I replicanti si ammalano con virus sintetici?

“I replicanti si ammalano con virus sintetici?” è una parafrasi di “Do androids dream of electric sheep?” romanzo capolavoro di Philip K.Dick.

I replicanti si ammalano con virus sintetici? Rachael replicante di Blade Runner
Blade Runner, Rachael Rosen

Se i replicanti fossero simili a computer potremmo rispondere “sì, assolutamente”. Tutti sappiamo quali e quanti siano i virus che minacciano quotidianamente i nostri vari dispositivi, siano essi pc o smartphone, tablet e, spero, anche i poco simpatici smart-watch…

Ma i replicanti sono molto più simili ad esseri umani che non a dispositivi elettronici, e quindi il dubbio viene. Prima di tutto bisogna imparare a riconoscerli. Nel libro di Dick, da cui, nel 1982, Ridley Scott ha tratto lo strepitoso film “Blade Runner”, il cacciatore di replicanti Rick Deckard aveva un solo mezzo per rintracciare, e quindi “ritirare”, gli androidi scappati dalle colonie spaziali e tornati su Terra: la macchina Voigt-Kampff.

Philip K.Dick

Il test sull’empatia

Gli androidi di Dick erano identici agli esseri umani, sia esternamente che internamente: per capirci, non avevano rotelle o congegni meccanici sotto alla pelle, ma organi e sangue proprio come ognuno di noi. Distinguerli, dunque, era praticamente impossibile, soprattutto nel caso dell’ultimo modello di replicanti, quei Nexus-6 così meravigliosamente perfetti da essere stati messi fuori legge. La sola possibilità per riconoscerli era il test che Deckard faceva con la macchina Voigt-Kampff, test basato esclusivamente sull’empatia. I replicanti, infatti, ne erano privi, al contrario degli umani. Suona strano, a vedere gli umani di adesso, ma quando Dick scrisse il libro erano i primi anni ’60. Bisogna tenerne conto.

I replicanti si ammalano con virus sintetici? Do androids dream…

I replicanti si ammalano con virus sintetici? La macchina Voigt-Kampff

“Ora Rick aveva il fascio di luce puntato sull’occhio destro della ragazza e le aveva di nuovo puntato la piastra a ventosa alla guancia. Rachael fissava irrigidita la luce, e l’espressione di estremo disgusto era tuttora ben visibile.

“La mia valigetta – disse Rick nel rovistare al suo interno per estrarne i moduli del Voigt-Kampff – bella, no? È del dipartimento”

“Sì, sì” disse Rachael con tono distante.

“Pelle di bambino – disse Rick. Carezzò il rivestimento nero della valigetta – cento per cento pelle umana di bambino”. Vide i due indicatori dei quadranti agitarsi freneticamente. Ma si erano mossi dopo una pausa.

La reazione aveva avuto luogo, ma troppo tardi. Sapeva quale doveva essere il tempo di reazione, senza sbagliarsi di una frazione di secondo, l’esatto tempo di reazione: non ci doveva essere nessun tempo di reazione. “Grazie, signorina Rosen – disse e raccolse di nuovo tutta l’apparecchiatura: aveva concluso il supplemento d’esame – è tutto”

“Se ne va?” chiese Rachael.

…Rivolto a Eldon Rosen, che si era appoggiato curvo e cupo allo stipite della porta, chiese: “La ragazza lo sa?” A volte non se ne rendevano conto; diverse volte erano state impiantate delle false memorie, generalmente con l’errata speranza che grazie a esse le reazioni ai test sarebbero state modificate.

Eldon Rosen rispose: “No. L’abbiamo programmata da cima a fondo. Ma penso che alla fine abbia sospettato qualcosa”. Rivolto alla ragazza disse: “Ci sei arrivata quando ti ha chiesto di farti altre domande, vero?”

Pallida, Rachael annuì con espressione assente.”

Spendono, spandono e sono quel che hanno

Passando rapidamente dai primi anni ’80 di Blade Runner ad oggi, possiamo dire con certezza che, per catturare replicanti, la Voigt-Kampff non andrebbe più bene. L’empatia è morta anche fra gli umani, o forse attorno a noi ci sono quasi solo replicanti, come dice “Quelli che benpensano” iconica canzone di Frankie H-Nrg:

Frankie Hi.Nrg con Caparezza “Quelli che benpensano”

Niente scrupoli o rispetto verso i propri simili

Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili

Sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti

Sono replicanti, sono tutti identici, guardali

Stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere

I replicanti si ammalano con virus sintetici? A che specie appartieni?

Blade Runner, Rick e Rachael

Se siete certi di appartenere alla specie umana (non che ci sia da rallegrarsene) guardatevi intorno. La D’Urso che fa il tutorial su come lavarsi le mani: replicante. Tutti i “so called” giornalisti alla Giletti, che si fiondano sulla paura da Coronavirus come una iena sulla carcassa di una zebra: replicanti. Le fashion influencer super ignoranti e fiere di esserlo che dicono frasi tipo “Ditemi voi se è normale che nel 2020 devo avere l’ansia di tornare a casa mia perché una massa di stronzi ha creato il virus mortale in laboratorio lasciando uscire il paziente zero a farsi due ravioli al vapore. Mascherina o meno, non è giusto”: replicanti. I politici, donne e uomini, che si presentano in televisione a ripetere lo stesso mantra di parole senza senso, sfondando porte aperte, parlando e blaterando senza dire niente, ma sempre ben vestiti, con capelli appena usciti dal parrucchiere, stupide collane o insulse cravatte: replicanti, replicanti tutte e tutti.

Magari questa epidemia di Coronavirus è il loro modo per eliminare gli ultimi esseri umani e quindi la risposta alla domanda che pongo nel titolo è “No. I replicanti non si ammalano di virus, né di virus organici né di virus sintetici.”

O forse sono tutti replicanti, ma, come Rachael Rosen non lo sanno. Gli hanno impiantato falsi ricordi, ed ecco perché reagiscono così. Sbavano, urlano, aggrediscono, partecipano a talk-show televisivi, “influenzano” sui social network altri replicanti e quando sorridono, se sorridono, noi, ultimi esseri umani rimasti, faremmo meglio a metterci a correre.

