Andrea Barzini: il Fratello Minore e l’arte sacra della scrittura

Andrea Barzini l’ho conosciuto per caso. Nella mia assoluta ignoranza in tema di cognomi famosi non avevo la minima idea che il cognome Barzini appartenesse ad una vera dinastia molto, molto nota fin da fine ottocento, soprattutto in ambito giornalistico-editoriale. Fra l’altro Andrea è così semplice e diretto, gentile, dalla mente aperta e creativa, che decisamente non sembra e non è un uomo di potere. Naturalmente, il fatto che non sia un uomo di potere, non significa che non sia un “Re” con una vasta corte di amici e ammiratori, ma, quando parlo di Re, penso al Re “senza corona e senza scorta” di De André.

Entrambi amiamo la letteratura e consideriamo la scrittura una cosa sacra e lui è stato così generoso da farsi intervistare dalla sottoscritta per parlare del suo libro “Il fratello minore” che ha recentemente pubblicato con successo per Solferino. Ma soprattutto, in questa intervista, si è aperto e ha parlato di cose personali e familiari con assoluta sincerità e serenità. Nel suo libro “Il fratello minore” Andrea racconta, fra le altre cose, la storia dello zio Ettore, entrato nella Resistenza – diversamente dal resto dei familiari e soprattutto dal padre di Ettore, ormai anziano, da sempre a fianco del fascismo – e poi arrestato dalle SS e mandato a Mauthausen, luogo in cui è morto. Il libro è davvero interessante, scritto molto bene e, cosa forse più importante, contiene l’anima di Andrea. Ogni libro dovrebbe contenere l’anima di chi l’ha scritto, ma ultimamente i libri che “contengono anime” sono diventati molto, molto rari…

Domanda: parlare della propria famiglia, a meno che non lo si faccia in modo ipocrita, con la fanfara insomma, è un vero mettersi a nudo. L’avevi già fatto in “Una famiglia complicata” nel lontano 1996 e adesso l’hai rifatto. Che cosa ti spinge a questa forma speciale di confessione, sicuramente molto coraggiosa ma anche un filo masochista?

Andrea: Nel caso specifico mio il problema era quello di avere una famiglia irrisolta. Io mi sono rotto la testa tutta la vita perché ci sono dei termini, tipo “famiglia disfunzionale” che in realtà raccolgono lo 0,1% di quello che è una famiglia che non ha funzionato. La mia è una famiglia seminata di lavori in corso, e di conseguenza io ne ho sempre sofferto e ci ho sempre ragionato, anche se malamente: criticavo l’uno, l’altro, me stesso, gli eventi perché ce n’erano tanti di eventi in cui c’eravamo fatti del male fra di noi, fino a che, ormai non più giovane, ho deciso che potevo affrontare il discorso “famiglia” in modo sereno. Ho individuato in questo zio dalla morte tragica una parte cospicua dei malesseri della famiglia. Questo zio che, essendo morto in un campo di concentramento era stato cancellato, dimenticato, pur avendo solo un anno e mezzo di differenza d’età con mio padre, è stato probabilmente anche in vita il capro espiatorio di tutte le dinamiche di una famiglia non felice e poi da morto ha rappresentato, in qualche modo, il silenzio su se stessi.

Ettore Barzini

D: il fratello minore del libro è tuo zio Ettore, uno dei fratelli di tuo padre, fratello che ha cercato di restare ai margini della famiglia fino a distaccarsene scegliendo la Resistenza. L’altro protagonista del libro, però, è tuo padre. Il sentimento che mostri per lui in questo libro è mutevole: spesso lo condanni ma poi lo giustifichi, lo tratti abbastanza male ma subito dopo ne citi le sue doti, le sue capacità di vario tipo, a iniziare dal saper scrivere. Provando a rispondere senza pensarci troppo, cosa provi con più forza per lui, l’amore o la condanna?

Andrea: L’amore, certo; la condanna non c’è. Ce l’avevo quando ero giovane, anche perché vengo dal ’68 e condannavamo chiunque non fosse come noi. C’è il cercare di capire. Mio padre era un uomo con delle grosse mancanze, che io giustifico perché era un cavallo da corsa, che ha corso per tutta la vita intorno a una carriera che era del tutto maschile. Un’epoca che apparteneva ai maschi, vanitosi, egocentrici, competitivi fra di loro in una competizione che a volte non potevi evitare. Mio padre era il primogenito, figlio di un padre famoso, con un super io enorme e ha fatto quello che la società gli chiedeva di fare. In più l’ha fatto molto bene, perché anche quello che scriveva lo faceva in modo cristallino ed era uno che cercava la perfezione. Io lo rispetto per questo. Ha avuto dei risultati, per la sua epoca, enormi; ad esempio è l’unico giornalista italiano che abbia avuto un best seller in America. Inoltre era molto simpatico, spiritoso, ironico, poi, certo, aveva dei difetti enormi, che erano anche i difetti di un uomo che non aveva avuto accanto una donna che lo facesse ragionare. Perché a parte la madre che era una donna straordinaria, ma che purtroppo è morta molto presto, non ha mai avuto donne di un certo livello come interlocutori. Lui prima si era scelto la Feltrinelli che era una donna che di umano aveva ben poco, nessuna intelligenza sentimentale e poi mia madre che era una milanese alto borghese anche lei molto a digiuno di conoscenze sentimentali.

