“Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato.” Yukio Mishima “La decomposizione dell’angelo”
Laura Salvinelli non è solo un’artista, una grande fotografa di fama internazionale, specializzata nel difficile ambito della fotografia sociale, ma anche una persona davvero bella e rara: empatica, amorevole, solidale, animalista e sincera. Fisicamente sembra uscita da un dipinto di Klimt: alta, magrissima, occhi azzurri, capelli rossi e carnagione eterea. La sua casa è semplice e affascinante, piena di foto e oggetti speciali riportati dai luoghi più remoti della terra. La mia componente “bambina” vorrebbe frugare nel baule antico e orientale che ha in ingresso, e lei è così gentile che, se glielo chiedessi, probabilmente me lo lascerebbe fare.
Bambina di etnia Karen, Chang-Mai Tailandia 1989 by Laura Salvinelli Centro ortopedico Kabul, Afghanistan, 2003 by Laura Salvinelli
Domanda: La tua carriera da fotografa è iniziata con cinema e musica, campi in cui hai lavorato per quasi vent’anni. Dopo di che sei passata dal fotografare Keanu Reeves alle ragazze di un carcere minorile in Kenya. Non è proprio un percorso normale: come ci sei arrivata?
Laura Salvinelli: Ho sempre seguito i miei sogni. Da bambina ero ossessionata dal voler dimostrare la verità dei sogni. Quando sognavo di stringere un oggetto speciale nelle mani pensavo che, al risveglio, ritrovandomelo in mano, avrei dimostrato che il sogno era vero. Ma ovviamente l’oggetto spariva sempre. Poi, a 21 anni ho iniziato a fotografare professionalmente, e ho avuto la fortuna di avere un maestro come Peppe D’Arvia che mi ha preso come assistente, senza scuole, e quando nella prima settimana di lavoro ho visto l’immagine apparire nella bacinella in camera oscura, ho realizzato che finalmente si era avverato il passaggio da una dimensione all’altra. Il sogno era vero e l’oggetto non sarebbe più sfuggito dalle mie mani. Poi, per tanti anni ho fatto ritratti, perché io sono una ritrattista, e vivendo a Roma ritraevo personaggi dello showbusiness o politici.


Ma, piano piano, mi accorgevo che i lavori che facevo per i miei clienti, maschi o femmine, erano tanto più belli – dal mio punto di vista – quanto meno assomigliavano a loro, o all’idea omologata e mercificata del loro aspetto, soprattutto per ciò che concerne il corpo femminile. Nel frattempo sono passati venti anni ed è arrivato l’11 settembre 2001: stavo fotografando un’attrice tedesca quando mi ha telefonato un’amica dicendomi di guardare la televisione e ho visto quelle immagini pazzesche del crollo delle Torri, e non dico che sia stata un’illuminazione sulla via di Damasco, perché era tempo che pensavo di fare, sempre in ambito fotografico, qualcosa di diverso, ma ho deciso di mettere le mie capacità al servizio di qualcosa di utile, di vero. E dopo poco sono andata in Afghanistan, che è il luogo della Terra in cui ho più lavorato e che amo particolarmente.

Domanda: Ho letto sul tuo blog questa frase, a proposito del tuo lavoro: the invisible beauty of the weak. Quindi l’invisibile bellezza di ciò che è fragile. Cosa significa per te?
Laura Salvinelli: Sì, è una percezione che appartiene al cuore. Forse anche perché sono donna, mentre il fotografo/reporter uomo può avere uno sguardo più predatorio. Io vado d’istinto verso ciò che è debole, anche perché significa riconoscere la parte debole che hai dentro, che non tutti vogliono vedere. La fragilità, così come l’ombra e la luce, appartiene a ognuno di noi, e riconoscerla in se stessi aiuta a entrare in contatto con la fragilità altrui; è in questo contatto che trovi la vera bellezza, di solito intrecciata con la sofferenza.

Domanda: Fra le tante foto che hai fatto, ce n’è una che senti più tua, o un servizio che in qualche modo ti è entrato nell’anima?
Laura Salvinelli: la foto che forse amo di più appartiene al reportage che ho fatto in Afghanistan sul buzkashi, nato come una competizione di guerra e diventato uno sport violentissimo, il più violento del mondo, dove i cavalieri si devono impossessare di una carcassa di capra e mandarla in una zona delimitata. Nel frattempo si muovono a velocità pazzesca tutti insieme e non ci sono regole. Possono usare la frusta sugli altri cavalieri e cavalli e fare qualsiasi cosa. Il gioco nel gioco, poi, è che il pubblico deve stare vicinissimo, senza muoversi, finché non arriva questo enorme gruppo di cavalli al galoppo e allora la gente inizia a correre, caricata dai cavalli. Io ero vestita da uomo perché le donne non sono ammesse, e cercavo di stare in mezzo al campo e il più vicina possibile ai cavalli.