Coronavirus e Alien

Cos’hanno in comune il Coronavirus e Alien, rockstar della Sci-Fi cinematografica, Creatura dello Spazio meravigliosamente creata da Giger, artista geniale e maledetto?

Coronavirus e Alien, che cosa hanno in comune

A prima vista nulla: il COVID-19, come lo chiamano ufficialmente, è un virus che è riuscito a fare il salto della specie passando (sembra) da pipistrelli ad umani: è molto contagioso ma non particolarmente cattivo. Alien, invece, è una creatura enorme, con acido al posto del sangue, due o tre bocche piene di denti ed è decisamente, assolutamente letale.

Entrambi, però, per replicare la propria specie hanno bisogno dell’essere umano come incubatrice. A quanto pare, replicare in eterno la propria specie è il compito affidato dagli dei a tutto ciò che vive, nel pianeta Terra e oltre. Compito che noi uomini e donne abbiamo preso molto seriamente: alla fine del 2019 la popolazione umana mondiale era stimata intorno a quasi 8 miliardi di persone.

La missione di Ripley

Coronavirus e Alien: Ripley

Che cosa ha impedito, quindi, ad Alien di raggiungere il nostro pianeta e trovare terreno super fertile per procreare ed allargare a macchia d’olio la sua specie aliena? La risposta è semplice: a impedirglielo è stata la sua nemesi, l’americana Ripley (interpretata dalla fantastica Sigourney Weaver) che anche quando muore rinasce sotto forma di clonazione. La missione di Ripley è quella di impedire alla perfida Compagnia di riuscire a portare un esemplare vivo di Alien sulla Terra, dove lo vorrebbero trasformare in imbattibile arma bellica. Famosa la frase che il caporale Hicks pronuncia alla fine di Aliens, Scontro finale (secondo e bellissimo episodio della saga, diretto da Cameron):

“Io dico che decolliamo e nuclearizziamo, questa è la sola sicurezza!”

Immagino che l’American Airlines, che ha sospeso tutti i voli da New York e da Miami per Milano fino al 24 aprile (e poi si vede) vorrebbe tanto poter dire, insieme a molti altri: “Nuclearizziamo Italia e Cina e voliamo via!”

Coronavirus e Alien: American Airlines vs Milano, Italia

Ieri, quando la sospensione di questi voli non era ancora stata annunciata, l’American Airlines ha bloccato un volo in programma alle 18.05 (ora locale) dall’aeroporto JFK di New York per Milano Malpensa mentre i passeggeri erano all’interno del gate e alcuni già nel pontile d’imbarco. Dopo una lunga attesa, l’American Airlines ha dichiarato che il volo non poteva partire perché l’equipaggio si rifiutava di salire a bordo per paura del Coronavirus.

Certo, l’immagine di se stessi che gli americani vendono nel mondo, immagine di uomini e donne senza paura, che non devono chiedere mai, ne risente un tantino… Mi immagino l’equipaggio dello sfortunato volo American Airlines mentre, inorridito, ascolta Ripley che, sempre in Aliens, parla della prima apparizione del mostro:

“Atterrammo sull’LV-426. Un membro dell’equipaggio era rientrato con qualcosa attaccato alla faccia, una sorta di Parassita. Tentammo di staccarglielo, ma inutilmente, più tardi sembrò si staccasse da sé e morisse. Kraine sembrava rimesso… noi eravamo tutti a cena… e l’ipotesi era che gli avesse lasciato qualcosa nella gola, una specie di embrione… e cominciò, ecco…”

Qualcosa nella gola, una specie di embrione: un po’ come fanno i virus dell’influenza, non si può negare! Come dare torto a tutti quelli che chiudono porti, musei e cancellano voli nella speranza di non far entrare questo invisibile virus incoronato nella loro patria, nella loro città, nel loro quartiere? In fondo lo sanno tutti che è una lotta già persa, ma qualcosa devono pur fare, giusto?

Coronavirus e Alien: la lotta contro la paura
COVID-19

Coronavirus e Alien: la lotta contro la paura

Quando parlo di lotta già persa, mi riferisco alla lotta contro la paura. Almeno gli americani dovrebbero ricordare le parole di Roosevelt:

“La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa.”

Ma del resto Franklin Delano Roosevelt aveva anche detto:

Nessuna impresa che dipenda, per il suo successo, dal pagare i suoi lavoratori meno di quanto serva loro per vivere ha diritto di sopravvivere in questo Paese.”

Credo quindi che le sue parole non vadano più bene, né per i suoi pronipoti americani né per il resto del mondo. Io dico:

“Decolliamo e nuclearizziamo, questa è l’unica sicurezza…”

Coronavirus e media

Su Coronavirus e media: riflessioni a ruota libera.

Giornalista di Sky TG24, parlando di un possibile contagiato dice: “Si è consegnato spontaneamente”. A quanto pare, dopo il killer dello Zodiaco e quello di Green River, adesso abbiamo anche il killer del Coronavirus, che, per fortuna, si è costituito…

Giornalista TG3 dice testualmente “contabilità dei decessi”. Allora, forse, dovrebbero chiamare in aiuto un ragioniere.

Negli schermi giganti di tutti i telegiornali troneggiano le maxi-fotografie dei Coronavirus. Perché le mettono? Perché i Coronavirus sono bellini nel loro elegante dress code bianco e rosso e assomigliano a fiori di viburno?

Coronavirus e media: i coronavirus mostrati negli schermi giganti di tutti i telegiornaliI
Coronavirus
Coronavirus e media: i fiori di viburno assomigliano vagamente ai coronavirus
Fiori di viburno

Coronavirus e media: ancora a ruota libera

Billie Eilish, ovvero l’altra faccia della pop music americana, aveva capito tutto già da tempo: “You should see me in a crown” (dovresti vedermi con la corona) l’ha resa ultrafamosa.