D: Sappiamo che nella tua “complicata famiglia”, ma anche molto famosa, hai tanti parenti, fra cui sorellastre del primo matrimonio di tuo padre. Ludina, ad esempio, figlia della prima moglie di tuo padre, nel ‘96 ti ha accusato di ‘‘bracconaggio familiare, di pettegolezzi, di inesattezze, di aneddoti inventati”. Certo, adesso il tempo è passato e molti di questi parenti forse non ci sono più, ma i tuoi fratelli, cugini, figli, che cosa ne pensano di questo libro?

Andrea: Fra figli e nipoti qualcuno l’ha letto, qualcuno no, qualcuno me ne ha parlato con grande passione. Il problema è che la generazione che ci segue, quella dei quarantenni, è una generazione che non legge. Uno dei meriti di chi come me ha fatto il ’68 è quello di aver spezzato le catene di queste famiglie crudeli o problematiche o deboli e aver creato famiglie meno competitive, meno malate. Per fortuna loro, nipoti o figli di amici, non hanno il problema che avevo io, cioè di capire cosa era andato storto, quali erano i nodi da sciogliere. Questi nodi noi li abbiamo sciolti per loro e questo li rende liberi di guardare in avanti e non indietro, mentre io non lo ero.

D: tuo zio Ettore, come racconti nel libro, ha fatto da agnello sacrificale consegnandosi ai tedeschi quando poteva evitare di farlo. Sì, la vita di tuo nonno e della segretaria, in teoria dipendevano da lui, ma tuo nonno era sempre stato a fianco del fascismo, amico di gente importante e oggi è difficile capire se l’avrebbero davvero mandato ai campi o no. Probabilmente Ettore alla fine avrebbe dovuto consegnarsi, ma, a parer mio, l’ha fatto un po’ troppo presto. Come se non vedesse l’ora di farlo. Sicuramente un personaggio cristico, a me fa pensare al principe Miskin di Dostoevskij, famoso per la frase “La bellezza salverà il mondo” *. Secondo te cosa ha spinto Ettore a sacrificarsi in nome della famiglia?

Andrea: lui, sicuramente, di sua formazione, al contrario di mio padre e dell’altro fratello di mio padre, era uno che aiutava le persone. In questa direzione va la sua militanza, perché è una militanza generosa, lui – così come io ho ricostruito – era uno che prestava l’ufficio, che non si tirava mai indietro, nella direzione che lui aveva sempre avuto e senza nessuno a coprirgli le spalle. Ettore è un uomo modernissimo, femminile, e quando è tornato dall’Africa alla morte della madre, lui ha iniziato – in un certo senso – a fare da madre agli altri, ad aiutare tutti e sempre, tanto che il comune di Milano gli diede una medaglia per aver più volte salvato gente da palazzi che bruciavano, sotto ai bombardamenti. Parallelamente si è sempre tenuto lontano dalla famiglia rispetto alle sue scelte, di cui non ha mai parlato con nessuno. E, quando si è consegnato alle SS che lo aspettavano nel suo ufficio dove era andato mio nonno chiedendo “Cosa volete da mio figlio?” lui ha scelto di consegnarsi proprio perché, immagino, abbia detto “Questa è la mia vita e queste sono le mie scelte. Non voglio che nessuno paghi per me, nessuno si deve nemmeno mescolare con le mie storie”. Ricordiamo che c’era appena stato l’8 settembre, era il dicembre del ’43, Milano era invasa dai nazisti, sangue e torture, tradimenti, morti per le strade e mio nonno non riusciva a capire che diavolo stesse succedendo. Quindi suo figlio, Ettore, avrà pensato “Questo vecchio ormai patetico è meglio che io lo liberi subito” ed ha avuto questo atteggiamento molto compassionevole. Come il suo omonimo Ettore di Troia nel suo ultimo duello contro Achille, anche mio zio sapeva che sarebbe andato inevitabilmente incontro alla morte.

Ettore Barzini disegnato da Andrea Barzini

D: alla fine del libro dai tutta una serie di motivazioni sul perché tuo padre abbia scelto di cancellare l’esistenza del fratello dalla sua vita, dopo la morte di Ettore ovviamente, arrivando addirittura a far buttare via l’unico quadro che ritraeva il fratello dopo aver abbandonato il quadro per anni in soffitta. Le motivazioni che dai hanno tutte un senso eppure è come se mancasse un tassello, perché in fondo quando i due fratelli erano in vita, tuo padre gli era piuttosto legato. Naturalmente è solo una visione mia, ma se io avessi ragione quale potrebbe essere questo tassello?