Nella foto di cui parlo c’è moltissimo dentro: innanzi tutto il mio amore per gli animali; non ho mai paura di stare vicino agli animali, nemmeno in situazioni pericolose. Quel giorno c’era finalmente una luce morbida, perfetta e all’improvviso, guardando un cavallo con la testa all’indietro ho avuto un ricordo: nello studio di mio padre c’era una gigantografia di Guernica grande tutta la parete, e nell’immagine di quel cavallo ho rivisto una parte di Guernica, perciò qualcosa che avevo dentro, qualcosa che per me significava “home”, e mentre arrivavano decine e decine di cavalli al galoppo verso di me sono rimasta immobile, ho messo perfettamente a fuoco e scattare è stato come un miracolo. Mi ero avvicinata fino al massimo che la messa a fuoco mi consentisse, e quindi ero a un metro da quel cavallo bianco, che ho toccato, mentre tutti gli afghani mi guardavano strabiliati.

Quella foto “Buzkashi/Guernica” è comunque un ritratto, anche se un ritratto in azione. Invece, come foto di ritratti più “classici”, amo molto il reportage che feci per Internazionale alle ragazze kenyote rinchiuse in un carcere minorile, dove c’erano di base solo ragazzine di strada, arrestate per vagabondaggio o costrette a prostituirsi. Per avere il permesso di entrare nel carcere ho dovuto organizzare un corso di fotogiornalismo. Sono riuscita a stare ben tre settimane con queste ragazze, e piano piano io conoscevo tutto di loro e loro si erano talmente abituate a me che ero diventata invisibile. E questo è il sogno del reporter, diventare invisibile, perché in ogni situazione che vuoi fotografare basta che tiri fuori l’attrezzatura e tutto cambia. Questa invisibilità mi ha permesso di scattare foto bellissime assolutamente naturali, fra cui, la mia preferita, quella di una ragazza seduta che legge Oliver Twist, libro che racconta una storia uguale a quella di tutte le ragazze rinchiuse in quel carcere: il bambino che rimane solo per strada e finisce nelle mani della microcriminalità.

Domanda: tu hai scelto di raccontare la parte del mondo più fragile, più povera. Se dovessi fotografare l’altra parte del mondo, quella opulenta, capitalista, che foto faresti?
Laura Salvinelli: di sicuro non fotograferei politici, perché fotografandoli promuovi la loro immagine e fai il loro gioco. Di primo acchito mi piacerebbe fotografare la contraddizione, ma avendo io una vena estetica molto forte, so anche che la bellezza può essere un’arma e quindi va controllata. Ad esempio nei posti di guerra mi sono sempre rifiutata di lavorare per i militari, perché avrei rafforzato la loro immagine. Poi con i militari non hai nessun controllo su quello che puoi fotografare, e più sono importanti e più ti impediscono di fare il tuo lavoro. L’ultima guerra che i reporter hanno potuto seguire e fotografare è stata quella del Viet-Nam.

Domanda: Parlando di guerra, lavorare col dolore della gente, se sei una persona empatica, ti può far soffrire molto. Ogni tanto ripenso a quel film di Katryn Bigelow “The hurt locker”, dove c’è l’artificiere che affronta e disattiva bombe con l’insostenibile leggerezza dell’essere, quasi con piacere, mentre nel rapporto con moglie e figlio neonato, in licenza, prova solo depressione. Gli domandano “Qual è il modo migliore per disinnescare quelle cose?” e lui risponde “Quello in cui non si muore.” Il suo hurt locker è chiaramente la dipendenza dall’adrenalina, che viene anche chiamata Dipendenza da Ricerca del Rischio Estremo (DRRE). Qual è il tuo hurt locker, se ne hai uno?
Laura Salvinelli: In quel film ti mostravano benissimo il meccanismo di dipendenza dalla guerra, e questa è una cosa che succede. Quando sono stata in Libano per la Croce Rossa Internazionale ho lavorato proprio in mezzo alle pallottole e ho provato quella sensazione. Volevo rimanere un mese ma alla fine, per fortuna, sono stata lì solo per dieci giorni, e dieci giorni in mezzo alle pallottole mi hanno fatto tornare drogata, perché in quelle situazioni ti senti vivo come non mai, e nonostante i sensi di colpa ti ricordino che stai provando piacere sulla morte altrui, solo perché hai avuto la fortuna di essere ancora viva, la dipendenza rimane ed è una cosa che provano tutti quelli che lavorano fuori, in situazioni di guerra ed emergenza, militari, reporter, medici ecc.