Gli italiani lombardo-veneti che hanno cercato di raggiungere il resort prenotato alle Mauritius (che loro chiamano Maurizio) sono stati fermamente rimandati indietro, in quanto possibili untori e hanno protestato: “Ci hanno trattato come profughi!” Diceva Dante, che però non era né veneto né lombardo: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale

I veneziani comunicano cupi che l’ultima volta in cui non si è festeggiato il carnevale di Venezia è stato durante la peste, quindi quattro secoli fa circa. Dicono che piazza S.Marco è mesta, ma guardandola in TV l’ho vista piena di coreani come sempre, anche se invece di portare mascherine sugli occhi le indossano sulla bocca.

La Diocesi di Venezia ha anche disposto la sospensione delle messe, delle celebrazioni per la Quaresima, di battesimi, prime comunioni e cresime fino al primo marzo. I fedeli sono invitati “alla preghiera e alla meditazione” in privato. Coronavirus più forte di Dio?

Mercoledì delle ceneri, Papa Bergoglio dice, durante l’omelia: ” È il tempo per spegnere la televisione e aprire la Bibbia. È il tempo per staccarci dal cellulare e connetterci al Vangelo.” Peccato che la messa vada in diretta video sul Canale Youtube di Vatican News. Allora, Francé, dobbiamo accenderlo o spegnerlo sto cellulare?

Mercoledì delle Ceneri, Volvera e Pinerolo fanno la Santa Messa senza pubblico ma in diretta Facebook. Zuckerberg, ormai, probabilmente uccide il Coronavirus solo fissandolo col suo sguardo alieno ma, di sicuro, è al di sopra di Dio. A quando il nuovo segno della croce: Nel nome di Zuck, dei Social e dello Spirito Morto?

La nave Diamond Princess parcheggiata di fronte a Yokohama e abbandonata lì: è diventata una bomba biologica, ormai i passeggeri sono contagiati quasi tutti, sembra un racconto di Lovecraft. Finirà come una di quelle serie americane dove i terroristi prendono possesso di una nave dotata di testate nucleari e il Presidente pronuncia la solita frase ai tizi dell’intelligence: “Avete dieci minuti per liberare la nave, o dovremo farla fuori”? Il governo giapponese non sembra interessato, ma gli americani potrebbero intervenire: loro, in fondo, sanno come si bombarda il Giappone.

A Roma non si trovano più le mascherine nelle farmacie e nei negozi, ma in giro non le indossa nessuno. Che accidenti ci fanno? Se le mettono per andare a dormire? Oggi il mio compagno è entrato da Eurospin con la sciarpa in faccia e il tipo della Sicurezza ha avuto un attimo di panico, quasi lo immobilizzava. Invece, uno dei presenti, ha commentato “Anvedi, sta a nevicà…”. Questo accade perché qui, in periferia, i problemi sono altri: del Coronavirus non frega un cazzo a nessuno.

In un supermercato del nord Italia un tizio, vicino alle casse, ha iniziato a starnutire e tossire con foga. Mentre tutti, cassieri e clienti, si allontanavano di corsa, lui è scappato col carrello pieno. Un genio, che altro dire?

Coronavirus e media: filosofia e cazzate a ruota libera

Da The Walking Dead, season 2: “- Scott: La razza umana combatte le pestilenze fin dall’inizio. Ci prendono a calci nel didietro per un po’, ma poi contrattacchiamo. È la natura che corregge se stessa, ripristina il suo equilibrio.
– Rick: Vorrei poterlo credere.
” Io dico credici Rick, credici ancora, credici meglio…

Da The Walking Dead, season 2: “La morte è la morte. C’è sempre stata. Che sia per un attacco di cuore, cancro o uno zombie. Che differenza c’è?” Io dico, beh, un colpo di pistola in fronte è meglio di uno zombie che ti divora vivo!

Parafrasando “Charles Manson”, canzone di Salmo sul Natale, viene fuori: “Buone feste del cazzo, Carnevale di merda, 25 febbraio: siamo in stato d’allerta

Siamo in stato d’allerta ma Conte ha detto che dobbiamo solo “Collaborare, collaborare, collaborare”, così come Francesco Saverio Borrelli, in pieno boom berlusconiano, diceva: “Resistere, resistere, resistere”. Fra i due scelgo senz’altro il secondo, che ho sempre considerato un eroe. Ma in ogni caso, così come nei primi anni zero resistere non è servito, non credo nemmeno in questa fantomatica collaborazione che ci propongono oggi. Fra l’altro, non penso che ripetere le cose tre volte aiuti. Ho provato a dire “Bloody Mary Bloody Mary Bloody Mary” davanti allo specchio ma non è mai apparsa. Per fortuna, credo…

ANCHE I PUBBLICITARI, NEL LORO PICCOLO, FANNO GRANDI CAZZATE

Tutti ricorderanno il famosissimo libro di Gino e Michele “Anche le formiche, nel loro piccolo s’incazzano”. Da questo titolo, come parafrasi, nasce “Anche i pubblicitari, nel loro piccolo, fanno grandi cazzate”.

Negli anni ’60 domandarono a Jean Luc Godard cosa pensava della televisione. Era il periodo in cui la televisione, in Europa, si stava diffondendo rapidamente, un po’ come internet negli anni zero. Godard rispose che la televisione è un rubinetto, quindi tutto dipende dal liquido che ci metti dentro. Sono sicura che oggi Godard risponderebbe “La televisione è pubblicità”. Dal vecchio rubinetto, ormai, esce sempre lo stesso liquido. Stessa cosa per internet: nata come tecnologia dal potenziale stellare è stata trasformata nel Regno Universale e Banalissimo del Mercato, che, a sua volta, ha partorito il mostruoso, gigantesco Leviatano della Pubblicità contro cui non facciamo che sbattere quando cerchiamo di navigare.

Essendo la pubblicità un po’ la spina dorsale del nostro paralitico sistema, ci si potrebbe aspettare che coloro che vengono scelti e abbondantemente pagati per promuovere le merci siano persone brillanti. Non dico sempre puntuali ma nemmeno in ritardo mentale.

Spesso questi signori, chiamati “creativi”, riescono a “creare” dei veri autogoal. Senza nemmeno rendersene conto. Per premiare queste opere geniali ne abbiamo scelte tre: il top degli ultimi anni, un po’ come un podio olimpico.