Andrea: No no, hai ragione. Esiste un mistero che io ho cercato di spiegare, perché forse mio padre provava una sorta di rabbia nei confronti di questo fratello minore che era sempre stato libero, facendo una vita selvaggia, fregandosene delle autorità mentre mio padre essendo in carriera l’autorità la doveva blandire. Poi, come ho scritto, c’era anche una rabbia che aveva a che vedere col fatto che mio zio era entrato in quella borghesia silente, montanara che invece aveva espulso mio padre. Mio padre era tornato dall’America, molto giovane, ed era stato rifiutato dalla famiglia della donna che lui amava e che poi è diventata mia zia, perché in seguito mio padre ha sposato la sorella di quella donna. Del resto la borghesia milanese degli anni ’30 l’America non la conosceva e, principalmente questi suoceri, trattarono male lui e anche la sua famiglia. Trattarono sia lui che sua madre da arrampicatori sociali. L’altro ingrediente è che mio padre, a fine ’43, era dentro un matrimonio che era fallito, un inferno, con questa donna che non lo amava più e lui nemmeno amava più lei, che però era potentissima, in questa villa all’Argentario, isolata, con anche il pericolo di essere deportati perché erano tutti e due filo monarchici, con figli piccoli, mio padre depresso, mentre Ettore, lo spirito libero, si faceva arrestare per quella che mio padre forse vedeva come una leggerezza.

D: parlando di scrittura in generale, io ho la convinzione che non si può essere un vero scrittore se quello che scrivi non deriva da un’urgenza. Non lo dico solo io, lo diceva Hemingway, lo diceva Rilke. A volte quest’urgenza può essere anche di carattere economico, vedi Philip K.Dick che comunque, anche da ricco, sempre un genio sarebbe rimasto. La tua urgenza di sicuro non è economica, quindi, se ne hai una, qual è?

Andrea: Intanto io ho un’esigenza armonica, la scrittura dev’essere anche musica, e questo me l’ha insegnato mio padre. Questo bisogno di ricreare un mondo parallelo alla realtà, diceva la mia professoressa “mutevole e cangiante” attraverso la scrittura che è un doppio come l’arte, come la poesia, il disegno, come tutto quello che crea icone fuori dalla quotidianità e che lascia dei segni, è sempre un bisogno di raddoppiare la realtà o di trovare un altro luogo dove la realtà si conformi a delle intelligenze; perché il nostro problema, come esseri umani, avendo davanti una vita così contraddittoria e casuale è il bisogno di trovare un senso. Quando scopri che riesci a scrivere tre pagine che erano, una volta, qualcosa che avevi visto o vissuto o immaginato ma una volta scritte diventano una cosa diversa, un’icona, allora capisci che la scrittura è una strada aperta. Io l’ho scoperto da ragazzino, perché ho sempre scritto, e anche quando scrivevo sceneggiature non l’ho mai fatto in modo sciatto, e lo facevo un po’ soffrendo, perché scrivere sceneggiature è una cosa molto diversa, anche perché puoi scrivere solo a due dimensioni: i personaggi o agiscono o parlano. Poi, nel tempo ho scritto alcuni racconti, che sono anche piaciuti, ma avevo una doppia paura: intanto quella di confrontarmi con questo “demone familiare” e poi la condanna di mio padre, che diceva “Non c’è nulla di più patetico di uno scrittore che non ha avuto successo”. Lui, che per tutta la vita aveva puntato al grande successo raggiungendolo, disprezzava molto quelli che non avevano successo. Io avevo quindi queste parole di mio padre in testa e sono riuscito a distaccarmene solo quando sono diventato sufficientemente maturo. Questo libro, fra l’altro, l’ho scritto senza un editore, senza sapere se ne avrei trovato uno, facendo proprio un’operazione che mio padre avrebbe definito “velleitaria”. Invece questo libro ha avuto un’accoglienza, una risposta, scrittori e giornalisti l’hanno presentato, ne hanno parlato, ne hanno discusso e io mi sono sentito per la prima volta, rispetto alla scrittura, riconosciuto.

*“La bellezza salverà il mondo” è la frase che viene attribuita al principe Miškin, il protagonista del romanzo “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij. In realtà la frase non verrà mai pronunciata dal Principe protagonista, ma è una domanda che gli viene posta: “È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?” Cosa intende Dostoevskij quando parla della Bellezza?

Il Principe-Idiota definisce la Bellezza un enigma. Quando Dostoevskij scrisse la famosa frase non si riferiva alla bellezza meramente estetica come la intendiamo oggi, ma alla bellezza della bontà. Il mondo si salverà quando la bella bontà tornerà ad essere una mèta.

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