Per non farmi soffocare dalla sofferenza, invece, lavoro molto con immagini interiori, in una sorta di auto-analisi. Infine, il sentirsi utile è fondamentale. La seconda volta che andai in Afghanistan fui catapultata in un ospedale, nel centro grandi ustioni. C’erano tutte donne che si erano date fuoco ed era un tunnel dell’orrore: donne bruciate anche fino all’80% della superficie del corpo, in una situazione di dolore assoluto, senza anestesia, e ho pensato che non ce la potevo fare. Poi ho capito che queste donne erano ribelli: si davano fuoco per ribellione, altrimenti avrebbero continuato a vivere in apatia e depressione come la maggior parte delle donne afghane. Questo mi ha fatta sentire in connessione con loro, che soffrivano dolori al cui confronto il mio non era nulla. Una di loro, subito prima di morire, mi ha fatto cenno con la mano di avvicinarmi e mi ha detto “Foto”, in afghano. Allora ho iniziato a lavorare perché ho capito che quelle storie andavano raccontate.

Domanda: Il villaggio degli elefanti? Quello che non sono riuscita a capire è: quegli elefanti erano felici o no?
Laura Salvinelli: Gli elefanti sono animali selvatici e non sono fatti per vivere in cattività, difficilmente si riproducono e i maschi adulti a volte impazziscono. Detto ciò quello era il più grande tempio in India, a Kerala, dedicato a Ganesh, dio con la testa d’elefante, e lì gli elefanti non stavano in gabbia, erano liberi, ben nutriti e lavati in uno stagno che non era né grande né profondo, ma comunque erano ben accuditi.


La prima volta che andai lì rimasi per circa dieci giorni; ogni giorno andavano e venivano turisti indiani, facevano due foto e via, mentre io, da sola, stavo sempre lì. Un giorno i guardiani degli elefanti volevano andare alla partita di cricket, mi sono venuti tutti intorno dicendo, col loro inglese divertentissimo: “Senti Madam, tu hai visto tante volte, tu adesso sai fare tutto, noi andiamo a vedere la partita.” Hanno tagliato una noce di cocco in due e mi hanno messo i gusci grossi e rasposi in mano indicandomi un elefante gigantesco, maschio, di 41 anni, dicendo: “Tu sai come, lui fa tutto” e mi sono ritrovata, quasi al tramonto, da sola con quest’elefante enorme e i due gusci di noce che servivano per grattarlo, per fargli una sorta di scrub.

Lui entra nello stagno, si sdraia e si rovescia, col pancione all’aria e gli occhi chiusi. Io mi avvicino lentamente ed entro nell’acqua putrida e quando lui ha capito che ero completamente imbranata ha iniziato con la proboscide ad annusarmi e toccarmi. La cosa pazzesca è che mentre la pelle degli elefanti è durissima, la proboscide è morbida e umida ed è un contatto meraviglioso. Allora ho detto “Beh, proviamoci” e ho iniziato a grattarlo, piano piano, con i gusci di noce, e lui, come un gatto enorme, quando mi stancavo e mi fermavo apriva l’occhio e mi guardava. Dopo un po’ mi ero messa, bagnata fradicia, a cavalcioni del suo grosso collo e gli aprivo il labbro, gli contavo i denti, gli tiravo su l’orecchio e provavo un amore sconfinato. Se non fosse stato così grosso avrei voluto portarlo a casa! Il contatto con gli animali deve essere fisico, e allora è una cosa meravigliosa…

Domanda: Com’è la salute della fotografia, in generale?
Laura Salvinelli: Ovviamente è in declino, come mezzo che diventa per certi versi obsoleto, ma soprattutto perché è legata all’editoria, ai giornali, ed essendo l’editoria in crollo porta giù con sé anche la fotografia. La cosa positiva, invece, è che la fotografia è stata sdoganata nel mondo dell’arte, dove è difficilissimo accedere, però non ci sono mai state così tante mostre e i fotografi, finalmente, sono riconosciuti come artisti. Prima non potevamo entrare nei musei, adesso sì, e questa è una buona cosa.

Subito prima del Covid Laura stava preparando una mostra sulla natività in Afghanistan, sponsorizzata da un’importante associazione, e realizzata insieme a un altro lavoro fatto per Emergency, mostra che doveva essere inaugurata il 18 maggio ma poi con la pandemia tutto si è bloccato e in questo caso la situazione è ancora ferma. Laura, però, sta portando avanti quattro altri progetti ed è una donna incredibilmente positiva ed ottimista. Il suo sito, www.laurasalvinelli.com raccoglie tutti i lavori meravigliosi, reportage, collaborazioni, mostre, libri, fatti da Laura nel corso della vita e le foto sono in alta definizione: fate un piacere a voi stessi, visitatelo.
Tutte le foto sono pubblicate col permesso di Laura Salvinelli