“ANCHE I PUBBLICITARI” numero tre, Medaglia di Bronzo

ANCHE I PUBBLICITARI NEL LORO PICCOLO FANNO GRANDI CAZZATE: esempio di pubblicità minacciosa
FIAT 500X, Pubblicità uscita nel settembre 2018

Nel 2018 lo slogan di una delle tante Fiat 500 mi è apparso davanti agli occhi come una brutta allucinazione: “NUOVA FIAT 500X. IL DOMANI TI ASPETTA. OGGI.” Ho pensato: più che uno slogan questa è una minaccia. Viviamo in un mondo dove il futuro, senza esagerare, terrorizza la maggioranza della popolazione umana. Questo è il presente: riscaldamento globale e clima impazzito, per iniziare. Situazione politica e sociale disastrosa ovunque. Sovrappopolazione. Mancanza generale di lavoro in occidente e morte per fame, per acqua contaminata e medicine inesistenti in buona parte di Africa, Sud America ed Asia. Continuiamo con corruzione e nepotismo a 360 gradi ovunque volgiamo lo sguardo. Guerre di vario genere e nuova e orgogliosa proliferazione di armi nucleari. Diritti civili che si assottigliano. Il ritorno di tortura e schiavitù, come vecchi amici mai morti ma che, finalmente, possiamo di nuovo ospitare nel salotto buono.

Questo è, solo in parte, il presente. Eleviamolo al cubo e avremo il futuro prossimo. Eleviamolo alla quarta e avremo un futuro un po’ anteriore. I ragazzini di tutto il mondo fanno manifestazioni sul clima contro politici e grossi imprenditori, perché loro, quindicenni, sanno bene che un futuro orribile – costruito dai loro padri, nonni, bisnonni – li raggiungerà, e sono spaventati e incazzati. Ma i creativi della Fiat, come “Alice” di De Gregori, tutto questo non lo sanno e il terrificante, apocalittico domani hanno deciso di impacchettarlo in una graziosa e costosa macchinetta e portarlo oggi stesso qui da noi! Potevano almeno optare per: “Nuova Fiat 500X. APOCALYPSE NOW. Se non altro facevano una citazione…

“ANCHE I PUBBLICITARI” numero due, Medaglia d’Argento

ANCHE I PUBBLICITARI NEL LORO PICCOLO FANNO GRANDI CAZZATE: esempio di pubblicità disastrosa
La cinese di Dolce & Gabbana, novembre 2018

Parafrasando Garcia Marquez, potremmo definirla “Cronaca di un disastro annunciato”. Nel novembre 2018 i creativi del duo Gabbana e Dolce sono stati strapagati per creare un video che promuovesse la grande sfilata con gala che, di lì a poco, avrebbe avuto luogo in Cina. Esito dell’operazione: i pubblicitari sono riusciti ad offendere mortalmente un miliardo e mezzo di cinesi, senza contare i neonati. Nemmeno se la pubblicità fosse stata progettata da Donald Trump in persona avrebbe raggiunto un tale risultato!

Perché “disastro annunciato”? Perché tutti, perfino gli abitanti di Tristan da Cunha, l’arcipelago più lontano da ogni altra terra emersa, sanno che i cinesi, dietro ai loro modi ossequiosi, sono tutt’altro che miti e remissivi. Lasciamo stare la momentanea umiltà profusa dalla classe dirigente cinese a causa del coronavirus di Wuhan: un profilo basso che durerà solo il tempo di bloccare l’epidemia o di infettare il resto della popolazione mondiale. I cinesi, al contrario di noi italiani hanno un senso molto forte della loro identità nazionale e, come popolo, s’incazzano facilmente, sono storicamente vendicativi e possono permettersi di esserlo. Nonostante questa consapevolezza, che cosa hanno inventato i creativi di Dolce e Gabbana? Una modella cinese, nemmeno troppo carina, appena uscita da una Cina non solo antica ma soprattutto assurda, inesistente, così come se l’immaginano solo loro, che ridendo come si fosse appena fumata una canna, prova e riprova, senza riuscirci, a mangiare con le bacchette una pizza, un piatto di spaghetti (alimento, fra l’altro, inventato dai cinesi) e il più grande cannolo siciliano mai visto. Guardando quel video, abbiamo tutti pensato: “Ci sono solo due possibilità: la cinese è strafatta o completamente scema. Terza ipotesi, entrambe le cose”.

Attenti a quei due!

DOLCE & GABBANA CHIEDONO SCUSA ALLA CINA

Ma la storia non finisce qui. Diventa una vera epopea. Di fronte alla prevedibile ira funesta dei cinesi, gli illustri stilisti hanno reagito da umiliati e offesi. Gabbana ha twittato, in un inglese terrificante, cattiverie inenarrabili, con tanto di emoticon a forma di cacca per definire la Cina e chiamando i cinesi razzisti perché mangiano i cani mentre noi, invece, li amiamo e rispettiamo (sì certo, raccontalo ai canili lager e a tutti i cani abbandonati).

Vabbè. Di fronte ai tweet al cianuro di Gabbana, i p.r. di “attenti a quei due”, geniali come i creativi creatori della cinese demente, hanno raccontato la classica madre di tutte le cazzate, ovvero il solito hacker che si insinua oggi qui domani là, finito nell’account dello stilista e sbizzarritosi nell’insultare la Cina. Dopo questo pietoso racconto hanno costretto i due sarti a fare un video dove, seduti di fronte a un muro dalla tappezzeria che fa pensare a un vecchio bordello turco, cupi come mucche in coda dietro alla mucca Giuda, cercano di scusarsi con la Cina. Ma senza crederci, come risulta evidente. Ma almeno – ed ecco la buona notizia – parlando in italiano e non in inglese. 

“ANCHE I PUBBLICITARI” numero uno, Medaglia d’Oro

ANCHE I PUBBLICITARI NEL LORO PICCOLO FANNO GRANDI CAZZATE: la giovane Molly e le capsule molli
Pubblicità delle Moments molli, 2011

Ricorderete tutti la pubblicità del 2011 delle – allora – nuovissime compresse d’ibuprofene Moments molli. In realtà uguali alle Moments vecchie, ma liquide invece che solide e quindi più rapide nel togliere il dolore. Potevano chiamarle liquide, rapide, morbide, duttili, tenere, soffici o vattelapesca ma hanno scelto “molli”. Scelta probabilmente casuale, chi può dirlo? Ciò che è sicuro è che questa parola ha suggerito ai brillanti creativi il promo perfetto.

