, nei sogni (a quando un coprifuoco anche su quelli? Divieto di sognare dopo le ore xy e portare sempre la mascherina, anche in sogno, oppure multa) e molti di loro, quando riesci a incontrarli, nella realtà, si tengono un po’ a distanza – a due palmi dal culo, come diciamo a Roma – perché hanno paura, e non li biasimo di sicuro.

Uscire dalla foresta

Colori aposematici e tenebra nei cuori: Cuore di Tenebra

La mia esperienza di vita, se mi ha insegnato qualcosa (e non è detto) è che non tutti gli ostacoli li puoi scansare, non tutti i pericoli li puoi tenere a distanza rinchiudendoti in qualche buco, piccolo o grande che sia. Se proprio vuoi ritrovare la via che ti porti fuori dalla foresta, la foresta la devi attraversare. Ci devi passare in mezzo, con tutti i rischi che comporta, e se sarai coraggioso e fortunato, allora, forse, tornerai a casa. Perché di una cosa sono assolutamente sicura: la paura ti porta dritto nella tenebra più nera o aposematica che sia. Io non ho mai avuto paura del Covid ma il mio non è un merito, è solo un fatto. Vedo però la paura, la paura del virus, della gente, del domani quale che sia il domani, crescere, intorno a me e nel mondo, come una nebbia densa e tossica che ci avvolge, ci avvolge e piano piano penetra dentro, viene inoculata nel sangue e raggiunge il cuore. E quando raggiunge il cuore ti possiede, e alla fine resta solo l’orrore.

Da “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad:

“Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste sui pali, se le facce non fossero state rivolte verso casa. Solo una, la prima che avevo visto, era voltata dalla mia parte. Non rimasi così sconvolto come potete pensare … Tornai deciso alla prima che avevo visto ed eccola lì, nera, rinsecchita, infossata, con le palpebre chiuse; una testa che sembrava dormisse in cima a quel palo, e con le labbra rattrappite e aride che mostravano una sottile e bianca fila di denti, sorrideva anche, sorrideva in continuazione a qualche interminabile e lieto sogno di quel sogno eterno.”

“Fear inoculum” canzone meravigliosa e anticipatrice dell’incubo, nonché ultimo lavoro dei Tool, del 2019, qui in un live
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