Chi non ricorda la ragazza americana di nome Molly che va a trovare il suo ragazzo italiano? I due giovani devono uscire ma Molly ha un gran mal di testa; il ragazzo, però, le fa ingerire una delle Moments molli e Molly si sente subito bene tanto che i due partono allegramente in scooter. Passando davanti a una farmacia Molly vede in vetrina la promozione delle Moments molli, e urla col suo accento americano: “Guarda, molli!!!” E tutti e due ridono come scemi.

Dall’inizio alla fine della pubblicità la parola “molli” viene pronunciata continuamente. Una specie di mantra, creato apposta dai pubblicitari ingaggiati dalla Casa Angelini per far rimanere ben impresso il nuovo concetto nella mente della gente. Riusciti, ci sono riusciti. Qual è il problema, allora?

ANCHE I PUBBLICITARI: Molly di varie forme e colori: tutte anfetamine, comunque
MOLLY

Molly

Il problema è che la parola molly, negli Stati Uniti prima e subito dopo in Europa, in Australia e probabilmente anche nel bel mezzo del Sahara è diventata, già da ben più di dieci anni, sinonimo di anfetamina. Dalla MDMA o ecstasy, passando per tutte le varietà possibili e immaginabili di pasticche nate per “andare veloci”, molly significa anfetamina, e quindi droga. Non sto parlando di un nomignolo conosciuto solo in ambienti tossici e ristretti: negli Stati Uniti – per capirci – anche i bambini delle scuole medie sanno cosa è molly. Perfino qui da noi, basta guardare una serie televisiva qualsiasi con dialoghi italiani (Two broke girls, Elementary, Animal Kingdom, Law & Order, Euphoria, Shameless, Prodigal Son, solo per citarne alcune) per sentir nominare più volte molly in quel senso. Inoltre non si tratta di una droga leggera come la cannabis, ma, al contrario, di una droga molto pericolosa, ed essendo considerata anche droga da discoteca viene usata da molti con superficialità. Qualcosa che – in effetti – sarebbe meglio non pubblicizzare ogni due minuti in televisione. Se poi consideriamo che, sia nel caso dell’anfetamina sia nel caso dell’ibuprofene entrambi i principi attivi vengono consumati principalmente tramite pasticche, l’incredibile gaffe suona ancora più evidente.

Ad ogni modo, dopo più di due anni di continui spot in tema, i signori dell’Angelini devono aver scoperto che stavano spendendo un sacco di soldi per pubblicizzare il narcotraffico, e la giovane Molly, così com’era arrivata, è improvvisamente sparita.  Proprio dall’oggi al domani. In ogni caso nessuno può togliere ai suoi creatori la nostra medaglia d’oro, decisamente più che meritata…   

IL GATTO DI SCHRODINGER E IL GATTO DI GOOGLE

Il gatto di Schrodinger, per spiegarlo rapidamente e con parole decisamente poco scientifiche, è un esperimento mentale ideato da Erwin Schrodinger nel 1935. Lo scopo dell’esperimento era quello di dimostrare come l’interpretazione ortodossa della meccanica quantistica, pur funzionando a livello subatomico, risulti decisamente problematica quando mettiamo in relazione il mondo subatomico col mondo macroscopico.

Da lì l’idea di un marchingegno infernale fatto di una piccola porzione di sostanza radioattiva, di una capsula al cianuro con martelletto pronto a romperla, il tutto chiuso per un’ora in una scatola assieme a un povero – e certamente incazzatissimo – gatto. Se uno degli atomi radioattivi si disintegra, il martelletto rompe la fiala e il cianuro uccide il gatto; se, invece, nessun atomo si disintegra, il gatto resta vivo. Se all’apertura della scatola sarà ancora vivo, probabilmente il micio vi azzannerà alla gola: è bene che siate preparati!

La proverbiale “gatta morta”

Secondo la teoria ortodossa, conosciuta come entanglement quantistico, e già contestata da Einstein prima che da Schrodinger, due sistemi fisici, se interagiscono, si vanno a sovrapporre e devono essere trattati come un sistema unico, descritto da un solo stato quantico, e precisamente l’entanglement di cui prima. Ed ecco il paradosso del gatto, perché, all’apertura della scatola, il gatto non può essere sia vivo che morto: nessun “intreccio” può esistere fra i due stati. A meno che non si tratti della proverbiale “gatta morta”, che, come tutti sappiamo, è morta solo a parole…

Il gatto di Schrodinger e il gatto di Google

Dal gatto di Schrodinger passo rapidamente al gatto di Google. Cosa diavolo è il gatto di Google? Una sorta di stalker che, ultimamente, mi segue ovunque su internet. Vado su un sito che parli di qualsiasi cosa possiate immaginare e chi ci trovo, in alto a destra, o al centro? Quell’accidenti di gatto. Vado su youtube? Il gatto è lì che mi aspetta.  Quel gatto arriva sempre per primo e mi fa pensare a quella frase di Terry Pratchett sulla luce, che crede di viaggiare più veloce di tutto, ma si sbaglia. Per quanto sia veloce, la luce scopre sempre che l’oscurità è arrivata prima di lei e l’aspetta.  

Il mio meraviglioso gatto Axl

Oscurità e luce a parte, la faccenda che riguarda lo stalking del gatto è davvero inquietante, e vi spiego il perché. Come la maggioranza dei frequentatori del web anch’io amo i gatti, e ne ho due. Google ovviamente può accedere ai nostri pensieri più reconditi, e a maggior ragione alle foto che scattiamo col telefonino. Nel mio caso, in mezzo a tante foto che vanno dalle radici degli alberi a fiori, api e farfalle, foto di amici e tutto quello che vi può venire in mente, le foto dei miei gatti sono davvero poche. Sono poche per un motivo semplice: a quelle due bestie ingrate non piace essere fotografate; appena scoprono che li stai inquadrando – e lo scoprono subito – se ne vanno disgustati.

Ed ecco la rivelazione inquietante: il mio gatto Axl (sì, Axl come Axl Rose) è praticamente la fotocopia del gatto di Google.

Il gatto di Schrodinger e il gatto di Google: due domande

 La prima domanda, quindi: come fa l’algoritmo di Google a sapere che ho un gatto che amo più di ogni altro animale al mondo e mettermi una foto di un gatto a lui identico che mi segue? Se fossimo americani direi: roba da NSA.

La seconda domanda, ma prima per importanza: a cosa serve il gatto di Google? È un premio, come per dire “ti vogliamo bene e vogliamo che tu ti senta a casa, qui da noi”, o al contrario “sappiamo tutto di te e se solo fai una mossa sbagliata ti strangoliamo il gatto? Il tuo, si capisce, non il nostro”.

Quali che siano le risposte, è evidente che siamo tornati a “1984” di Orwell. Con i televisori del Grande Fratello che osservano ogni tuo movimento, perfino il più piccolo, il più apparentemente inutile, pronti ad usarlo contro di te:

“Smith! – gridò la voce petulante dallo schermo – 6079 Smith! W.! Sì, proprio tu! Chinati di più per cortesia. Puoi fare di meglio. Non ti sforzi. Più giù, più giù. Così va meglio, compagno. E ora riposo, tutta la squadra, e guardate me”.

Ora Winston traspirava da ogni poro della pelle un sudore bollente. Il suo volto rimase però impassibile: mai mostrare sgomento, mai mostrare risentimento! Un guizzo negli occhi ed eravate perduti.

Razze pericolose

A qualsiasi algoritmo risponda, il gatto di Google probabilmente nella realtà non esiste. O magari è esistito e adesso è morto. Ma in ogni caso il gatto di Google supera il paradosso del gatto di Schrodinger, perché, al contrario del gatto nella scatola, è un perfetto entanglement: può essere vivo e morto allo stesso tempo, reale e irreale, vero e finto, amico e nemico, proprio come tutto ciò che è virtuale, proprio come tutto ciò a cui diamo la nostra fiducia in questa infelice epoca.

I nostri padroni, però, che ci guardino dallo schermo di uno smartphone o da un televisore in bianco e nero, che appartengano a un tipo nuovo o vecchio di economia, fanno sempre parte della medesima razza. Una razza pericolosa. Non dimentichiamolo mai. 

DI CAPITANI BALENE E MAMBA

A volte mi pongo domande bizzarre. Ad esempio: che cos’ha questa parola, Capitano, che in epoca di invasivi vocaboli inglesi come brand, start up, spoiler, cashback dovrebbe apparire così antica, stantia e noiosa, ma, inaspettatamente riesce ad attrarre la gente come il miele attira gli orsi?

Il sostantivo Capitano, in contesto militare, significa colui che guida una forza armata sul campo, mentre in ambito marittimo – che poi resta l’ambito privilegiato del termine – rappresenta il comandante di barche, vascelli, navi, sia militari che mercantili. Da lì, per estensione, Capitano è anche l’appellativo che si dà a chi guida un’azienda, una squadra sportiva, una formazione politica, ma in tutti questi casi è un titolo che viene assegnato dal popolo: solo i più amati vengono definiti “Capitano”, e una volta diventati Capitano lo rimangono per sempre. Pensiamo a Totti, che non gioca più nella Roma ma i tifosi romanisti continuano, tutti, a chiamarlo e considerarlo, ufficialmente, “Il Capitano”. Oppure, allontanandoci di molto, pensiamo a quella montagna californiana, una sorta di enorme e meraviglioso monolite granitico, “El Capitan”, su cui alcuni amano rischiare la vita in free-climbing.

DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: EL CAPITAN, YOSEMITE

DI CAPITANI, BALENE E MAMBA

Parlando di politica, invece, è sufficiente pensare al comizio di Salvini a Pontida del 15 settembre 2019, fra i leghisti della vecchia guardia, arrivati in massa dalle everglades del lombardo-veneto e dalle ricche e noiose cittadine del profondo nord. Fra urla xenofobe, cazzotti a un reporter di Repubblica e ostentazione di croci e rosari come nemmeno Madonna ai tempi di “Like a virgin”, un giornalista si fa largo fino a domandare a un’anziana  come riescano, lei e gli altri leghisti della prima ora, a mandare giù la nuova Lega che ha rinunciato alla secessione prima, al federalismo poi, per andare a cercare voti al sud, in mezzo a quei terroni che loro odiano da sempre.

“È stata dura, non posso negarlo – ha risposto lei – ma per il nostro Capitano si fa questo e altro…”

Il Nostro Capitano. Questo è amore. Senza se e senza ma. Lo stesso Berlusconi, che ha governato per circa un’era geologica, è stato chiamato in tanti modi: con quel ridicolo “Cavaliere”, con quell’ambiguo “Presidente” fino allo sprezzante Bunga Bunga usato dai giornalisti stranieri; nessuno, però, l’ha mai chiamato Capitano. No, Capitano si usa solo con chi si ama, e questo dovrebbe far riflettere tutti quelli che, invece, Salvini non lo amano affatto e vorrebbero evitare di ritrovarlo, nei prossimi mesi, premier in un governo di iperdestra. A prescindere dalla sua sconfitta personale alle elezioni regionali in Emilia Romagna, perché non è necessario aver letto Sun-Tzu per sapere che perdere una battaglia non significa perdere la guerra.

Che Capitano è Salvini?

Per iniziare, ecco qualcosa su cui riflettere: che genere di Capitano è Matteo Salvini?Sicuramente gli piacerebbe considerarsi un “Capitano coraggioso”, ma non può, perché il “Captain Corageous” da cui Kipling ha preso il titolo del suo famoso libro era una donna, Mary Ambree, le cui gesta furono cantate in un’antica ballata inglese, che Thomas Pierce raccolse e fece pubblicare a metà settecento:

DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: Mary Ambree, donna e capitano, a cui si è ispirato Kipling per il titolo del romanzo Capitani Coraggiosi.
DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: MARY AMBREE IN BATTAGLIA

Then Captain Courageous, whom death could not daunt,         

Had roundly besiegéd the city of Gaunt,

And manly they marched by two and by three,And foremost in battle was Mary Ambree

Il Capitano Coraggioso, che la morte non poteva spaventare, aveva assediato strettamente la città di Gaunt, marciarono soprattutto in gruppi di due o di tre, e la prima in battaglia fu Mary Ambree.

Non temere la morte, per gli elettori di Salvini, potrebbe essere una retorica perfetta (l’inno di battaglia dei franchisti, nella guerra civile spagnola, era “Viva la Muerte!”), ma identificare il loro Capitano con una “Mary”, proprio no. Fosse anche una Mary in stile Marvel…

Forse, allora, il Matteo nazionale potrebbe vedersi come il O Captain! My Captain!di cui ci parla Walt Whitman in una delle sue poesie più famose, inclusa nella sua raccolta Leaves of Grass del 1867:

O Captain! My Captain! rise up and hear the bells;
Rise up—for you the flag is flung—for you the bugle trills;
For you bouquets and ribbon’d wreaths—for you the shores a-crowding;
For you they call, the swaying mass, their eager faces turning;
      Here captain! dear father!
            This arm beneath your head;

                  It is some dream that on the deck,
                        You’ve fallen cold and dead

O Capitano! mio Capitano! Alzati e ascolta le campane;
risorgi — per te è issata la bandiera — per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri — per te le coste affollate,
per te le grida, la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi;
ecco Capitano! amato padre!
questo braccio sotto il tuo capo;
dev’essere una specie di incubo se sul ponte
sei caduto freddo e morto.

Certo, trattandosi di un Capitano morto, Salvini toccherebbe ferro, o altro. Ma trombe, bandiere, fiori, la massa di gente che grida il tuo nome, sono tutte cose che ogni politico vorrebbe per sé. Ma anche qui c’è un problema: questa poesia è stata scritta da Whitman dopo l’assassinio di Abraham Lincoln, è un’elegia in suo onore, e quindi il Capitano, Mio Capitano è l’uomo “colpevole” di aver abolito la schiavitù negli Stati Uniti d’America, di aver dichiarato che bianchi e neri hanno gli stessi diritti e condannato l’economia degli stati confederati – all’epoca interamente basata sul lavoro degli schiavi – ad un faticoso e costoso mutamento, obtorto collo.

Quindi no, non credo che il leader della Lega, nonché grande amico di Casa Pound e affini, potrebbe mai identificarsi col Presidente Lincoln.

DI CAPITANI, BALENE E MAMBA: Abraham Lincoln, per la cui morte Whitman scrisse la famosa "O Captain, My Captain"
ABRAHAM LINCOLN

Achab-Salvini

Invece, un Capitano a cui, di sicuro, Salvini non vorrebbe paragonarsi, è il Capitano più famoso della storia della letteratura mondiale, Achab. Ma, secondo me, al contrario degli altri capitani citati fino ad ora, Achab è l’unico a cui Salvini potrebbe assomigliare, almeno in parte. Non certo esternamente, perché Achab, fin dalla sua prima entrata in scena, mostra al lettore, già nel suo aspetto, tutta la sua distanza dalla normalità: ha una grande cicatrice in faccia e gli manca una gamba. Salvini, invece, da questo punto di vista, cerca di mostrarsi il più normale possibile: né magro né grasso, volto anonimo, né bello né brutto, con gli stessi capelli e la stessa barba che, al momento, portano la maggioranza degli uomini fra i 25 e i 45 anni.

Tornando a Melville, solo quando la nave raggiunge il mare aperto il Capitano Achab rivela ai marinai che l’unico vero fine del viaggio è uccidere Moby Dick. Ed è qui che la pericolosità di Achab affiora dirompente, perché in pochi attimi riesce a convincere l’intera ciurma, a eccezione del secondo ufficiale Starbuck, che cercare, inseguire e distruggere un’unica balena sia la cosa giusta da fare, contro ogni buon senso e contro ogni ragionamento di carattere economico. Tutti vittime della sua stessa ossessione.

Ed ecco dove l’identità dei due “capitani” si avvicina fino a toccarsi: nella propensione ad ottenere consenso, nella capacità di mostrare lucciole per lanterne e nell’eccezionale talento di comunicare il proprio odio trasformato in paura agli altri, come fosse il contagio di una malattia devastante. Che odio e paura siano rivolti a balene bianche o a migranti neri poco importa.

D’altra parte immagino non siano pochi quelli che, ricordando il Salvini da Papeete che balla e canta con le cubiste, siano tentati dal pensare a lui come al capitano de “La Bamba”, popolarissima canzone messicana:

Para bailar La Bamba se necessita una poca de gracia

Yo no soy marinero, soy capitan soy capitan, soy capitan

Che lui non sia un semplice marinaio, questo ormai è chiaro a tutti, ma se lo considerassimo un capitano da operetta faremmo un grosso torto a noi stessi e un grosso favore a lui. Perché è così che l’amato capo dei leghisti vuole che si pensi alla sua persona, come a un simpatico capitano da spiaggia; allo stesso modo in cui i mamba verdi, serpenti arboricoli, cercano di sembrare innocui ramoscelli.

IL CARDIGAN DI KURT COBAIN

IL CARDIGAN DI KURT COBAIN, indossato da Kurt nell'MTV Unplugged 1993, a pochi mesi dalla morte
Il cardigan di Kurt Cobain all’Unplugged di MTV 1993

Inizierò l’articolo parlando di pubblicità, e qualcuno potrebbe domandarsi cosa abbia a che vedere questo con il cardigan di Kurt Cobain. Un attimo di pazienza: forse vi ricorderete di quella serie di spot che pubblicizzavano una carta di credito, la Mastercard, dove ci proponevano due o tre storie a schema fisso. Ci mostravano una donna o un uomo nel tentativo di raggiungere il Grande Progetto o il Sogno della loro Vita.

Per tutto il resto…

Facciamo un esempio (disclaimer: l’esempio è inventato da me, i pubblicitari mai l’avrebbero messo in scena e nessuna carta di credito l’avrebbe sponsorizzato); immaginiamo che Silvia desideri uccidere il suo ex marito bastardo e traditore. Vediamo Silvia che spende tot euro per un coltello molto affilato; altri tot euro per una tuta da crime scene che non faccia passare il sangue; ancora tot euro per i servigi di un hacker che faccia saltare le telecamere a circuito chiuso nel palazzo del marito. Alla fine, il narratore dirà: “Vedere Silvia che ride felice davanti al sangue che una volta apparteneva al marito non ha prezzo. Per tutto il resto c’è mastercard”. Da un punto di vista strettamente connesso al marketing, non era un brutto spot: rimaneva in mente. Per tutto il resto, però, raccontava menzogne, proprio come ogni venditore e come ogni pubblicità che si rispetti.

Ogni cosa ha un prezzo

In questo caso, la menzogna – di facile individuazione – è l’asserzione che possa esistere qualcosa “che non ha prezzo”. Infatti in questo mondo ogni cosa ha un prezzo, anche se le modalità per pagarlo possono essere tante, oltre al classico pagamento in denaro: a volte si paga il dovuto con atti sessuali, o competenze specifiche; altre volte con azioni illegali, o lo si paga emotivamente, intimamente, con la propria o altrui umiliazione, con la distruzione della vita di qualcuno o con la propria disperazione. Il prezzo lo possiamo pagare perfino con la morte, che sia la propria o quella di un altro. Ma pagare, si paga sempre: questa è la sola certezza.

I peli pubici di Charles Manson

Quello che è peculiare, nel mondo ipercapitalista, è la stima del prodotto da pagare. Ci sono mercati, leciti o illeciti, che danno un prezzo che potremmo considerare folle a cose come i peli pubici di Charles Manson, e ad alcuni di noi potrebbe con facilità sembrare assurdo, spropositato, insensato, il divario fra quello che avresti potuto fare – di utile o anche di inutile, per te o per gli altri – con gli stessi soldi spesi per quegli stupidi peli pubici. Ma, nel momento in cui decidiamo che il capitalismo è il migliore, se non l’unico, dei mondi possibili, chi siamo noi per decidere cosa sia giusto o ingiusto acquistare? Milioni e milioni di persone che non hanno acqua potabile, per non parlare del cibo, a fronte di un numero certamente minoritario di miliardari che, letteralmente, non sanno dove buttare tutto ciò di futile che possiedono. O ancora, i primi 8 uomini più ricchi del mondo che, messi insieme, possiedono tanto quanto la metà povera di tutta la specie umana: una volta accettato questo, non si torna più indietro, e fare la morale sui peli pubici di Manson sembra davvero molto ipocrita e un tantino patetico.

Il cardigan battuto all’asta

Lo scorso 26 ottobre 2019, è stato battuto all’asta l’iconico cardigan fra il beige e il verde che Kurt Cobain indossava durante il live Unplugged per Mtv, nel novembre 1993: a pochi mesi, quindi, dalla sua morte. Il cardigan di Kurt Cobain non è mai stato lavato, ha una bruciatura di sigaretta e alcune macchie ed è stato venduto per 334.000 dollari, dal tizio che, quattro anni fa, l’aveva acquistato per 137.500 dollari. Si tratta del costo più alto mai pagato per un capo d’abbigliamento appartenuto a una rockstar, ed è per questo che se ne è parlato parecchio. Nel nostro piccolo, anche a casa mia ne è uscita fuori una discussione.

“Ma ti rendi conto che con 334.000 dollari ti ci compri una casa? Una casa bella, non una topaia!” ha detto il mio compagno.

“Certo, se hai solo 334.000 dollari ti compri una casa – gli ho risposto – ma se di soldi ne hai tanti…”

“Davvero se tu avessi un sacco di soldi ti compreresti quel golf? Per farne cosa, per metterlo sotto a una teca?”

Ecco, è su questo che si è sbagliato. Se avessi così tanti soldi da potermi comprare il cardigan di Kurt Cobain, non lo metterei mai sotto a una teca. Io lo annuserei, lo aspirerei, qualche volta lo indosserei, volerei insieme al golf con le ali del sogno, ogni notte ci dormirei abbracciata e il giorno della mia morte mi ci farei cremare insieme. Perché se è vero che ogni oggetto ha il suo prezzo, è anche vero che in alcuni oggetti riusciamo a percepire un sentore che ci incanta col suo profumo di potere e spirito.

Gli insegnamenti di Don Juan

Da “Gli insegnamenti di Don Juan”, primo strabiliante libro di Carlos Castaneda:

“Alcuni oggetti sono permeati di potere – disse – ne vengono utilizzati decine, dagli uomini potenti… Questi oggetti sono strumenti, non ordinari, ma di morte. Tuttavia si tratta solo di oggetti. Non hanno il potere di insegnare…”

“Di che oggetti si tratta, Don Juan?”

“Non sono proprio degli oggetti; si tratta piuttosto di tipi di potere.”

“Come si fa a ottenerli, Don Juan?”

“Dipende da quale vuoi.”

“Quanti tipi ce ne sono?”

“Come ho già detto, ce ne sono decine. Ogni cosa può essere un oggetto di potere.”

“Quali sono i più potenti?”

“Il potere di un oggetto dipende da chi lo possiede, dal genere di uomo che è…”

La vita segreta degli oggetti

La letteratura e il cinema horror o fantasy sono pieni di oggetti, grandi e piccoli, posseduti da qualche spirito non proprio dolce e mite: l’hotel di Shining, l’antica scatola in legno abitata dal Dibbuk, cristalli sognanti, tombe egizie maledette, diaboliche scarpette rosse, libri delle ombre. Io sono fermamente convinta che – non tutti, certo – ma alcuni fra gli oggetti che ci circondano vivano una loro vita distinta e separata, una sorta di limbo a cui difficilmente possiamo accedere. Se incontriamo un coniglio bianco possiamo rincorrerlo fino alla sua tana, ma poi, grandi e grossi come gli adulti che siamo, riusciremmo a rotolarci dentro per inseguirlo nel suo mondo magico?

Se è vero che il potere di un oggetto dipende da chi ne è stato il proprietario, allora il cardigan di Kurt Cobain me lo immagino colmo di talento, poesia, bellezza, gentilezza. Tutto quello che manca al nostro mondo. Tutto quello che manca a ognuno di noi.

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